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Autore: niwad    04/09/2008    3 recensioni
Raccolta di racconti sperimentali di un mio carissimo amico. Giuro, non è roba mia. La trama... beh, non l'ho capita nemmanco io. Godetevela.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Quando veniamo al mondo nessuno ci chiede se davvero vogliamo nascere, né tantomeno siamo padroni delle condizioni in cui veniamo alla luce; e anche durante il breve corso della nostra breve esistenza ci troviamo ad essere completamente inermi, succubi delle beffe e degli scherzi di quello che a me piace chiamare Destino(o Dio, se preferite questa parola) che intreccia e disfa le trame delle nostre miserevoli ed insignificanti vite.
Tuttavia, pare che agli esseri umani non sia mai andata giù del tutto, l’esser legati a terra con la capricciosa catena del Fato,come fossimo i cani da guardia di un grosso sasso coperto di blu e verde: da che si ha memoria abbiamo sempre guardato verso l’alto, sognando di “volare”…e così alla fine buona parte del mondo si è arreso alla nostra follia.
Ora, nemmeno a loro andava giù, la storia della catena: anzi, pensavano addirittura che gli uomini stessi si fossero creati una vera e propria prigione artificiale con quella che noi stupidamente siamo soliti chiamare società.
Erano di Torino, ma per essere precisi le loro origini avevano ben poco di piemontese (a parte il certificato di nascita): lui era italiano sì, ma i suoi viaggiavano parecchio e era cresciuto per lo più all’estero in Giappone, tornando in Italia solo dopo le superiori; lei invece era arrivata a Torino all’età di sei anni trasferendosi con tutta la famiglia dal paese giù in Sicilia, sempre perché al Nord credevano ci fosse più da “mangiare”.
Non c’è poi da stupirsi che due giovani tanto pieni di speranze e così vogliosi di volare siano venuti in contatto l’uno con l’altra, nella tumultuosa Italia di fine anni ’70,ma il come non lo si seppe mai davvero: fatto sta che un po’ per la pazzia dell’Amore che “confonde i sensi”, un po’ per l’irrefrenabile desiderio di solcare il “cielo”, un po’ per la smodata voglia di vivere propria della gioventù, i due decisero di contravvenire a tutte le regole e i principi delle loro rispettive famiglie e abbandonarono tutto e tutti , loro due soli, per esplorare il mondo e ciò che esso potesse offrire.
Si mantenevano con poco, si portavano dietro solo l’essenziale e due chitarre, e per racimolare qualche soldo si facevano arruolare come equipaggio sulle navi o come camerieri nei pub: consumarono felicità e gioventù tra il rumore dei concerti, il silenzio della strada, il verde degli alberi e il grigio dell’asfalto, la solitudine (che non è però desolazione) del mare e la folla (che però non è compagnia) della città.
Conobbero il vero significato della libertà, o almeno quello più pieno, penso.
Eppure a volare troppo a lungo anche le rondini si stancano: e così dopo anni di migrazione, dopo aver visto molto e non sempre ciò avrebbero voluto vedere, sentirono infine il bisogno di costruire il loro nido.
Questa loro decisione era anche dettata dal fatto che lei era rimasta incinta e non erano sicuri di riuscire a crescere un figlio in quelle condizioni, anche se forse avrebbero voluto.
Per ironia della sorte, i due si trovarono a tornare proprio nel luogo da cui erano fuggiti:la bella, barocca, corrotta, cangiante Torino.
Le grandi città, e anche quelle un po’ più modeste come Torino, hanno uno strano potere: al viaggiatore occasionale sembra che esse vivano di vita propria, di suoni,luci e odori propri, ma il cittadino sa invece che la città è come un enorme vampiro che avvicina con il suo fascino le ignare vittime e poi a poco a poco le prosciuga di tutte le energie e rende le loro vite grigie e piatte come il cemento.
La nascita della bambina sembrò avere su di loro lo stesso effetto di un amuleto protettivo e altri sei anni passarono velocemente in cui la bambina crebbe vispa e forte, ma alla fine la città ebbe la sua rivincita, con tanto di interessi: mentre stavano tornando a casa, tutti e tre, sul marciapiede di corso Peschiera,presso una delle tante parallele di corso Trapani, in uno di quei momenti in cui per una famiglia la felicità è perfetta, totale, anche sotto la pioggia, un autista che evidentemente non aveva ancora imparato a controllare appieno il potere dell’alcool li centrò in pieno, andando a finire ai centoventi contro la vetrata di un bar.
Un banale incidente automobilistico. Di quelli che riempiono i telegiornali nelle stagioni morte. Di quelli che per noi sono diventati una cosa normale, che ormai non ci facciamo più neppure caso. NORMALE.
Per lei non ci fu nulla da fare. La madre della bambina, nel disperato attimo in cui aveva intravisto la macchina arrivare, aveva scagliato lontano la piccola, nel tentativo di salvarla, ma lei era rimasta in pieno nella traiettoria dell’auto. Due costole avevano bucato il polmone destro, e non fece neppure in tempo ad entrare in coma per trauma cranico.
Lui si trovava uno o due passi in avanti, al momento dell’impatto. La ruota sinistra della vettura lo colpì sulle gambe, scagliandolo all’interno del bar. Quindi un armadio, pieno di bottiglie, anch’esso urtato dall’uomo e dalla macchina, si abbattè con tutto il suo peso sulle gambe dell’uomo. Inutile dire che il vetro in frantumi lo sfregiò anche, direi.
Si salvò, ma perse completamente l’utilizzo delle gambe, il sorriso, e quel poco di fiducia nel mondo e negli uomini che gli restava.
L’autista ubriaco invece, dopo l’impatto, uscì dall’auto completamente illeso, anche se un po’ stordito dall’alcool e dall’air bag, e si allontanò in tutta calma, ridendo e sghignazzando.
La bambina però si era salvata.
Per via dello spintone della madre cadendo sul marciapiede si era rotta il braccio destro, ma stava bene.
Non pianse.
Si avvicinò al corpo della madre, che giaceva in un lago di sangue.
Il padre era troppo lontano, incastrato, non poteva raggiungerlo.
Era spaventata.
Terrorizzata.
Eppure non pianse.
Con tutta la sua forza cercò di aiutare la madre ad alzare la testa, ma era inutile.
Si dimenticò anche di avere un braccio rotto, e in quel futile tentativo aggravò ancora la condizione del suo braccio.
I giornali non riportano questo evento.
Non è nemmeno stato considerato nel calcolo annuale delle vittime da incidente d’auto.
Sparito nel nulla, come se non fosse mai successo niente.
Come un brusco risveglio dopo una notte tormentata, i soccorritori trovarono la bambina ancora accasciata vicino al corpo della madre, mentre la stringeva con tutte le forze che il suo braccino rotto le consentiva.
Bagnata.
Fradicia.
v Sangue e pioggia.
Ma niente lacrime.
Aveva gli occhi sgranati, guardava il padre che furiosamente cercava di liberarsi.
Poi un paramedico la prese delicatamente da parte e la portò via.
“Va tutto bene piccola, adesso sei al sicuro. Va tutto bene, tutto bene”.
Non pianse.
“E’ solo un brutto sogno. Solo un brutto sogno…”
  
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