Warning:
Questa storia è ispirata al libro “La Macchina
della Morte”, a cura di Rayan
North, Matthew Bernardo e David Malki, una raccolta di racconti di vari
autori
autodidatti che hanno immaginato delle storie basate sulla stessa
impronta
fondamentale: l’esistenza di una macchina in grado di
prevedere con assoluta
sicurezza la causa della morte di una persona in seguito ad un banale
esame del
sangue. Niente data, niente dettagli, solo delle criptiche parole che
lasciano
spazio a molteplici interpretazioni.
Non
definirei questa fic tanto triste quanto forse grottesca. Ho messo
tematiche
delicate per sicurezza, ma non credo che siano necessarie. O
sì? Chi lo sa.
Poiché non ci sono scene molto grafiche di sesso o di
violenza non ho aggiunto
neanche il quadratino rosso; quello arancione è anche lui
per pura sicurezza.
Però
potrebbe causare disagio a qualcuno. Dopotutto ogni personaggio di
questa fic
ha il proprio destino segnato su un foglietto di carta e lo
affronterà con
stati d’animo imprevedibili. Inoltre alla fine
dirò, come in un epilogo, in che
modo tutti i personaggi hanno incontrato la loro fine.
Vi
ho incuriosito almeno un po’?
Se
sì non vi resta che scendere un po’ più
giù in questo mondo grottesco, dove la
nostra fine è sputata fuori da una scatola nera.
Le
storie della Macchina della Morte
Capitolo
1: Autogestione
Vista da fuori, la Macchina non
aveva un
aspetto così minaccioso.
Certo, se si riusciva a non
pensare che
quell’aggeggio, dopo un semplice esame del sangue, era capace
di sputare
foglietti con predizioni infallibili su come il malcapitato di turno
avrebbe
lasciato questo mondo, allora quella scarna scatola nera poco
più grande di una
vecchia radio non faceva poi tanta paura.
Persino il dolore al dito, dopo
che l’ago
per il prelievo lo aveva punto, diventava importante quanto una puntura
di
zanzara.
Eppure al solo pensiero di
ciò che poteva
essere scritto su quei foglietti espulsi dalla Macchina faceva
rivoltare lo
stomaco a tutti, con un rumore simile al gracidio degli ingranaggi che
consegnavano ai clienti paganti la causa sicura del loro decesso.
Era un misto di eccitazione e
paura, quello
che suscitava la macchina. Forse per questo nessuno pensò di
liberarsene. Era
stata inventata per caso e aveva cominciato a stregare le persone con
il
fascino che solo un oggetto maledetto poteva esercitare,
tant’è che ora esistevano
accaniti sostenitori della sua effettiva utilità e gente
(specialmente quelli
insoddisfatti del proprio destino) che vi si opponeva con tutte le
proprie
forze, arrivando a volte alla violenza fisica.
Il problema era che, nonostante
la presenza
di queste due fazioni, la maggior parte della gente se ne fregava.
Ormai la
Macchina faceva parte della loro vita, come l’influenza, la
coca cola, le
tasse…
Impossibile vivere con lei,
impossibile
vivere senza di lei.
Steve non ci pensava poi molto,
faceva
parte degli indifferenti. A lui, che la Macchina esistesse o meno, non
faceva
né caldo né freddo. Almeno fino a un certo punto;
c’era stato un periodo in cui
l’aveva odiata a morte, e non aveva nulla a che fare con il
suo foglietto. Ma ormai
aveva risolto il problema (con eleganza, poteva aggiungere), e
l’esistenza di
quell’aggeggio era tornata ad essergli indifferente.
In quel momento Steve si stava
godendo un
caffelatte con una fetta di torta alle fragole nel suo bar preferito:
le pareti
intonacate di azzurro e il profumo zuccheroso di dolci caldi era molto
rilassante. Ci portava spesso anche Tony, perché il locale
era uno di quelli
senza la Macchina della Morte, e sapeva che il suo ragazzo ci sarebbe
stato
benissimo. Oggi però era solo: Tony aveva avuto uno dei suoi
momenti e aveva
detto che avrebbe fatto una passeggiata, ma che sicuramente sarebbe
tornato a
casa prima di sera.
Probabilmente però, si
sarebbero visti
prima.
Infatti il suo cellulare
trillò. Guardò il
numero: era quello di Bucky.
Il suo amico non lo chiamava mai
quando era
in servizio, perciò il motivo della telefonata poteva essere
uno soltanto.
Ormai succedeva talmente spesso che Steve non se ne sorprendeva
più; vista la
situazione non riusciva neppure ad arrabbiarsi, diciamo soltanto che
per lui
recuperare Tony alla Centrale di Polizia era diventata pura e semplice
routine,
normale come veder sorgere il sole. Posò la tazza di
caffelatte sul tavolo,
delicatamente, e si portò all’orecchio il
cellulare.
-Quante ne ha distrutte
stavolta?- domandò
subito, senza disturbarsi a salutare.
Dalla Centrale, Bucky rispose
divertito:
-Soltanto due. La multa sarà una sciocchezza.-
-Arrivo a prenderlo- disse Steve.
Chiuse la
comunicazione e si alzò, infilandosi la giacca e lasciando
un paio di dollari
di mancia sul tavolino.
Alla Stazione di Polizia Tony
aspettava in
corridoio, seduto al centro di una fila di sedie di plastica con un
paio di
manette ai polsi e Bucky e Rumlow che gli facevano la guardia con le
braccia
conserte, ognuno per lato.
Steve attraversò
l’ingresso affollato, dove
l’aria fresca striata di fumi di scarico si mescolava alla
puzza di sudore
mista a deodorante di troppa gente indaffarata. Pensava sempre che in
quel
posto ci sarebbe stato bene un impianto di ventilazione migliore.
Appena lo
vide arrivare, Tony sorrise, e lo salutò con tutte e due le
mani, perché le
manette gli impedivano di separarle.
-Ciao bellissimo.-
Steve sorrise a sua volta,
poggiandosi le
mani sui fianchi.
-Ciao. Ti senti un po’
meglio?-
Tony si stravaccò
sulla sedia. Allargò le
gambe al massimo e rovesciò indietro la testa per guardarlo.
–Abbastanza,
grazie.-
-Lo spero bene, dopo quello che
hai fatto.
Ti avviso però che il tuo hobby comincia a diventare
costoso. Un giorno potrei
non avere abbastanza soldi in tasca per tirarti fuori da qui.-
Guardò Bucky e
Brock, due macchie blu notte nelle loro uniformi ufficiali da
poliziotti.
–Allora, quant’è stavolta?-
Bucky esibì un
sorrisetto; si alzò in piedi
e tirò fuori dalla tasca un blocchetto delle multe, quindi
fece un rapido
riepilogo dei danni.
-Dunque… Le accuse
sono le solite:
vandalismo, distruzione di bene pubblico, disturbo della
quiete… Nel complesso
sono due Macchine della Morte prese a randellate con una mazza da
baseball in
un Centro Commerciale, distrutte oltre ogni possibilità di
riparazione. In
totale vengono… cento novantatré dollari e
ventidue centesimi.-
Il biondo estrasse il portafogli
e cominciò
a rovistarci dentro.
-Pensavo peggio.-
-Il disturbo della quiete potevi
anche tralasciarlo
Buck- disse Tony, prendendo a calci l’aria.
-La vecchietta che hai
terrorizzato con il
tuo exploit non la penserebbe così.-
-Lo dico sempre che gli anziani
dovrebbero
stare alla larga dai luoghi troppo affollati.-
Rumlow aprì le manette
di Tony con una
chiavetta presa dalla sua cintura. Si rivolse a Steve con la faccia di
uno che
si è svegliato con la luna storta.
-Sono stufo di correre dietro al
tuo
fidanzato quando decide che non gli va a genio il modo in cui sono
arredati i
centri commerciali, Rogers. Se ha voglia di rompere Macchine della
Morte
compragliene un po’ e fagliele fracassare a casa vostra; non
costano care-
disse.
-Costerebbe certamente di meno di
tutte le
multe messe insieme- concordò Steve, aiutando Tony ad
alzarsi. Una volta in
piedi il moro dondolò sulle gambe, e si ficcò le
mani in tasca. –Naaah, così
non c’è più gusto- disse, nascondendo
gli occhi sorridenti dietro la frangia
castana.
Brock Rumlow gli puntò
contro l’indice con
aria accigliata. –Se mi fai perdere tempo un’altra
volta con queste stronzate
ti faccio passare la notte in una prigione vera, altro che multa.-
Detto questo
se ne andò, borbottando qualcosa di inintelligibile e
accarezzando la pistola
che emergeva dalla fondina. Bucky si aggiustò il berretto e
fissò i suoi amici.
-Non fate caso a lui. Odia essere
disturbato per queste piccolezze; vorrebbe che gli affidassero soltanto
compiti
pericolosi o pattuglie in quartieri degradati per avere una scusa per
tirare
fuori la pistola. E’ un coglione ma non è
cattivo.-
-Allora, possiamo andare?- chiese
Steve.
-Certo. Ma Tony, cerca di non
farti
rivedere qui per almeno un paio di settimane, o cominceranno a pensare
che fai
parte di una di quelle cellule sovversive.-
In un certo senso aveva ragione.
Sulle
Macchine della Morte la gente aveva opinioni contrastanti, quindi era
comprensibile che alcuni sfogassero su di esse la rabbia per una
predizione
particolarmente nefasta. In più se ne producevano talmente
tante che, a meno
che qualcuno non decidesse di piazzare una bomba direttamente in
fabbrica,
la distruzione di qualcuno di quegli aggeggi veniva punita con una
semplice
contravvenzione. Il problema era che Tony collezionava le multe come le
infinite copie tutte uguali di una figurina.
I due fecero per uscire, quando
il moretto
si ricordò di una cosa molto importante. Fece dietrofront e
tornò da Bucky, che
stava contando i soldi.
-Rivoglio la mia mazza- disse
Tony. Era a
quel punto che Steve solitamente avrebbe voluto trascinarlo a casa di
peso e
fargli un discorsetto.
-Tony…-
-E’ mia e la rivoglio-
insistette il moro,
tendendo la mano.
Bucky scosse la testa.
–Non si può
fare. Quella roba è stata
sequestrata.-
-Ma è mia! Vi denuncio
tutti se non me la
restituite!-
Steve vide sbucare Rumlow dal
fondo di un
corridoio, attirato dal casino come una mosca dal miele. Immaginava
come
sarebbe rimasto deluso una volta scoperto che si trattava solo di Tony
che
faceva un’altra scenata. Guardò il volto arrossato
del suo ragazzo che
cominciava a infervorarsi, e decise che sarebbe stato opportuno levare
le tende
prima che sulla fedina penale di Tony comparisse anche
“Aggressione a pubblico
ufficiale”.
Strinse la spalla del moro con
una presa
d’acciaio.
-Andiamo via, Tony.-
Era un tono a cui nessuno
riusciva ad
opporsi; quando voleva Steve riusciva a manifestare una tale
autorità da fare
quasi paura. Tony gli tenne il broncio, ma obbedì,
voltandosi per andarsene. Bucky
gli gridò dietro:
-E smettila di distruggere le
Macchine!-
Tony, senza voltarsi, gli
mostrò il dito
medio.
-Voglio proprio vedere che farai
quando una
di quelle cose sputerà fuori il tuo cartellino!-
In strada, Steve camminava
tranquillo,
felice di vedere che il colorito di Tony era passato dal rosso ad un
più
salutare rosa, segno che si era un po’ calmato. Gli
circondò le spalle con un
braccio e lo tirò a sé. Sapeva già
perché aveva fatto quello che aveva fatto, e
lo capiva. Gli voleva bene.
-Brutta giornata?-
domandò. L’altro fece sì
con la testa.
-Ho ritirato gli ultimi esami del
sangue.-
-E… come vanno?-
Tony sospirò e non
disse niente. Steve se
lo tirò contro, in modo che la sua testa scura fosse a
proprio agio, poggiata
nell’incavo del suo collo. Poco importava che fosse difficile
camminare, lui
voleva solo che Tony si sentisse al sicuro, perché era in
giorni come quelli
che la disperazione rischiava di prendere il sopravvento su di lui:
ricordare
come aveva ottenuto il suo responso lo riempiva sempre di uno
sgradevole senso
di impotenza difficile da scacciare.
Passarono davanti ad un negozio
di articoli
sportivi, e Tony sollevò la testa. Guardò negli
occhi azzurri di Steve con due
iridi ambra dilatate e supplichevoli. Il biondo intuì
ciò che voleva fare.
-Tony, no… Ne hai
già rotte due oggi.-
-Ti prego Steve-
scongiurò l’altro,
aggrappandosi al suo braccio. –Solo una e poi basta,
promesso.-
Il ragazzo rovesciò
indietro la testa in
esasperazione. Verso sé stesso, che non riusciva a dire di
no a quegli occhi;
verso le Macchine della Morte, che cambiavano la vita delle persone (o
forse
solo le persone); verso l’ingiustizia di quelle
previsioni… Steve a volte
doveva riconoscere che esistevano delle cose più grandi di
lui a cui non valeva
la pena cercare di opporsi, e una di quelle era lo sguardo speciale del
suo
ragazzo.
-E va bene, una soltanto. Ma
scegline una
sistemata in un posto isolato, stavolta. Rompere quelle dei centri
commerciali
significa proprio implorare di essere arrestati.-
Sul viso del moretto si
aprì un sorriso a
trentadue denti. –Sei il mio fidanzato preferito, Steven
Grant Rogers.-
-E l’unico, spero-
sorrise l’altro,
lasciandosi trascinare dentro il negozio di articoli sportivi.
Ne emersero venti minuti dopo
alleggeriti
di sessanta dollari, ognuno con una mazza da baseball in mano: quella
di Tony
era argentata, di metallo, leggera e maneggevole; quella di Steve di
legno, un
po’ più grossa, con il manico fasciato da un
nastro adesivo porpora.
-E’ bello sapere che
sei con me in questa
impresa. Però insisto nel dire che avresti dovuto scegliere
una mazza di
metallo; quelle di legno si rompono facilmente- gli disse Tony,
roteando la
mazza nell’aria, facendo attenzione a non colpire i passanti.
Steve fece dondolare la sua
contro la sua
gamba. –Non è un’impresa, Tony,
è solo il tuo modo di rispondere al troppo
stress. E poi anche le mazze di metallo si rompono: si piegano.-
-Ed è adorabile come
tu ti lasci convincere
a rompere qualcosa per starmi vicino mentre gestisco tutto questo
stress. E
comunque le mazze di metallo sono più fighe.-
Il ragazzo scrollò le
spalle. Avrebbe
voluto dire a Tony che ormai non era più solo, che erano
legati più di quanto
credesse, che aveva deciso di condividere volentieri il suo destino
perché lo
amava: erano una coppia, anche se Tony non lo credeva possibile, date
le sue
condizioni. Ma non poteva farlo, non ancora. Fargli compagnia mentre
sfogava la
sua rabbia verso un destino assurdo era l’unico modo che
conosceva per mostrargli
attivamente il suo supporto.
Si fermarono davanti a una
piantina della
città e ne spiarono le icone nere che corrispondevano alle
Macchine della Morte
sparse per il quartiere.
-Ce n’è una
a duecento metri da qui- fece
Steve, indicando un rettangolino nero sulla mappa. –Nessun
ristorante o
supermercato vicino. Magari è una di quelle macchine
esterne, sistemate come i
bancomat.-
-Beh, che aspettiamo?-
domandò Tony,
caricandosi la mazza sulla spalla. –Andiamoci subito.-
Marciarono con le mazze in spalla
come due
soldati armati di fucile dritti verso la missione, finché
non trovarono un
cartello con una grossa freccia nera dal significato inequivocabile. La
seguirono, e arrivarono di fronte ad una struttura metallica che
sporgeva dal
muro, come un vecchio telefono pubblico, solo che questo era nero e non
aveva né
schermo né cornetta, ma solo un buco cilindrico in cui
infilare il dito per il
prelievo di una goccia di sangue e due fessuri sottili: una per
infilare i
soldi e una da cui uscivano i cartellini.
Tony vi si piazzò
davanti a gambe larghe,
le dita che accarezzavano il manico della mazza. –Un colpo
per uno- decise, e
un secondo dopo sferrò il primo.
La struttura interna della
Macchina era
rivestita da un guscio di alluminio sottile: la famosa scatola nera,
che si curvò
sotto quel colpo con un muggito metallico.
La botta di Steve ebbe un effetto
simile, e
la scatola si ritrovò con un profondo solco proprio nel
mezzo.
Il successivo colpo di Tony
scatenò una
pioggia di scintille. I circuiti interni cominciarono a frizzare
feriti.
-Ora sì che si
ragiona!- rise, e contro le
regole diede un altro colpo, ancora più forte, e poi un
altro ancora. I suoi
occhi brillavano, ma non era felice.
Vedendolo così, Steve
ebbe voglia che
quello che stavano facendo finisse presto. Voleva andare a casa con
Tony,
abbracciarlo, dirgli che andava bene piangere se ne aveva voglia,
magari fare
l’amore… Avrebbe voluto dirgli che ormai potevano
farlo anche senza preservativo,
non sarebbe cambiato niente.
La sua mazza di legno si
abbatté su
quell’aggeggio infernale con tanta forza da farlo a
metà. Si aprì come una
pentolaccia, senonché, invece delle caramelle, piovvero
fuori fili elettrici,
aghi sottili e un rotolo di carta; piccoli tasti contrassegnati da una
lettera
ciascuno colarono a terra insieme a un fiotto di inchiostro come denti
sputati
da una bocca presa a pugni troppe volte.
Steve guardò la mazza:
il legno si era
irrimediabilmente incrinato proprio al centro.
-Wow, Steve, che colpo!-
-Già. Che colpo- disse
una voce un po’ meno
divertita.
Entrambi si voltarono, e si
trovarono di
fronte un poliziotto che si portava addosso parecchi anni e parecchi
chili di
troppo. La pancia prominente sbordava dai pantaloni e tirava la camicia
con una
tale forza che ai bottoni sarebbe mancato solo un valido motivo per
esplodere
come proiettili. Sul petto aveva una targhetta con scritto
“Franks”. Si sistemò
il berretto sui radi capelli ingrigiti con una mano e con
l’altra sfiorò la
pistola.
-Signor agente, possiamo
spiegare…- iniziò
Tony, sicuro che sarebbe finito un’altra volta in Centrale.
Il poliziotto sbuffò.
-Cos’è, non
siete stati contenti del
responso della Macchina? Fate un po’ vedere i vostri
cartellini prima che vi
sbatta dentro.- Tese una mano aprendo e richiudendo le dita,
impaziente.
I ragazzi pensarono che, magari,
quel
poliziotto aveva ricevuto un responso talmente orribile che avrebbe
potuto
capirli se ci avessero ragionato. Certo, un biglietto che diceva SONNO
poteva
non essere una buona ragione per fracassare una Macchina, ma uno che
diceva
INVESTITO DA UN TIR lo avrebbe giustificato…
Chissà.
Steve estrasse il suo biglietto
dal
portafogli. Tony il suo se lo teneva sempre in tasca, e lo porse per
primo al
poliziotto.
C’era scritto: AIDS.
L’agente fece
istintivamente un passo
indietro, e studiò il corpo del ragazzo come in cerca di
eventuali ferite da
cui potesse sgorgare sangue infetto. Tony roteò gli occhi:
ci era abituato, a
quelle reazioni.
Appena recuperò la
presenza di spirito il
poliziotto fece un mezzo sorriso e chiese: -Ci siamo divertiti troppo
senza
guanto, eh?-
Le sopracciglia bionde di Steve
si unirono
in un’espressione accigliata che gli scurì gli
occhi; gonfiando il petto e
tendendosi in tutta la sua altezza si mise a fianco del suo ragazzo.
Tony poggiò i pugni
sui fianchi con aria
seccata. Quell’imbecille avrebbe dovuto ricordarsi che aveva
ancora una mazza
in perfette condizioni dalla sua parte, e non aveva nessuna paura di
usarla.
-Come no. Me li sono fatti tutti da qui a Brooklyn. A proposito, lui
è di
Brooklyn- disse, indicando Steve con un cenno della testa.
L’agente fece un
altro passo indietro.
-Anche tu muori di AIDS?-
-No- disse il biondino. Gli porse
il suo
biglietto e il poliziotto lesse: LIBERO ARBITRIO.
-“Libero
arbitrio”? E che diavolo
significa?-
-Significa “Potere di
fare le proprie
scelte senza essere condizionati da fattori esterni”-
citò Tony. Il poliziotto
sbuffò.
-Lo so che cosa vuol dire. Quello
che
intendevo è… Come fa uno a morire di libero
arbitrio? E’ suicidio? Ma allora
non avrebbe dovuto esserci scritto SUICIDIO?-
Steve recuperò il suo
cartellino dalle mani
dell’uomo e se lo rimise nel portafogli. –Credo che
lo scopriremo quando
succederà.-
Tony notò che i resti
della Macchina della
Morte avevano preso a fumare e sfrigolare leggermente. Ci sarebbe stato
ancora
qualcosina da demolire, ma decise che dopo quel pomeriggio sarebbe
stato meglio
andarsene a casa. Dopotutto, sfogarsi si era sfogato, i suoi insulti li
aveva
ricevuti, quindi che gli restava da fare?
-Allora, siamo in arresto?-
L’agente di pattuglia
tirò fuori da una
tasca dei pantaloni nascosta dalla pancia un cartellino e glielo
mostrò.
Diceva: ESPLOSIONE.
-Quello stronzo di mio cognato mi
ha
convinto a fare il test e guardate che cosa ha sputato quella macchina
del
cazzo.-
Tony sogghignò.
Chiaramente il signore non
era soddisfatto del servizio.
-Per quello che mi interessa
potete anche
distruggerle tutte, ma fatelo dove nessuno può vedervi. Per
questa volta passi,
ma che non vi riveda più nella mia zona con quelle maledette
mazze.-
Girò sui tacchi e li
lasciò tra le macerie
della Macchina che avevano disintegrato, gridando: -Non che serva a
molto
ormai, ma ti consiglio di usare un preservativo, ragazzo. Almeno
eviterai di
contagiare tutto il quartiere.-
-Ed io ti consiglio di stare
lontano dalla
cucina!- gli gridò di rimando Tony. –Le esplosioni
si verificano anche in
casa!-
Steve gli si mise vicino.
–Lascialo
perdere, è solo uno stronzo.-
-Quello l’avevo capito-
borbottò Tony.
Gettò la mazza ormai scheggiata in un angolo, dimentico dei
trentacinque dollari
che aveva speso per comprarla. –Andiamocene a casa.-
Cercava di non darlo a vedere, ma
Steve
sapeva quanto quel genere di commenti potesse ferirlo. Di sicuro
ferivano lui.
Gli andò dietro,
afferrandogli una mano
perché camminassero insieme. Tony si divincolò
dalla presa, stizzito.
-Lasciami andare!-
Steve intrecciò
saldamente le loro dita e
se lo tirò vicino. –Vieni qui.-
L’altro si arrese, e
soffocò nel collo del
biondo uno sbuffo strozzato che conteneva in egual misura dolore e
rabbia.
Tutti pensavano che Tony si fosse
preso
l’AIDS con il sesso, e in effetti quattro anni fa, prima che
conoscesse Steve,
avrebbero potuto avere ragione. Uomini o donne non faceva differenza,
per Tony
consumare un rapporto era l’unico modo per sentirsi veramente
connesso con le
persone. Era un mordi e fuggi della loro anima, qualcosa che poteva
assimilare
per il tempo di un orgasmo, in cui si illudeva che la sua vita
riuscisse a
intrecciarsi con quella di un’altra persona. Si comportava
come se, in quei
corpi, stesse cercando qualcosa che non riusciva a trovare.
Nonostante i rapporti frequenti e
disimpegnati, nessuno poteva immaginare quanto Tony fosse solo prima di
conoscere Steve.
Poi erano diventati due, e da
allora non
era più stato con nessuno: Tony sapeva essere monogamo
quando trovava qualcuno
per cui ne valesse la pena, e con Steve aveva decisamente trovato
quello che
stava cercando.
Ma ovviamente prima di questo
c’era stata
la Macchina della Morte.
Lo aveva convinto Rhodey a fare
il test, lo
avevano fatto entrambi, una notte in cui erano ubriachi e la compagnia
veniva a
mancare. In quel periodo pareva che le notti di Tony non potessero
passare
senza che avvenisse un qualche tipo di penetrazione, fosse quella di un
corpo o quella
di un ago. Farsi entrare dentro qualcosa dava sempre la sensazione di
essere un
po’ più pieni e un po’ meno soli.
Non sembrava niente di
ché, finché la
Macchina non aveva sputato il biglietto con scritto AIDS.
Tony se ne era stupito. Aveva
fatto uno
screening neanche una settimana prima, perciò era sicuro di
non essere stato
contagiato da uno dei suoi partner occasionali. Da allora, per non
rischiare e
ritardare il più possibile l’avverarsi del
responso, aveva deciso di prendere
precauzioni serie durante ogni tipo di rapporto. Preservativo sempre e
comunque, persino con i lavoretti di bocca o di mano; non si poteva mai
sapere
le ferite aperte che la gente si portava addosso. Non avrebbe
più leccato una
donna in nessun posto, neanche se questa lo avesse supplicato in
ginocchio, e
neppure avrebbe acconsentito a giochi sadomaso con gente di cui non si
fidava:
si faceva presto a trovare un matto che affondasse troppo i denti o le
unghie,
o che, semplicemente, si sfilasse il preservativo a tradimento.
Nonostante tutte le sue
precauzioni, un
giorno, al lavoro, gli capitò di sentirsi un vero schifo.
Svenne senza
ricordare un momento in cui era stato più male di
così.
All’ospedale gli
avevano fatto una serie
completa di esami del sangue, e aveva scoperto di avere avuto un crollo
feroce
di globuli bianchi, nonché il virus dell’AIDS che
circolava nel suo sangue
libero come se fosse a casa sua.
Non riusciva a spiegarsi come
l’avesse
preso; con i rapporti sessuali no di sicuro, era stato talmente attento
da
poter interpretare il poster boy del sesso sicuro.
E allora come?
I medici chiesero: “Fa
uso di droghe
iniettabili, è solito operare scambi di siringhe usate,
è stato aggredito o
vittima di una violenza sessuale non denunciata?”
No. No. No. E no!
“Ultimamente
è entrato in contatto con aghi
o strumenti chirurgici che aveva ragione di credere non essere
sterili?”
Ci pensò. Si
sentì gelare.
La Macchina.
L’unico ago che avesse
toccato il suo corpo
era quello della Macchina della Morte con cui aveva fatto il test un
anno prima.
Venne aperta
un’indagine. Fortunatamente la
Macchina che avevano usato lui e Rhodey non era in una zona molto
frequentata,
e la scorta di lancette non era stata rinnovata da quando Tony aveva
fatto il
test. Le analizzarono.
Venne fuori che effettivamente
uno degli
aghi era infettato con il virus dell’HIV; c’erano
inoltre il sangue di Tony e
quello di un maschio sconosciuto. Le indagini rivelarono che il
meccanismo si
era inceppato dopo che lo sconosciuto aveva fatto il test, impedendo
all’ago di
essere sostituito, e così la lancetta aveva punto due
persone una dopo l’altra,
contagiando il cliente successivo.
Tony era rimasto troppo scioccato
persino
per capire che la società produttrice della Macchina gli
aveva offerto un
grossissimo risarcimento purché non facesse loro causa. Lui
non la fece.
Accettò i loro soldi in modo quasi meccanico. Tanto, con una
causa legale ne
avrebbe solo avuti un po’ di più, ma in fondo che
importanza poteva avere?
L’unica cosa che
contava per lui era che
per colpa di quel maledetto aggeggio si era preso una malattia dalla
quale era
impossibile guarire, e avrebbe corso il rischio di trasmetterla ad
altri se non
fosse stato più che prudente.
L’aver conosciuto Steve
gli era sembrato
l’unico vero risarcimento che la vita potesse offrirgli dopo
quella fatale
scoperta. Lo amava, Steve stravedeva per lui; insieme erano felici e,
anche se
Tony ci aveva pensato molto bene prima di fare sesso con lui, alla fine
si era
lasciato persuadere che, finché avessero preso le dovute
precauzioni, sarebbe
andato tutto bene.
Ai tempi dei loro primi incontri
non aveva
ancora detto a Steve di avere l’AIDS; non voleva far scappare
la cosa migliore
che gli fosse capitata, almeno non prima di sentirsi lui stesso a suo
agio con
la propria condizione. E dopo un po’, col tempo, aveva
imparato a conviverci, e
non ci pensava più di tanto. Eccetto le volte in cui faceva
gli esami del
sangue per tenere d’occhio i suoi globuli bianchi. Se
nonostante gli
antiretrovirali la loro concentrazione scendeva un po’,
allora la disperazione
si faceva troppo grande, e prendeva una mazza o qualsiasi altro corpo
contundente che riuscisse a trovare, e andava alla ricerca della
Macchina più
vicina.
Questo perché non
poteva distruggere sé
stesso.
Si sentiva colpevole tanto quanto
la
Macchina: se non avesse fatto quello stupido test non si sarebbe mai
neanche
ammalato, ma ormai era inutile piangere sul latte versato.
Non era riuscito a tenere segreto
a Steve
il suo piccolo antistress molto a lungo.
Dopo che Bucky era stato
traferito al
distretto del loro quartiere, Tony non aveva più potuto
evitare che Steve
sapesse, e a quel punto tanto valeva dirgli tutta la verità.
Era convinto che, una volta
saputo che era
sieropositivo, Steve se ne sarebbe andato, non era la prima volta che
succedeva; quando venivano a conoscenza di cosa si portava nel sangue,
le
persone si assicuravano sempre di tenere le debite distanze da lui.
Viste le
volte in cui avevano dormito insieme magari gli avrebbe persino fatto
causa per
tentato omicidio, chissà.
Invece non era successo. Steve
era rimasto,
contro ogni aspettativa, e dopo un po’ aveva deciso di fare
lui stesso il test
della Macchina della Morte.
Era venuto fuori: LIBERO
ARBITRIO, chissà
cosa significava. Tony comunque era contento che non fosse uscito AIDS.
Significava che avrebbe potuto averlo accanto a sé quando
sarebbe morto, avrebbe
potuto vederlo invecchiare senza consumarsi come sarebbe invece toccato
a lui.
Se c’era una cosa che
Tony Stark aveva
imparato dopo essersi ammalato era che nella vita
l’importante era cercare
sempre il lato positivo delle cose. Tony era uno a cui la vita aveva
dato
parecchi limoni, ma lui aveva imparato a farci la limonata.
Così andava avanti, a
parte gli occasionali
istinti assassini contro le Macchine della Morte.
A casa, finalmente. Al sicuro nel
loro
appartamento.
I muri color crema e le tendine
da poco
impregnate dell’odore della polvere che scintillava
all’interno dei raggi di
sole non erano mai stati tanto confortanti come quando li vedeva
insieme a
Tony.
Appena la porta fu chiusa, Steve
gli mise
le mani sui fianchi e lo attirò a sé, soffocando
ogni protesta con un bacio.
Gli veniva quasi da ridere ogni volta che si baciavano,
perché Tony stava
sempre attento ai denti di entrambi, affinché nessuno dei
due mordesse
accidentalmente l’altro. Ne risultava un bacio bagnatissimo,
con la lingua di
Tony che si muoveva da tutte le parti per attutire gli scontri e un
rivolo di
saliva che sfuggiva dalla sua bocca mentre lui sospirava per lo sforzo
di
fornire aria a tutto quel processo. Non riusciva ancora a convincersi
di non
poter infettare nessuno con un bacio.
Anche quella volta, Steve rise.
-E’ una cosa seria-
borbottò Tony. Non
voleva contagiarlo in alcun modo, neanche per sbaglio, non se lo
sarebbe mai
perdonato.
Steve gli passò il
pollice sul mento,
asciugando la saliva.
-Hai bisogno di rilassarti-
disse,
solleticando il bordo dei suoi pantaloni e infilandoci sotto le dita.
Tony lo
bloccò.
-Preservativo. E se vuoi toccarmi
così usa
i guanti di lattice.-
-Tony, davvero…-
-Non sto scherzando.-
Steve gli lasciò un
bacio sulla guancia e
rimase lì sul suo viso, assaggiandone il calore. Parlando,
le sue labbra si
muovevano sulla pelle di Tony, facendogli correre brividi lungo la
schiena. –Sei
fortunato che ti amo, altrimenti non mi presterei a queste cose.-
Tony non l’aveva mai
più pensato da quando
si era preso l’AIDS, ma in momenti come questi si sentiva
fortunato davvero.
-Sì, lo sono.-
Si lasciò condurre in
camera da letto,
senza neanche lontanamente sospettare quello che Steve aveva fatto mesi
addietro.
Il biondo sorrise di nascosto.
Prima o poi
avrebbe dovuto dirglielo; non ancora però.
Quando lo aveva conosciuto era
stata dura
fare breccia nel suo cuore, non aveva mai incontrato nessuno
così chiuso in sé
stesso. Naturalmente allora non sapeva ancora che al naturale carattere
di Tony
si fosse aggiunta l’AIDS, e che tendeva a non approfondire i
rapporti ancora
più di un tempo. Ironicamente, lui stesso aveva scoperto di
riuscire ad aprirsi
completamente soltanto con quell’individuo eccentrico e
arrogante, forse perché
la lotta per arrivare a lui rendeva inutile la sua, di maschera. Con
Tony aveva
scoperto le gioie di non essere più un così bravo
ragazzo.
Erano stati felici insieme.
Poi Tony gli aveva confessato di
essere
sieropositivo. Gli aveva raccontato tutta la storia alla Centrale di
Polizia,
il loro luogo d’incontro dopo che il moro aveva avuto una
brutta giornata; e
Steve che pensava chissà cosa... Comprensibile che ce
l’avesse con le Macchine.
Sarebbe morto prima del tempo per
colpa di
uno di quegli aggeggi.
Steve smise di respirare quando
metabolizzò
la cosa. Si rese conto però che doveva essere forte. Non
avrebbe permesso a
niente e nessuno di portargli via Tony, non finché lui era
in vita, non poteva
accettarlo, semplicemente. Ma come risolvere il problema di una
malattia
incurabile? Steve
non era il tipo d’uomo
che si lasciava spaventare. Non aveva mai visto Tony così
fragile e solo come
quando gli aveva confessato la sua malattia; voleva dimostrargli che
lui gli
sarebbe sempre stato accanto, che non lo avrebbe abbandonato come
avevano fatto
tutti gli altri: gli sembrava la cosa più importante in quel
momento.
Così prese
un’importante decisione. Un po’
egoista, probabilmente, ma Tony avrebbe capito.
Almeno, così sperava.
Ma prima di questo decise di fare
il test.
Andò con Tony alla
Macchina della Morte più
vicina. Il suo ragazzo aveva cercato in tutti i modi di dissuaderlo, ma
non
poteva nulla contro la determinazione di Steve; riuscì solo
a trattenere il
fiato quando il biondo infilò il dito nel
cilindrò metallico della Macchina.
Steve era sicuro che sarebbe
uscito un solo
risultato, uno prevedibile, visto quello che aveva deciso di fare.
Invece
ricevette LIBERO ARBITRIO.
Tony sospirò di
sollievo. Steve si sentì
confuso per un istante, ma poi capì:
quell’aggeggio doveva leggere nel
pensiero.
Per celebrare quel responso tanto
strano
decisero di fare l’amore con più gioia del solito.
Quello che Tony non sapeva
era che Steve, con la scusa di andare a prendere i preservativi che
aveva
lasciato in bagno, si chiuse la porta alle spalle e tirò
fuori un ago che aveva
precedentemente nascosto in un cassetto.
Con quello fece un buco
attraverso la
confezione del condom, in modo tale che, in termini di protezione, non
servisse
più a niente, ma che non si rompesse in maniera evidente
durante il rapporto.
Tornò in camera e si
mise a cavalcioni del
suo ragazzo, che lo aspettava sdraiato sul letto con indosso solo i
pantaloni.
Gli sciolse la cintura.
-Vuoi fare una cosa per me?-
sussurrò, le
pupille dilatate sotto le ciglia bionde.
Tony sorrise. Non sospettava
nulla.
-Tutto quello che vuoi.-
Steve gli abbassò con
cautela i pantaloni,
strappò la confezione del condom e la porse a Tony
perché lo indossasse.
-Stai sopra.-
Ripeté
l’operazione per due settimane,
tanto per stare sul sicuro. Era sempre riuscito a farla franca
manomettendo il
preservativo senza che Tony se ne accorgesse, e convincendolo ad essere
attivo
anche quando ne avrebbe avuta voglia lui. Nel contempo visitava
l’ospedale ogni
tre giorni.
Alla terza settimana ricevette i
risultati
dei suoi esami del sangue:
Positivo all’HIV.
Ottimo.
Non aveva scelto quella strada
perché si
era arreso alla Macchina, si disse Steve. Piuttosto, lo aveva fatto
perché si
rifiutava di cederle il controllo della sua vita, e forse la Macchina
lo aveva
capito; ecco perché invece di SUICIDIO o AIDS sul suo
foglietto c’era scritto
LIBERO ARBITRIO.
Certe cose potevano capitare per
caso, a
certe altre le persone erano costrette, ma Steve si era sempre
considerato un
fervente sostenitore delle decisioni prese con la propria testa, ed era
pronto
ad assumersene tutte le responsabilità.
N.d.A.
I
ruoli di Steve e Tony non sono finiti qui. Mi piacerebbe fare di questa
mini
long una storia dove i destini dei personaggi si intrecciano, si
incrociano…
Rendiamo più interessante la cosa, perché qui ci
saranno quasi tutti.
Il
destino di Steve è nato da una mia personale pesca alle
parole: ho aperto un
libro e puntato il dito su una zona a caso della pagina. E’
uscita
l’espressione “Libero arbitrio”, e da
lì è nata tutta la storia.
Siete
curiosi del futuro che aspetta tutti gli altri?
Se
sì vi aspetto al prossimo capitolo :)