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Autore: syontai    25/07/2014    12 recensioni
Per chi si ricordava un'altra presentazione: l'ho cambiata, mi faceva leggermente schifo
Allora, questa storia parla di Leon e Violetta (la mia coppia preferita :3). Si incontrano per caso in aereo e da lì comincia tutto. Non solo, ci sono anche dei nuovi personaggi (Stefan, Ricardo,Gabriella), ognuno con la sua personalità e il suo modo di essere. Poi ci sono Maxi, Francesca, Nata, Ludmilla, un pò tutti insomma. Bene, se vi ho ispirato con queste parole(in realtà anche se non l'ho fatto), leggete e fatemi sapere :D P.S: questa è la mia prima ff (indi per cui siate clementi xD)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 75
Parigi 

Nata si sentiva una regina. Sotto due strati di coperte dormiva profondamente, cambiando lato di tanto in tanto. Indossava una mascherina nera che aveva trovato nella sua stanza, e grazie ad essa i raggi del sole non disturbavano il suo sonno. Generalmente alle 7 la madre apriva le tende e alzava la serranda della finestra dandole delle pigrona e dicendole di alzarsi, ma in quella stanza enorme e vuota allo stesso tempo nessuno avrebbe potuto disturbarla. Quel letto matrimoniale poi aveva un materasso che le sembrava soffice come una nuvola, e non poteva che conciliarsi il sonno in maniera inverosimile. Quella notte sfortunatamente però non aveva dormito come avrebbe voluto, perché qualcuno si intromesso nei suoi sogni a forza, e lei non era riuscito più a scacciarlo.
Si trovava sulla prua di una nave. Il vento le scompigliava i capelli e lo sguardo era catturato da un delfino, che era emerso dall’acqua facendo un salto spettacolare. Alcuni schizzi la raggiunsero in viso, ma lei riuscì a pararsi appena in tempo, scoppiando in una risata estasiata. Fin da piccola aveva sempre amato il mare, e soprattutto le creature che lo abitavano. Se non avesse scoperto la passione per il canto e per il ballo probabilmente avrebbe deciso di studiare biologia all’università e diventare biologa marina. Era sempre stato il suo sogno, anche se veniva sempre derisa quando girava per le classi con dei libroni ricchi di figure e descrizioni sulle creature marine. La nave improvvisamente frenò bruscamente, e Nata perse l’equilibrio. Già poteva vedere le profondità cristalline di quel mare calmo ma increspato da piccole onde, quando qualcuno la afferrò da dietro. Non vide in tempo di chi si trattava ma da dietro un cappellino cadde in acqua. E quel cappellino era fin troppo noto a lei. Si massaggiò le tempi, ancora non del tutto ripresasi dal brusco risveglio, e cercò a tentoni con i piedi le ciabatte. Guardò l’ora: erano le 8. Avrebbe potuto rimettersi a dormire, ma non ne aveva proprio voglia. Qualcuno bussò alla sua porta.
“Nata, sei sveglia?” bisbigliò Maxi dall’altra parte. Nata per poco non rischiò di cadere, intrappolata dalle coperte, e scossa da quella visita mattutina inaspettata.
“Si, sono sveglia!” gli diede voce, mentre correva in bagno, per darsi una veloce sistemata ai capelli. Quando raggiunse lo specchio si rese conto che la sua ‘rapida sistemata’ sarebbe dovuta durare almeno trenta minuti. Quello era il dramma di avere dei capelli ricci indomabili di prima mattina.
“Puoi aprirmi?” chiese il ragazzo, dall’altra parte della porte, ticchettando sul legno in un modo tale che alla spagnola sembrò di stare lottando contro il tempo. Lasciò perdere il pettine, maledicendolo per non aver compiuto il miracolo in cui aveva sperato fino all’ultimo, prese un respiro profondo e a grandi falcate si diresse all’entrata. Diede prima un’occhiata allo spioncino, e si sorprese di quanto Maxi sembrasse pallido e agitato. A questo punto rimosse il catenaccio con un paio di giri di una manopola d’ottone, e aprì uno spiraglio, giusto per affacciarsi. Un ricco le finì in faccia durante quell’ardua operazione, e lo soffiò via sbuffando.
“Non è un po’ presto? Le prove oggi ci sono di pomeriggio” gli ricordò Nata, mentre Maxi cercava di entrare. Lei però mise il piede in avanti e lo costrinse a rimanere dov’era: non voleva che la vedesse in quelle condizioni pietose. Maxi annuì prontamente con convinzione, e poggiò la mano sul numero 18 della sua stanza. “Lo so. Ma proprio per questo mi chiedevo se avessi voglia di andare a fare un giro per Parigi…Io ci sono già stato in vacanza con i miei genitori e potrei farti da guida” le disse speranzoso. Nata sorrise forzatamente, e guardò la sua stanza in disordine. A dire il vero quella mattina aveva pensato di riposarsi e di finire di mettere a posto i bagagli, ma quella proposta era davvero allettante. A causa della sua eccessiva insicurezza i genitori non le avevano mai permesso di fare un viaggio da sola, e ora che finalmente si era ritrovata coinvolta in un progetto tanto interessante e pieno di opportunità, non vedeva perché dovesse rinunciare anche al piacere di essere una semplice turista per le vie parigine. Certo, avrebbe preferito essere da sola, la presenza di Maxi la metteva parecchio a disagio, ma affidandosi alle cartine, con cui non aveva mai avuto un bel rapporto, forse l’avrebbero trovata in periferia, in qualche sperduto vicolo cieco. Ponte da quel punto di vista poteva essere considerato affidabile, quindi per non rovinarsi la vacanza accettò l’invito, senza sapere di aver provocato nel giovane un moto euforico di gioia incontenibile.
“Andiamo allora!” gridò entusiasta. Nata scosse la testa furiosamente: “Non posso venire in questo stato! Mi preparo, faccio colazione all’hotel e andiamo, d’accordo?”.
Il ragazzo si scusò per l’eccessiva fretta che le aveva messo e accettò di buon grado il programma. Mentre si allontanava la avvisò che l’avrebbe aspettata al tavolo dove si erano seduti la sera prima. Nata chiuse la porta con un botto e si appoggiò su di essa con la schiena; non riusciva a schiodare quel sorriso ebete che aveva. E non poteva credere di provare ancora qualcosa per Maxi. Si maledì per essere ricascata di fronte alla dolcezza e alla tenerezza del giovane, si gettò a peso morto sul letto, pensando a cosa mettersi per quella mattinata soleggiata. Decisa. Doveva essere decisa e far capire a Maxi che non poteva avere speranze con lei. Ma come sarebbe riuscita a convincerlo se perfino lei non era affatto sicura del fatto che Maxi le fosse ormai indifferente?
 
Angie aprì gli occhi di scatto. Non era stata la luce del sole a svegliarla, ma il suono lontano e vago di un cellulare. Si stropicciò gli occhi e cominciò a tastare intorno con la mano in cerca di quel diabolico aggeggio. Lo trovò per terra in mezzo ai suoi vestiti e grattandosi appena la testa vide il mittente: c’era scritto ‘Studio 21’. Gettò la testa all’indietro e sbuffò sonoramente, quindi si voltò dall’altra parte, sperando di non aver svegliato German. Ma non c’era nessuno insieme a lei nel letto. Scattò seduta sul letto in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa potesse farle credere che l’uomo fosse ancora lì, in quella casa. Nulla. Si prese la testa tra le mani, e gettò il cellulare ai piedi del letto, per poi rintanarsi sotto le coperte in posizione fetale. Avrebbe voluto piangere, ma ad essere sinceri non gli usciva nemmeno una lacrima. Perché piangere per una persona che non meritava nulla? German era stato un codardo, non aveva saputo affrontare le conseguenze di una sua debolezza e non era stato in grado di avere la maturità necessaria per dirglielo in faccia. Era fuggito come un coniglio. Strinse più forte il cuscino, cercando di rimuovere tutti i dettagli di quella notte, ancora vividi nella sua testa. Il cellulare dopo qualche minuto di tregua risuonò vibrando, e Angie fu tentata addirittura di togliergli le batterie e lanciarle dall’altra parte della stanza in un moto di rabbia. Prese un respiro profondo e si decise di rispondere.
“Pronto?”. La voce le tremava per l’emozione. Una parte di lei sperava ancora che si trattasse di German, magari con qualche spiegazione convincente, sebbene la scritta sul display cercasse continuamente di guardare in faccia alla realtà. La sue aspettative sfumarono subito quando dall’altra parte rispose la voce di Cristobal.
“Buongiorno, Angie…volevo sapere se stessi bene. Ho provato a chiamarti già prima”.
“Ero occupata prima” rispose secca la donna, lasciando di sasso Cristobal dall’altra parte.
“Possiamo vederci? Vorrei parlarti di una cosa importante”. Angie diede un’occhiata all’orologio digitale sul comodino: segnava le otto. In effetti era un po’ prestino ma per chiamarla a quell’ora doveva trattarsi di qualcosa di importante, e non se la sentiva di rifiutare. Era praticamente l’unica amica che gli fosse rimasta. “D’accordo, dammi il tempo di vestirmi e ci vediamo…dove ci vediamo?”.
Cristobal le diede le indicazioni via telefono, ma a quel punto Angie non ascoltava più. La voce ronzava distante, mentre le venne in mente che lei in quel luogo ci era già stata. Tanto, ma tanto tempo fa.
Le onde si infrangevano sulla riva, e il tempo non era affatto dei migliori. Terribili e inquietanti nuvoloni neri si ammassavano all’orizzonte, facendo presagire di lì a poco un bell’acquazzone. Una donna si aggirava su quella spiaggia deserta, e da lontano chiunque l’avrebbe presa per pazza. Si aggirava come una furia qua e là in mezzo alla sabbia, borbottando tra sé e sé. Un uomo si trovava seduto su uno scoglio alla fine quella piccola baia.
“Perché proprio qui?” quasi urlò Angie, per cercare di sovrastare l’ululato del vento, stringendosi la sciarpa intorno al giubbotto. Cristobal in tutta risposta le fece cenno di sedersi al suo fianco, e lei ovviamente ubbidì, sfregandosi le mani per riscaldarsi un po’.
“Qui è dove è iniziato tutto. E’ successo un’estate…io e Maria ci siamo conosciuti qui” spiegò con voce rotta. La Saramego annuì mesta: conosceva bene quella storia, lei stessa ricordava il momento esatto in cui i due si erano conosciuti, anche se era piccola. Si erano conosciuti quasi per sbaglio, giocando sulla spiaggia, ma fu un vero e proprio colpo di fulmine per entrambi.
“Conosco bene questa storia…quello che mi incuriosisce è il finale” disse la bionda, sfidando con lo sguardo quello assorto di Cristobal, che si sentì scosso come da un fulmine nel sentire quelle parole. Il finale. Si, un finale ci sarebbe stato, ed era l’unico possibile.
“Lascio Buenos Aires”. Quella risposta fu secca e decisa, infranta unicamente dal rimescolarsi delle acque marine. Forse si aspettava un qualche segno di approvazione, o al contrario un tentativo di fargli cambiare idea, ma non giunsero né l’uno né l’altro. “Non posso continuare così, vivendo nel passato! E’ stato un errore tornare, e per colpa mia è venuta fuori questa storia terribile, e ho scoperto addirittura di essere padre! Ho rovinato la vita a German e non lo merita”. Pronunciando quel nome Angie sentì una fitta alla base dello stomaco, ma non si azzardò a dire nulla.
“Potresti non essere il padre…i test hanno sempre dei margini di errore. Stanno facendo un altro test in un’altra struttura, e…”
“E non cambierebbe nulla! Se anche non fossi padre di Violetta, avrei solo provocato danni a tutti. Il mio arrivo in questa città è stato una disgrazia per l’intera famiglia Castillo”. Di nuovo fu il silenzio. Le onde si infrangevano in modo ritmico e l’odore di salsedine arrivò persino a stordirla a causa della sua insistenza nell’aria. Cristobal però ormai aveva deciso; non poteva, e forse in fondo non voleva, fargli cambiare idea, poteva solo prendere atto della codardia dell’uomo. E non si riferiva solo al vecchio amico d’infanzia: tutti gli uomini che la circondavano erano degli emeriti codardi. Con quell’amara consapevolezza lo vide alzarsi e rivolgerle un fugace saluto. Non l’avrebbe inseguito. Non gli avrebbe chiesto di ripensarci. L’unica parola che le veniva in mente in quel momento era: addio.
 
Violetta tastò il cuscino vicino a lei, ma quando si rese conto che del corpo di Leon, che tanto avrebbe voluto abbracciare, era rimasto solo un vago calore, fece una smorfia insoddisfatta. Aprì gli occhi a malapena e vide Leon sfrecciare per la stanza, mentre indossava rapidamente i pantaloni sopra i boxeur.
“Ma dove diavolo è finito!” sibilava, maledicendo silenziosamente il buio che gli impediva di scorgere ciò che cercava. Violetta si voltò appena e vide al lato opposto del letto il maglioncino nero. Lo prese senza che se ne accorgesse: aveva il suo profumo e solo per questo avrebbe voluto tenerselo per tutta la vita. Lo fece scivolare sotto le coperte e tornò a far finta di dormire senza riuscire a nascondere un sorriso malandrino.
“Maledizione!”. L’orologio segnava le otto meno dieci, e più il tempo scorreva più sentiva il panico attanagliarlo. German. Casa. Scappare prima che lo trovasse. Come tanti impulsi nervosi si ritrovava a camminare senza prestare veramente attenzione a dove metteva i piedi. Come poteva andare in giro per strada mezzo nudo? Sentì uno sbadiglio provenire dal letto e si morse il labbro inferiore. Sicuramente aveva anche finito per svegliarla. Mai che ne riuscisse a combinare una giusta.
“Leon?”. La voce impastata dal sonno, ma allo stesso tempo soave, raggiunse le sue orecchie, e per un momento gli parve di dimenticare persino il suo nome se non che fosse stata lei stessa a chiamarlo. Si diresse dalla ragazza e si mise in ginocchio su letto guardandola dolcemente. La vide stiracchiarsi e ne approfittò per sporgersi e lasciarle un dolce e rapido bacio sulle labbra. “Buongiorno, amore” le sussurrò. “Mi dispiace per averti svegliata”. Sentì le calda braccia di Violetta avvolgergli il collo, stringendolo sempre di più, fino a quando non fu costretto a stendersi al suo fianco.
“Volevo un tuo abbraccio” sorrise rilassata, per poi iniziare a tempestarlo di tanti piccoli baci su tutto il viso, cosa che gli piacque talmente tanto da assumere un’espressione sorniona mentre si godeva quelle attenzioni. Purtroppo il pensiero di quel maledetto maglioncino riusciva a rovinare tutto e si costrinse a riaprire gli occhi che aveva chiuso per godersi ancora di più i suoi baci.
“Devo andare, Violetta, se mi becca tuo padre non ritorno a casa vivo” sussurrò con voce dispiaciuta. “E intendi andare in giro così?” ridacchiò, rivolgendo un’occhiata al petto nudo di Leon.
“Ovvio che no! Anche se sono sicuro che tante ragazze apprezzerebbero” si pavoneggiò beffardo. Violetta gli diede uno schiaffo sulla spalla. “Ahi!” si lamentò al buio.
“Anche tu lo hai apprezzato parecchio stanotte, mi sembra…” continuò sogghignando, e solleticandola con la punta del naso. Altro schiaffo sulla spalla. “Ehi!”.
 “Non è vero!” esclamò lei, avvampando fino a far diventare le orecchie scarlatte. Leon ridacchiò, e si avvicinò al suo orecchio, soffiandogli piano: “Eppure quei segni rossi che ho dicono che…”. Terzo schiaffo della mattinata. Leon emise un gemito per il dolore e si lasciò cadere a peso morto su Violetta, che lo strinse forte a sé, cominciando ad accarezzargli piano la schiena. Sentì il suo respiro farsi ansante mentre percorreva delicatamente con le punte delle dita la colonna vertebrale, donandogli una piacevole sensazione di solletico. Solo il lenzuolo separava i loro corpi ed ebbe l’istintivo impulso di liberarsene, ma qualcosa la trattenne. Non voleva scoprisse che era lei a nascondere il maglioncino. Non ancora, almeno.
“Leon?”. Non ottenne nessuna risposta. “Non ti sarai mica offeso!” scherzò lei. Leon a quel punto alzò il viso che aveva tenuto affondato sul cuscino, sopra la sua spalla, mostrando tutta la sua disapprovazione.
“Mi hai fatto male” si lamentò, sbuffando offeso. “Ma erano degli schiaffetti”. Il ragazzo le fece una linguaccia, e continuò a fissarla, cercando di restare serio ed arrabbiato, sebbene di fronte a quel faccino dolce gli riuscisse particolarmente difficile. Violetta si sporse verso di lui, e gli lasciò un bacio sulla spalla, dove prima gli aveva dato i piccoli schiaffi di rimprovero. “Va meglio adesso?” chiese, soffocando una risata di fronte alla faccia beata di Leon, che però subito riprese un’espressione offesa.
“Non so se basta…dovrò pensarci…” aggiunse, senza riuscire a trattenere un sorrisetto. Si avvicinò chiudendo gli occhi e sospirando sulle sue labbra, prima di coinvolgerle in un bacio appassionato.
“Se ti dicessi che so dove si trova il tuo maglioncino?” ammiccò lei, dando una rapida occhiata al petto nudo di Leon e mordendosi in modo provocante il labbro inferiore. Leon sgranò gli occhi, che subito si rivolsero verso la sveglia poggiata sul comodino. Le otto. Dannazione, erano passati già dieci minuti! Il pericolo German si faceva sempre più concreto e cominciò a sudare freddo.
“Dammelo. Ora” sibilò, afferrandola per i fianchi e solleticandoglieli. Violetta cominciò a ridere a causa del solletico, mentre cercava di dimenarsi tra le coperte, ma Leon era un esperto di solletico, e in più conosceva tutte le parti del corpo dove lo soffriva di più.
“O-ok, si trova sotto le coperte” cedette Violetta con le lacrime agli occhi. Leon annuì soddisfatto, e fece scendere la mano fredda sotto il lenzuolo, percorrendo il corpo caldo della ragazza senza staccare il contatto visivo tra i due. Deglutì appena quando le sfiorò il seno, scendendo sempre più fino alla vita. Quel corpo…l’attrazione che provava per quel corpo non poteva essere spiegata. Non fosse stato per German, se ne sarebbe fregato di tutto e di tutti, si sarebbe nuovamente tuffato sotto le coperte, ricoprendola di baci e carezze. Quando finalmente sentì il tessuto di un vestito, si era persino dimenticato che cosa stesse cercando, perso nel castano dei suoi occhi. Sfilò lentamente il maglioncino, lasciandolo scorrere lungo il corpo di Violetta, che rabbrividì al contatto.
“Trovato” sussurrò con un sorriso dolce. Violetta non resistette più, gli prese il viso tra le mani, e premette le labbra contro le sue. Leon si lasciò andare ancora una volta, e l’avvolse tra le sue braccia, mentre si rotolavano sul materasso, rischiando addirittura di cadere per terra. Si separarono sorridenti, i corpi stretti l’uno all’altro, le gambe che si intrecciavano in mezzo al groviglio delle coperte. Violetta sfiorò il petto di Leon con la mano, mentre lui le baciò la fronte. Un gesto protettivo e d’amore. Avevano lottato tanto per poter stare insieme, per poter esaudire quel sentimento scoccato fin dal  loro primo incontro. Nel buio un fascio di luce li accecò completamente, proveniente dalla porta appena aperta.
“Ma cosa sta succedendo qui?”. 
 
Nata era pronta. Si sistemò di lato il simpatico baschetto rosso che indossava, acquistato i primi giorni. Doveva ammettere di essere fin troppo nervosa per quell’appuntamento. Ma quale appuntamento, si tratta solo di un giro turistico, sostenne tra sé e sé, gettando un’occhiata alla hall. Di Maxi ancora nessuna traccia. Si sedette su una poltroncina ed accavallò le gambe, sbuffando. Tirò fuori il cellulare dalla borsa e controllò se qualcuno l’avesse cercata. Aveva ricevuto ben dieci messaggi dai suoi genitori, tutti con lo stesso testo e le stesse domande: come stai? Mangi abbastanza? Le prove? Sicura di potercela fare? Quell’ultima domanda le dava altamente fastidio: perché non avrebbe dovuto farcela a sostenere quel ritmo impegnativo? Forse non aveva la voce di Violetta, forse non aveva il talento di Ludmilla, ma anche lei poteva fare un ottimo lavoro. A proposito della Supernova…c’era anche un messaggio della Ferro. Incuriosita lo aprì e quasi pensò si trattasse di un’altra persona.
‘Nata, tutto bene?
Questi giorni senza di te sono stati assolutamente noiosi senza di te…come assistente intendo! Sono successe parecchie cose strane da quando sei partita, ma appena torni ovviamente ti racconterò tutti. Lo so che ti mancano gli scoop della stella più brillante.
Con aff…si, quello. Ludmi, la superstar destinata a brillare’
Non c’era niente da fare, Ludmilla non sarebbe cambiata mai, ma in fondo a lei piaceva così. Semplicemente Ludmilla Ferro. Non appena alzò gli occhi dal cellulare si ritrovò il viso solare di Maxi a pochi passi, piegato sulle ginocchia di fronte a lei.
“Perdona il mio ritardo, ma non sapevo come prepararmi per il nostro appuntamento!” disse grattandosi il capo dispiaciuto.
“Mettiamo le cose in chiaro: il nostro non è un appuntamento! E’ solo un giro turistico” replicò prontamente Nata, scattando in piedi con le orecchie roventi.
“Giusto, giusto” rispose Maxi vago. Le porse il braccio con un gesto galante, ma la spagnola lo schivò abilmente, facendo finta di nulla.
Le vie di Parigi erano parecchio affollate e Nata amava tutto quel movimento. Forse faceva parte del suo carattere il fatto che le piacesse stare in mezzo a tanta gente: in quel modo non risultava evidente la sua tendenza a voler essere invisibile. Si voltò verso Maxi con un sorriso timido, mentre lo vedeva alle prese con la cartina. Se la rigirava con espressione confusa e terrorizzata.
“Credo che ci siamo persi…” disse dopo poco con un filo di voce. Il suo sorriso si spense in una smorfia di rabbia e paura. “CHE VUOL DIRE CHE CI SIAMO PERSI?!”. Si portò la mano alla bocca, guardandosi intorno e sperando di non aver attirato la sua attenzione con quelle urla.
“Che vuol dire che ci siamo persi?” ripeté a voce più bassa, ma non per questo meno minacciosa. Maxi scrollò le spalle, cercando in qualche modo di giustificarsi, ma Nata già aveva accelerato il passo infuriata, allontanandosi sempre di più. Ecco cosa succedeva a fidarsi di Maxi. Solo delusioni era in grado di rifilarle…senza nemmeno pensarci si ritrovò a camminare per un ponte che attraversava la Senna. Ne aveva sentito parlare da una guida i primi giorni: era il Ponte Neuf, il Ponte Nuovo, uno dei più antichi di Parigi. Non si ricordava ovviamente di tutti i particolari, ma era il primo ponte in pietra realizzato, e addirittura provvisto di un marciapiede. Si  fermò dopo poco e si affacciò per vedere le acque verdastre del Senna scorrere sotto di lei. Non era esattamente il mare cristallino del suo sogno, ma stranamente la sensazione di libertà era pressoché uguale. Si guardò alla sinistra e con suo grande stupore si ritrovò un cappello fin troppo noto appoggiato sul davanzale di pietra. Ok, quello era davvero troppo strano. Fece per prenderlo, ma un soffio di vento lo sollevò appena, facendolo cadere giù. Allungò il braccio per cercare di prenderlo, ma due braccia la tennero al sicuro trascinandola dietro.
“Nata, ma sei impazzita! Poteva essere pericoloso!”. Il cappello finì in mezzo ai flutti, emergendo solo per un secondo prima di essere trascinato via. Nata si voltò tremando, incrociando lo sguardo di rimprovero di Maxi. “E non devi andartene in quel modo…vagare per una città che non conosci, non capisci che potevi perderti ancora di più?” la rimbrottò, senza però lasciarla andare. Più che arrabbiato sembrava preoccupato. Nata si fece prendere dal panico e abbracciò forte il ragazzo, singhiozzando per lo spavento.
“Va tutto bene, ma devi stare più attenta” le sussurrò, accarezzandole i capelli per cercare di farla calmare. Nata tirò su con il naso un paio di volte, quindi si separò annuendo.
“Ma come mi hai trovato?” mormorò con un filo di voce. Maxi sorrise, imbarazzato e felice allo stesso tempo che non si fosse ritratta come sempre. Indicò con lo sguardo il Senna.
“Il cappello…non so come mai ma mi è volato via dalla testa, ho cominciato a seguirlo, e ti ho trovato”. Se solo non credesse a quelle cose, avrebbe scommesso che fosse stato il destino a farli rincontrare, e non solo fisicamente. Nata rispondeva al suo sorriso timidamente, abbassando e alzando lo sguardo a scatti. “Andiamo a prendere qualcosa da bere?” le propose porgendole nuovamente il braccio. Questa volta non lo evitò, ma rimase a fissarlo incantata, prima di accettare l’invito e dirigersi assieme a lui a un bar vicino. Presero un frullato, ridendo e scherzando. Parlarono tutto il tempo, delle prove che li attendevano, di quello che poteva stare succedendo a Buenos Aires.
Fortunatamente Maxi ritrovò il suo orientamento e proseguirono il loro giro, passeggiando per le strade parigine con il cuore alleggerito. Era ormai passata l’ora di pranzo e dovettero rientrare in albergo. Rimasero in piedi di fronte alla hall, senza sapere come salutarsi. Proprio quando Maxi sembrava aver preso coraggio, avvicinandosi per darle un bacio sulla guancia, dopo aver ottenuto il tacito assenso della spagnola, il telefono squillò.
“E’ il tuo” disse Maxi, facendo un triste cenno alla borsa. Nata tirò fuori il cellulare. “Sono i miei, devo assolutamente rispondere”. Accettò la chiamata, che si rivelò essere una delle più lunghe della sua vita. Cercava in tutti i modi di rassicurare i genitori agitatissimi, rispondendo a tratti a monosillabi. Maxi nel frattempo cercava disperatamente di capire cosa dovesse fare, se rimanere lì ed aspettare la fine della telefonata, o salutarla con un cenno di mano.
“Beh, allora io vado…”. Nata gli disse di aspettare tra una risposta e l’altra, ma il ragazzo si sentiva estremamente a disagio. “Vado e torno?” chiese, non capendo nemmeno lui il senso di quella domanda. Nata infatti lo guardò stranita e lui si limitò a farle capire di rimuovere quelle ultime parole. Cominciò a dondolare sul posto con le mani nelle tasche, fischiettando appena. Ma quanto ci voleva ancora? Avrebbe voluto strappare il telefono di mano alla ragazza e urlare ai genitori che andava tutto bene e soprattutto che lui l’avrebbe protetta. Era piccolo di statura, ma quando si trattava di difendere Nata sentiva crescere dentro di sé forze sconosciute. Forse dettate dall’affetto. No, l’affetto non poteva smuovere così tanto. Era qualcosa di molto più forte, qualcosa che assomigliava…all’amore. Si, doveva trattarsi dell’amore. La vedeva di profilo, mentre con la mano si arrotolava un ricciolo, impaziente quanto lui. Si avvicinò lentamente con l’intenzione di darle un bacio sulla guancia, senza nascondere la sua emozione per quel piccolo gesto.
Nata si voltò di scatto, e si ritrovò incollata alle labbra di Maxi. La voce della madre continuava a risuonare dal cellulare, ma e lei non giungeva assolutamente nulla. Sentiva solo le labbra del ragazzo muoversi sicure sulle sue, attirandola a sé con il braccio destro.
“M-mamma?” balbettò, non appena si fu staccata, senza riuscire a reprimere un sorriso innamorato. Maxi non le staccava gli occhi di dosso e cominciò ad andare in camera sua camminando all’indietro, e rischiando di inciampare più volte addosso ai bagagli. Nata lo salutò con la mano, e si voltò dall’altra parte, continuando a parlare con i genitori.
Non riusciva a credere che potesse essere successo e per quanto tenesse a tutti i suoi capelli e avesse provato un gran dispiacere per quello finito sulla Senna, avrebbe rovesciato comunque tutta la sua scorta personale se fosse servito a recuperare l’amore di Nata. Ma per fortuna ne era bastato un solo. 








NOTA AUTORE: Holaaaa, non sono morto con questa storia, solo che non avevo tempo per continuarla, e- poi manca poco alla fine, quindi mi sono detto: 'ehi, magari qualcuno se la vuole rileggere, diamogliene la possibilità'. E forse c'era anche un po' di sadica crudeltà in mezzo come a dire 'vediamo quanto stanno aspettando il capitolo', e niente, poi finisce lì. Detto questo la storia dovrebbe concludersi con il capitolo 80, e questo lo sapete già, ci sarà un sequel in un futuro a me ignoto (e sapete anche questo), e poi, boh, non so che altro dire tranne che amo i miei Leonetta, finalmente i miei Naxi sono tornati insieme, e Cristobal se ne va, e Angie è rimasta giustamente delusa dal comportamento di German...Ma non finisce qui, nei prossimi capitoli avremo scoperte inaspettate (no, penso che lo sappiate già), coppie che scoppiano, e infine...infine non dico altro xD Ma niente, ringrazio tutti per seguirmi, e alla prossima! :3
syontai :D 
  
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