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Autore: soulmirrors    25/07/2014    17 recensioni
Cercò di calmare il suo respiro, socchiudendo gli occhi e concentrandosi su un punto davanti a sé. Ma nel suo panorama visivo, fu qualcos’altro che attirò la sua attenzione.
Furono due occhi azzurrissimi, brillanti come le onde del mare sotto la luce del sole che si increspano, si scontrano tra di loro creando una scintilla colorata di varie sfumature. Stranamente quei due occhi erano già puntati su di lui, creando una collisione tra la direzione dei loro sguardi. Era un ragazzo dai capelli color miele, con un largo sorriso che sembrava rivolto proprio a lui. Harry batté le palpebre un paio di volte, prima di distogliere lo sguardo. Era ormai abituato ad essere osservato, anche se c’era qualcosa di diverso in quel ragazzo, o meglio, in quel sorriso. Come se lo stesse leggendo dentro.
[Harry/Louis][35.2k][Cris]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Peter & Alice




Questa non è una fiaba. Non ci sarà un “C’era una volta”, né un “E vissero e felici e contenti.”. Non ci sarà alcun lieto fine, in queste righe che narrano di due anime frammentate, piegate dal fardello pesante della vita. Loro non possono vivere in una fiaba, nessuno di noi può. La realtà è difficile, ma è l’unica cosa che abbiamo.
Eppure c’è qualcosa nella nostra mente che continua a dirci di seguire il Bianconiglio, di credere nelle fate, di dar retta al Cappellaio Matto, di aiutare i bimbi sperduti a sfuggire dalle mani -dall’uncino- del Capitano.
Questa è la storia di Peter Pan ormai cresciuto che di nome in verità fa Harry Styles.
E di Alice nel paese delle meraviglie, incastrata nella realtà, ma che si chiama Louis Tomlinson.

Questa non è una fiaba.



“I bambini non hanno ancora un cuore.
Non veramente.
Non sono stati feriti nella necessità di uno.”




Londra, 1932.

La polvere danzava delicata in quella piccola stanza, piena di scaffali alti fino al muro. Vi erano scale ovunque, utili per raggiungere quelle mensole che sembravano così lontane, tanto che il signor Styles doveva piegare completamente la testa all’indietro per guardarle. I granelli di quella sostanza grigia si poggiavano fragilmente su tutti i tomi presenti. Libri grandi, enciclopedie, riviste, vecchi giornali.
Harry Davies Styles era finito in quella piccola stanza del Bumpus Bookshop, al 350 di Oxford Street. Indossava una giacca marrone di velluto marrone e il suo fidato gilet verde, che metteva per le occasioni più importanti.
Scorreva l’indice passando da un tomo all’altro, percorrendo i corridoi angusti dell’ambiente e sporcandosi il dito di antichità. Sentiva un brusio di voci sempre più consistente provenire dalla stanza accanto, il salone che avrebbe ospitato la mostra più importante dell’anno.
Lui invece si era rifugiato lì, al sicuro da tutte quelle persone che, purtroppo, lo avrebbero riconosciuto. Si fermò davanti ad uno scaffale in fondo alla stanza, con su sopra scritto “Bambini”.
Lesse qualche titolo, la maggior parte dei volumi era dei fratelli Grimm, di Andersen, di Perrault, ma poi si soffermò su un libricino, con una copertina che conosceva così bene che avrebbe saputo disegnarla ad occhi chiusi. Passò le dita sull’illustrazione di quel bambino, dall’abito verde e dai capelli chiari, che tante notti aveva perseguitato i suoi sogni.
“Il ragazzo che non voleva crescere” pensò, mentre guardava gli occhi della figura rovinata dal tempo. Gli occhi verdi, esattamente come i suoi. Si passò una mano tra i capelli ricci e scuri, mentre posava il libro. Sotto quella luce che filtrava fioca dall’unica finestra presente, il titolo del libro sembrava risplendere sempre di più, rispetto agli altri, carattere dopo carattere.
J.M. Barrie, mimò con le labbra Harry senza emettere alcun suono, leggendo il nome dell’autore.
Un brivido gli percosse la schiena, pensando a quel nome. Lo aveva pronunciato così tante volte che ormai odiava averlo sulla punta della lingua. Preferiva tenerselo dentro, sarebbe stato più facile covare rancore così.
Ma davanti agli altri, quel nome avrebbe dovuto lasciarlo andare, fluttuare nell’aria accompagnato da un sorriso che ricordava vagamente quello della figura del giovane in copertina.
I suoi pensieri furono interrotti dallo scricchiolio della porta malandata che si apriva, mostrando la figura di una giovane donna in un elegante tailleur che gli faceva segno di avvicinarsi. “Stiamo per iniziare, signor Styles.”
Il giovane riccio annuì, sospirando, mentre Le avventure di Peter Pan lo fissavano mentre si allontanava dallo scaffale.

***

“E’ un onore per me essere qui oggi a celebrare questa occasione. Nonostante ciò che succede fuori, sono orgoglioso di poter continuare a sognare insieme a voi, grazie a questi meravigliosi racconti che vivono nelle nostre menti.”
La voce del proprietario della libreria sembrava suonare più stridula e fastidiosa che mai alle orecchie del povero Harry Styles. Era seduto accanto a lui, e avrebbe preferito sorbirsi le lamentele della sua vicina di casa per tre ore piuttosto che essere lì.
Non guardava il piccolo pubblico ristretto in quella sala dalle pareti ricoperte di libri. Preferiva perdere il suo sguardo nel vuoto, quasi come se volesse contare ogni granello di polvere presente nell’aria, perdere il conto e poi ricominciare da capo. Voleva avere in testa solo numeri, milioni e milioni, e anche miliardi, anche se sicuramente non si sarebbe ricordato quanti zeri fossero necessari. Tutto, pur di non ascoltare quelle parole che per lui erano solo le più grosse menzogne mai dette prima.
Dopo Le avventure di Peter Pan.
Tutto, pur di non essere l’ospite d’onore di quell’evento.
“.. e sono lieto anche di presentarvi anche il nostro caro ospite, che gentilmente ha accettato di venire qui, alla Mostra delle Fiabe: il signor Harry Styles, nonché il caro giovane a cui lo scrittore James Matthew Barrie si è ispirato per creare il personaggio di Peter Pan.”
Uno scroscio di applausi partì riempiendo ogni singolo spazio, sostituendosi alla polvere. Harry sorrise flebilmente, piegando leggermente la testa in avanti e facendo un cenno con la mano come per salutare tutti.
Gli girava la testa. Voleva fuggire via da quel luogo che gli procurava tanta ansia quanto malessere. “Purtroppo il caro James non è potuto venire per via della sua salute precaria, ma il giovane Peter per fortuna è qui con noi, anche se un po’ cresciuto, nonostante non volesse!” esclamò l’uomo, provocando la risata di tutti i presenti, eccetto quella di Harry.
Continuò a parlare per un tempo che al riccio parve infinito. Non riusciva a distrarsi da tutte quelle parole che incombenti cadevano su di lui più pesanti di macigni. Si torturava le mani in cerca della via d’uscita più veloce che potesse evitargli qualsiasi contatto umano alla fine della conferenza. Dita consumate dal tempo che per lui passava anche più velocemente degli altri. Aveva ormai più di trent’anni, eppure a Central Park le persone ancora si giravano sussurrando “Ma è lui il modello di James Barrie?” o “E’ lui Peter Pan!”. Harry se ne stava in silenzio, con qualche sorriso di circostanza a condire la sua già triste esistenza.
Dita che troppo spesso si erano contratte per poggiarsi sul volto, a catturare lacrime inevitabili. Dita che avevano toccato la pelle all’altezza dello sterno quando l’ansia si era accumulata così tanto da bloccarsi in quel punto lì, incapace di trovare una via respiratoria libera per poter fuggire via da quell’ammasso di bugie. Perché era così che Harry si riteneva. La sua vita era fondata su menzogne create da un uomo che si era portato via tutto, la sua identità, la sua innocenza.
Scosse la testa per scacciare via quei pensieri. Come se fosse possibile, pensò. Erano pur sempre lì, incastrati tra le sue membra e i suoi tessuti, deturpando qualsiasi organo, macchiandoli di ricordi indelebili con inchiostro nero, lo stesso che James aveva usato per scrivere di lui, di Campanellino e di Capitan Uncino. Non era un bambino, non avrebbe dimenticato facilmente. Probabilmente mai.
Cercò di calmare il suo respiro, socchiudendo gli occhi e concentrandosi su un punto davanti a sé. Ma nel suo panorama visivo, fu qualcos’altro che attirò la sua attenzione.
Furono due occhi azzurrissimi, brillanti come le onde del mare sotto la luce del sole che si increspano, si scontrano tra di loro creando una scintilla colorata di varie sfumature. Stranamente quei due occhi erano già puntati su di lui, creando una collisione tra la direzione dei loro sguardi. Era un ragazzo dai capelli color miele, con un largo sorriso che sembrava rivolto proprio a lui. Harry batté le palpebre un paio di volte, prima di distogliere lo sguardo. Era ormai abituato ad essere osservato, anche se c’era qualcosa di diverso in quel ragazzo, o meglio, in quel sorriso. Come se lo stesse leggendo dentro.
“.. ecco a voi!” esclamò vivacemente l’oratore, catturando nuovamente l’attenzione di Harry. Un paio di uomini tirarono giù un velo bianco attaccato al muro, mostrando una serie di quadri ispirati alle fiabe di tutto il mondo. Tutti si alzarono per applaudire, interessandosi alla parete adesso colorata di cornici in oro e tele di diverse vernici. Sarebbe stata l’occasione perfetta per sgattaiolare via, nessuno se ne sarebbe accorto. Eppure c’era in quella parete qualcosa che lo attirava, c’era il suo quadro. Voleva vederlo ormai, voleva vedere l’ennesima rappresentazione non veritiera della sua figura, del suo passato, del suo essere bambino. Sospirò, rassegnandosi a stringere qualche mano e a rivolgere qualche parola di saluto per avvicinarsi alla parete. Cercò di non farsi distrarre mentre guardava ogni singolo quadro, evitando lo sguardo della gente che lo cercava. Voleva perdersi in quel quadro di Hansel e Gretel, con una casa di marzapane sullo sfondo e due bimbi sorridenti in primo piano, probabilmente dopo aver sconfitto la strega cattiva.
Le fiabe non esistono. Si disse in mente, analizzando quei sorrisi che solo sulla tela potevano esistere.
Voleva perdersi in quel quadro con protagonista un burattino di legno con il naso lungo, creato da un povero italiano solo per pagarsi i debiti di gioco. Almeno lui sapeva che le bugie esistevano ed erano a base delle infanzie di tutti i bambini di questo mondo.
Le fiabe non esistono. Ripeté ancora una volta, forse a bassa voce, forse per convincere i bambini strillanti accanto a lui.
E poi c’era il suo quadro. Come nella copertina del libro, la figura di Peter Pan era luminosa, si stagliava nel cielo più limpido, non toccando con i piedi calzati da scarpe vellutate nemmeno la roccia su cui, felici e spensierati, sedevano i bimbi sperduti, dalle facce colorate per una lotta contro il temibile Capitan Uncino, sullo sfondo, con la sua veste rossa e l’inseparabile aiutante Spugna. E poi c’erano loro, vicino a Peter. Ma Harry non aveva neanche il coraggio di guardarli, perché tantissimi ricordi avrebbero assalito la sua mente proprio come i pirati devastavano l’Isola che non c’è.
Ma l’isola c’era, era l’isola dei ricordi, che rimanevano sempre lì, nel cuore di Harry. Solitario, addolorato, stanco, in una voragine di pura sofferenza.
Questa era la storia di Peter Pan per Harry: puro dolore.
Wendy, Gianni e Michele a fissarlo, ma lui non voleva neanche pensare a loro.
1904 era la data sotto il quadro, la data della prima rappresentazione di Peter Pan.
Harry aveva solo sette anni e credeva che il vero mondo fosse quello, ma la vita era ben altro. Questo lo avrebbe capito solo col tempo.
Passò avanti. Un altro quadro, pieno di colori, ma Harry si concentrò solo sull’azzurro di quella bambina dai capelli biondissimi, con un fiocco in testa. Ai suoi piedi, un coniglio bianco con un panciotto che assomigliava a quello che lo stesso Harry indossava e un orologio da tasca. Vicino, ancora, un uomo con un cappello enorme verde da cui spuntava un’etichetta con su scritto 10% e una tazzina in mano.
Sullo sfondo Harry non vedeva, ma addirittura sentiva una regina cosparsa di cuori urlare “Tagliatele la testa!”. Aveva raccontato così tante volte quella storia a suo fratello più piccolo che ormai poteva ripeterla a memoria come una poesia di Shakespeare.
Ma così come l’Isola che non c’è, il cosiddetto Paese delle meraviglie, non esisteva affatto.
Harry fece per andarsene ma un piccolo particolare attirò la sua attenzione, che lo lasciò leggermente sorpreso. Alzò le dita verso il quadro, arrivando persino a toccare la tela ruvida con i polpastrelli. Non gli importava se fosse vietato, ma su quella bambina dai capelli lucenti aveva visto qualcosa che lo fece rabbrividire.
Harry aveva già visto quegli occhi, esattamente pochi minuti prima. Erano azzurrissimi, bellissimi, e si girò di scatto in cerca di quelli veri, reali, che poteva ammirare senza sentirsi in colpa, senza annegare in un mare di fiabe e bugie.
Il ragazzo lo stava fissando. Probabilmente aveva continuato a fissarlo per tutta la durata della mostra, ma Harry non se n’era accorto se non per quei pochi istanti di scontro tra sguardi. Era appoggiato allo stipite della porta del retrobottega, dove prima aveva curiosato tra i libri. Sorrideva e con una mano gli fece segno di avvicinarsi.
Harry rimase un attimo interdetto. Uno sconosciuto, probabilmente più piccolo di lui gli stava facendo cenno di muoversi, ma lui non riusciva. Guardò il quadro ancora una volta, quegli occhi azzurri così identici a quelli del ragazzo. Scorse la data, 1865, l’uscita di Alice nel paese delle meraviglie. E poi decise di andare, sperando che non si trattasse del solito giornalista ficcanaso dalle mille domande su lui, su Barrie e soprattutto sui suoi fratelli.
Le fiabe non esistono. Ripeté un’ultima volta, ad alta voce, facendo girare alcuni presenti intenti a guardare Peter e Alice.

Il silenzio e la polvere avvolsero Harry, non appena entrò di nuovo nella stanza dei libri. Probabilmente era un magazzino, vietato ai clienti della libreria, se ne rese conto quando notò che probabilmente erano mesi che non pulivano. Sembrava non esserci nessuno, ma lui sapeva che il ragazzo lo stava aspettando da qualche parte dietro gli scaffali.
Sperò con tutto il cuore che tutta quella storia non fosse una perdita di tempo, avrebbe dovuto andarsene finito il discorso. Ma aveva deciso di fare l’egocentrico e andare ad analizzarsi ancora una volta in un quadro e adesso ne pagava le conseguenze. Si mosse piano, a passi lenti, cercandolo tra le fessure che i libri lasciavano fra di loro.
Vide il suo sorriso racchiuso in due labbra sottilissime e rosee tra una copia della Medea e una dell’Antigone, dietro lo scaffale della sezione greca. Ma il ragazzo era sempre in movimento e quel sorriso gli sfuggì subito, così Harry fu costretto a camminare.
Vide due guance sicuramente soffici e arrossate tra Racine e Molière, un piccolo naso delicato e nient’altro, perché era scappato via di nuovo. Il riccio sentì una risata cristallina riempire la stanza, sostituendo tutta la polvere, rischiarendo ogni singolo libro, portando freschezza fuori e dentro il cuore di Harry. Una ventata d’aria nell’Isola dei ricordi.
Orgoglio e pregiudizio e Cime tempestose nascondevano invece l’unica ragione per cui Harry era lì. Quei due diamanti azzurri erano incastonati in ciglia lunghissime, che battevano veloci accompagnando il suono della risata che toccava la pelle di Harry come seta.
Il ragazzo dai capelli color miele chiuse gli occhi, spostandosi qualche ciuffo ribelle caduto sulla fronte. Il riccio non disse nulla, destabilizzato da quella visione meravigliosa. Aprì leggermente le labbra carnose, mentre si perdeva in ogni minimo dettaglio del viso del ragazzo, che improvvisamente riaprì gli occhi sprizzanti di gioia, per poi scomparire di nuovo.
Harry sospirò, perché stava prendendo parte a quel gioco? Stava iniziando a stancarsi, per cui, svoltò l’angolo dietro lo scaffale con grandi falcate e lo raggiunse. Era appoggiato alla sezione “Bambini”, quella che il riccio aveva già perlustrato. Aveva un libro in mano che sfogliava freneticamente e un altro sotto il braccio.
“Sei carino qua, Peter.” sussurrò il ragazzo, mostrandogli la copertina di Le avventure di Peter Pan.
Harry fece per andarsene, la rabbia e la delusione si stavano già impossessando di ogni singola cellula del suo corpo, ma la risata del ragazzo dagli occhi azzurri lo fece fermare.
“Aspetta!” esclamò, avvicinandosi con passi leggeri e aggraziati come quelli di una ballerina. “Guarda che siamo sulla stessa identica barca, Peter.”
“Non chiamarmi Peter!” rispose Harry stizzito, aggiustandosi il ciuffo di capelli ricci davanti la fronte. Odiava sentirsi chiamare così.
“Mi dispiace, Harry.”
Il riccio si rilassò un po’ a quelle parole, prendendo fiato e iniziando a convogliare tutto il suo nervosismo sulle labbra, mordendole quasi a sangue. Nessuno lo aveva mai chiamato per nome. Era sempre stato Peter per tutti, o signor Davies Styles, o il pupillo di James Barrie. Quel ragazzo non era come tutti gli altri giornalisti impertinenti, forse non era nemmeno uno di loro. Portava una camicia bianca, con sopra un gilet azzurro. Sembrava davvero l’abbigliamento di Alice nel paese delle meraviglie.
“Chi sei?” chiese flebilmente Harry, che era più grande del ragazzo, ma si sentiva intimidito da lui e dalla sua sicurezza, dal suo sorriso, dai suoi occhi azzurri.
“Come? Non mi hai riconosciuto?” rise l’altro, portandosi la mano al petto allargatosi per la forte risata. Si scostò qualche capello ribelle che si appoggiava delicato sulla fronte, dondolandosi avanti e indietro. Sembrava un bambino, pensò Harry. Uno di quelli vivaci, che non sta mai fermo, sempre col sorriso in faccia e una curiosità accesa negli occhi. Un bambino che non temeva nulla, nemmeno le cose peggiori di questo mondo.
“Ci conosciamo?” chiese ingenuamente Harry, anche se da qualche parte dentro di lui, sapeva benissimo che non si erano mai incontrati e soprattutto che i suoi occhi erano come quelli del quadro visto poc’anzi. Più che una similitudine, erano proprio identici.
“Ah Harry, come sei sciocco!” pronunciò lentamente il giovane, saltellando in avanti verso il riccio, con un’eleganza da pochi. Si piegò in avanti in un inchino aggraziato, lasciando Harry leggermente sbalordito. “Piacere, sono Louis Liddell Tomlinson.”
“Liddell?” chiese perplesso il riccio, grattandosi la tempia e concentrandosi su quel cognome così familiare.
“Sciocco, sciocco, sciocco!” continuò a ripetere Louis, pronunciato alla francese e adorabile e musicale come quelle melodie francofoni che sembravano trasmettere pace e tranquillità. Louis danzava intorno a lui. Non camminava, danzava. Passi leggeri e veloci, le braccia coordinate e lo sguardo fisso su di lui. Louis danzava come una farfalla in cerca del suo fiore preferito.
“Tu sei..” cominciò Harry, molto titubante. Non poteva essere lui. “Dovresti avere..” cercò di riprendere il discorso, incapace di formulare un’affermazione di senso compiuto.
“Tu sei..dovresti avere.. Come sei noioso Peter!” esclamò Louis, alzando le mani per prenderlo in giro, tra una risata e l’altra. “Non riesco a credere che Barrie abbia scelto te per creare quella buona stella di Peter Pan.”
“Oh, non farmi la predica, Alice! Non riesco a credere che Carroll abbia scelto te per fare una ragazzina!” sbottò il riccio, corrugando la fronte e alzando leggermente il tono di voce.
Aveva di fronte a sé Alice nel paese delle meraviglie.
Peter e Alice nella stessa stanza, due anime senza un vero corpo che si incontravano nel retro di una libreria.
Louis gli sorrise, avvicinando il volto all’orecchio dell’altro, dischiudendo le labbra come un fiore in primavera. “Finalmente ci sei arrivato, piccolo Harry.” sussurrò dolcemente, parole come la più dolce delle musiche classiche, tasti di un pianoforte bianco e azzurro, come gli occhi del ragazzo che brillavano compiaciuti, orgogliosi di ciò che stava succedendo.
Harry trattenne il fiato per qualche secondo, mentre si beava di quel suono dolce, del profumo di Louis che ricordava molto quello di un campo in fioritura. Forse era lavanda, quell’odore buonissimo che lo penetrava in ogni singolo lembo di carne. Aveva voglia di aggrapparsi a quel gilet, aveva paura che le gambe cedessero.
Era un ragazzino, pensò, cercando di rinsavire.
Fu proprio in quel momento che si rese conto che qualcosa non quadrava, mentre l’immagine del quadro del Paese delle Meraviglie riappariva nella sua testa.
1865 era la data di uscita del libro di Lewis Carroll.
Come poteva essere Louis così dannatamente giovane?
“Ma..” iniziò Harry, boccheggiando. “Tu non sei Alice! Non puoi esserlo. Dovresti avere circa 80 anni o su di lì.”
Louis si allontanò un poco dal suo viso, senza smettere di sorridere. Appoggiò una mano sulla spalla del riccio, scuotendo la testa come rassegnato. “La guerra ti ha reso così cieco, Harry.”
“Come fai a sapere che ho partecipato alla guerra? Chi diavolo sei?” domandò il riccio, scostando il braccio di Louis e allontanandosi.
Ad Harry piaceva pensare razionalmente. Lui non era Peter Pan, non riusciva ad essere impulsivo e a cercare l’avventura in ogni angolo. Per Harry, tutto doveva essere perfettamente congruente con la verità, con l’ordine. Ogni cosa doveva quadrare, avere un suo spazio preciso nella realtà. E nella sua mente, in quel momento, un ingranaggio era saltato, la linea del tempo era stata interrotta con qualcosa di sovrannaturale, che non poteva accadere. Sicuramente, quel Louis, ammesso che si chiamasse così, stava mentendo.
Era questo quello che si ripeteva, cercando di convincersi.
“Te l’ho detto, sono Louis Liddell Tomlinson, o Alice, come preferisci.” fece spallucce il più giovane - fin troppo giovane adesso agli occhi di Harry- senza dar peso alle parole, come se quella fosse la cosa più normale del mondo. “E poi io so tutto di te, signor Styles.”
Harry era ancora troppo confuso, non riusciva a rispondere nulla, così Louis ne approfittò per continuare a volteggiare, questa volta più lentamente, intorno a lui.
“So che hai ricevuto una medaglia dopo la fine della guerra. So che hai fondato poco dopo anche una casa editrice, di cui in realtà ti interessa ben poco perché..”
Louis si fermò un attimo, chiudendo gli occhi e respirando a fondo. Sembrava quasi avesse paura di continuare, questa era la percezione che aveva Harry. Si portò le dita alle labbra, sovrappensiero, dischiudendole appena, facendo godere Harry di quella visuale meravigliosa. Riaprì gli occhi, portando la mano al petto del riccio, all’altezza del cuore, come se avesse voluto dargli un bacio leggero. “… perché qui dentro hai demoni così forti da combattere, che il tuo lavoro è l’ultima dei tuoi pensieri.” concluse, restando immobile per qualche istante, esattamente come Harry.
Quest’ultimo non riusciva a muovere neanche un muscolo, troppo sorpreso da quelle parole. Non riusciva nemmeno a rifletterci su, la sua mente era troppo bloccata in quegli occhi azzurri che trapelavano un’energia che Harry non aveva mai visto in nessuno prima di allora. Si lasciò accarezzare dalle dita di Louis da sopra il gilet verde, silenziosamente per qualche istante. Era come se volesse creare un collegamento fra loro due, tra Harry e Louis, non tra Peter e Alice. Quelli erano solo fantasmi, erano solo le loro ombre che li accompagnavano in ogni istante della loro vita da quando Barrie e Carroll vi erano entrati.
Ma sotto il cappello verde con una piuma arancione all’insù, c’era in realtà un ragazzo che era cresciuto troppo in fretta, che nessuno notava, che aveva sempre dovuto nascondersi pur di non essere chiamato “Peter”. E sentiva che sotto l’immagine di una bambina dai capelli biondissimi raccolti da un cerchietto nero, c’era un’altra persona meravigliosa, tutta da scoprire, con due occhi azzurri stupendi che parlavano da soli.
Ma c’era qualcosa che interrompeva questo collegamento, perché Harry non voleva saperne niente di Peter, ma sembrava che Louis invece senza Alice non volesse vivere.
“So anche che avevi quattro fratelli. Ah i fratelli Davies Styles come i bimbi sperduti!” continuò Louis, staccandosi dal petto di Harry, che nel frattempo si era rabbuiato. Pensare ai suoi fratelli gli faceva male, da quando non erano più al completo. Si sentì attanagliare da una stretta fortissima al cuore, distolse lo sguardo dall’altro che, non accorgendosi del volto triste del riccio, continuò invadendo degli spazi che nemmeno Harry era solito frequentare.
“So anche i loro nomi.” disse, appoggiando due dita sotto al mento per riflettere meglio. “Dunque c’è John, Nicholas e c’erano G-”
“Basta, stai zitto.” lo interruppe improvvisamente il riccio, trapelando una rabbia che fece indietreggiare un po’ Louis, che però non perse il suo sorriso.
“Tranquillo.” sussurrò piano. “Volevo solo fare uscire un po’ dei tuoi demoni.”
Harry corrugò la fronte, portandosi la mano al petto come se d’un tratto si sentisse vuoto in quel punto, come se avesse sentito dei mostriciattoli dalle lunghe braccia aggrapparsi all’uscita del muscolo, uscendo fuori la testa e facendo brillare i loro occhi malvagi, per poi saltare giù, lì in mezzo, tra Harry e Louis. Poteva vederli, i suoi demoni. Erano lì a fissarlo, rendendolo più nervoso che mai. Non riusciva ad affrontarli, a guardarli giocare col suo cuore ormai dilaniato.
“Sono tanti vero?” chiese Louis, incrociando le braccia. Harry avrebbe voluto dire tanto, ma le parole non uscivano, come se i demoni avessero portato via persino la voce.
“Tutti li abbiamo Harry, i tuoi non sono tanto diversi dai miei, sai? Devi solo imparare ad affrontarli.” continuò, cercando lo sguardo del riccio, ancora perso per terra. “Solo così se ne andranno.”
“Come?” chiese Harry, facendo scontrare la direzione dei loro occhi. “Come si fa?”
“Beh, tu sei Peter Pan, hai coraggio da vendere. Sai benissimo come fare, ma non vuoi cercare una soluzione perché è troppo dolorosa.”
“Smettila di chiamarmi così! Tu non sai niente di me, niente!” sbottò Harry, iniziando ad urlare, non curandosi delle persone nell’altra sala. Era arrabbiato con Louis, che pretendeva di conoscerlo meglio degli altri. Si erano appena conosciuti e già pensava di analizzarlo come se fosse una qualsiasi cavia da laboratorio.
“Certo, io non so niente.” borbottò Louis, ancora con le braccia conserte. “Pensi che la morte di due dei tuoi fratelli non mi tocchi? Pensi che tu sia l’unico a cui sia successa una cosa del genere? Pensi di essere l’unico ad aver vissuto la guerra?” aveva chiesto, avvicinandosi nuovamente, passo dopo passo, verso un Harry più che arrabbiato.
“Pensi di essere l’unico vissuto per anni all’ombra di un personaggio delle fiabe?” aveva infine chiesto, a pochi millimetri dalle sue labbra, respirando a pieni polmoni il mix di profumi che si era appena creato.
Sembravano usciti da un cartone animato, Harry con le guance arrossate e il suo gilet verde a contrasto con quello azzurro di Louis, dagli occhi brillanti.
“Come fai a convivere con i tuoi demoni?” chiese Harry, non sapendo come rispondere a quella provocazione. Gli girava la testa, ma non riusciva ad allontanarsi da quel ragazzo così misterioso e che al tempo stesso gli infondeva un’energia che non aveva mai provato prima d’allora.
“Nel Paese delle meraviglie tutti i demoni vanno affrontati, oppure si rischia di morire. Non è così nell’Isola che non c’è?” rispose Louis, come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Oh andiamo, smettila con questa storia.”
Harry si allontanò da lui, iniziando a camminare avanti e indietro in quel piccolo spazio impolverato. “Le fiabe non esistono, esiste solo questa vita, patetica e dolorosa, ma esiste solo questa.”
“Una fatina sta morendo mentre dici queste cose.”
Louis sorrise e per un attimo Harry non vide più i demoni accanto a loro.
“Smettila!” lo incitò ancora il riccio. “E comunque continuo a non credere che tu sia Alice. Sei così giovane!”
“Oh grazie!” batté le mani Louis, prendendolo come un complimento. “Nel Paese delle meraviglie non si invecchia mai. Anche nell’Isola che non c’è, ma tu hai deciso di andartene quindi eccoti qua, ti stanno spuntando le prime rughe!”
Harry rimase sconcertato da quelle parole. Quello non era Alice, quello era un pazzo scappato da una clinica psichiatrica, ecco cos’era.
“Ok adesso è davvero troppo. Addio Louis o qualsiasi altro sia il tuo nome, io me ne vado.” disse, voltando le spalle e dispiacendosi per aver detto addio a quegli occhi così belli.
“Hai dimenticato i tuoi demoni.” sussurrò Louis, abbastanza forte da farsi sentire dal ragazzo riccio, che si immobilizzò di colpo. Un senso di paura e confusione lo investì, senza capire cosa lo avesse provocato. Si voltò lentamente, e ciò che vide lo portò ad appoggiarsi sulla libreria, perché quello era davvero troppo.
Louis stava indicando proprio il punto in cui, con la mente, Harry aveva visto depositarsi i demoni. Non era la prima volta che immaginava una cosa del genere, ma come faceva Louis a sapere della sua immagine mentale? Boccheggiò incapace di dire qualcosa, mentre Louis sorrideva, voltandosi verso lo scaffale pieno di libri per bambini. Ne prese uno, aprendolo ad una pagina qualsiasi. Harry intravide un’illustrazione, sembrava un uomo con un capello stravagante e una tazzina in mano. Louis tornò su suoi passi, gettando il libro aperto proprio sul punto dove il riccio aveva visto i suoi demoni, schiacciandoli.
Harry giurò di averli sentiti urlare per il dolore.
Louis si piegò in ginocchio, continuando a guardare il più grande, senza smettere di sorridere. Si sporse leggermente in avanti, davanti al libro, infilandoci una mano dentro.
Letteralmente.
Harry era sconvolto, le sue gambe cedettero e in un istante si ritrovò per terra, senza riuscire a guardare ciò che stava accadendo. Il braccio di Louis era immerso in quelle pagine, da cui usciva adesso un bagliore particolare, che avvolgeva l’arto del giovane, intento a ruotarlo come se stesse cercando qualcosa. “Ah ecco!” esclamò contento, facendo uscire il braccio con una tazzina in mano. “Vuoi un po’ di tè?” chiese tranquillamente, facendo spallucce. “Il Cappellaio Matto si offende se non accetti!”.
Harry si pizzicò un paio di volte le guance per svegliarsi. Perché quello poteva essere solo un sogno, non poteva accadere veramente. La bocca aperta per lo stupore e la posizione a gattoni non cambiarono per un lasso di tempo infinito. Louis sbuffò, poggiando la tazzina accanto al libro e gattonando vicino all’altro ragazzo.
“Te l’avevo detto che il Paese delle meraviglie riusciva a sconfiggere qualsiasi demone!” pronunciò, allungando un dito verso la guancia che Harry aveva pizzicato, accarezzandola lievemente.
“Ch-chi sei?” era riuscito finalmente a dire il riccio, continuando a pensare che quello fosse il peggiore dei suoi incubi.
“Quante volte devo ripeterlo? Sono Louis Liddell Tomlinson. Sono la versione reale e non di Alice nel Paese delle meraviglie.”
“Reale? Tutto questo non può essere reale! Sto sognando. E’ questa l’unica soluzione.”
Harry cercò di rialzarsi in piedi, ma una luce forte dietro Louis attirò l’attenzione del riccio, che ormai non sapeva più cosa aspettarsi. Il libro si chiuse di scatto, facendo tremare la tazzina e i demoni, neri più che mai, saltarono improvvisamente, rientrando nel posto vuoto che avevano lasciato dentro il corpo di Harry. Barcollò un attimo, ma perse comunque l’equilibrio, cadendo tra le braccia di Louis, che lo strinse in un abbraccio caloroso.
“Vedi cosa succede quando dici che le fiabe non esistono? I demoni tornano da te, sempre.” disse, carezzando i ricci del più grande.
Harry tremava, immobile, tra quelle braccia. Ma era solo un sogno, quindi perché aveva così tanta paura? Sbatté un paio di volte gli occhi, prima di districarsi da quell’abbraccio e tornare sulle sue ginocchia. Aveva voglia di piangere, perché quello era decisamente il sogno peggiore che avesse mai fatto. Si sarebbe svegliato decisamente male.
“Allora, vieni con me nel Paese delle Meraviglie?” chiese Louis, tendendogli la mano.
“Assolutamente no! Voglio solo svegliarmi.” sussurrò Harry, senza fiato per la troppa emozione.
“Andiamo, so che vuoi venire in realtà.” Louis si alzò in piedi, con la mano sempre tesa verso il riccio piegato in ginocchio per il troppo sforzo. Accettare di vedere una cosa del genere non era da tutti i giorni. “Visto che credi sia solo un sogno, di cosa hai paura?”
Harry Davies Styles aveva paura di un sacco di cose, ma come ormai era abituato a fare, faceva finta di avere coraggio e sorrideva a qualsiasi cosa, non arrendendosi mai.
Aveva finto di non arrendersi quando suo fratello George era morto in guerra, la stessa guerra a cui aveva partecipato anche lui, macchiandosi del sangue del nemico e dei suoi stessi compagni, per un obiettivo che non era chiaro a nessuno, tantomeno a lui. Aveva visto occhi spegnersi e madri urlare con figli tra le braccia, pregando dio per un posto in un paradiso fittizio.
Aveva finto di non arrendersi quando suo fratello Michael si era buttato tra le acque, lasciando che le onde portassero via ogni brandello di vita di quel povero ragazzino, tormentato dalla stessa ombra che aveva sempre perseguitato tutti i fratelli Davies Styles.
J. M. Barrie aveva portato via tutto da loro. Loro erano Peter Pan e i bimbi sperduti, erano la sua fonte di ispirazione che aveva risucchiato tutto ciò che faceva di loro persone vere.
Harry lo avrebbe sempre odiato per questo, per aver creato una fiaba.
Harry odiava le fiabe, tutte indistintamente.
Eppure, era là, in piedi di fronte al libro nuovamente aperto e la mano di Louis dentro la sua.
“Salta.” gli sussurrava il più giovane, incitandolo ad entrare dentro al libro.
Harry era titubante, ma la convinzione che tutto quello fosse un sogno provocato dalla cena pesante della sera prima, gli dava qualche speranza in più.
Così, senza pensarci due volte, ad occhi chiusi, lasciò la mano di Louis e saltò dentro, pensando a George e Michael ancora una volta.
Louis sorrise soddisfatto, non appena il corpo di Harry scomparve dentro il libro. Si mosse anche lui verso esso, osservando l’esplosione di luci colorate che il riccio aveva provocato, che lo costrinsero a chiudere gli occhi per qualche istante. Non appena il bagliore cessò, si piegò a prendere la tazzina, saltando dentro anche lui.
Il Cappellaio si sarebbe arrabbiato se non avesse riavuto la sua tazzina.

***

Un vento gelido si alzò, muovendo le foglie degli alberi, illuminati solo dalla luce della luna. Nel giardino reale però, non c’erano solo i grilli a riempire quella notte di luna piena, che cantavano accompagnati da urla di paura e pianti disperati. Il castello era ormai abituato, ogni singolo mattone su cui la regina aveva camminato era impregnato di dolore, del suono stridulo di grida, di sangue, di morte. Gelido e cupo, l’edificio era ormai diventato un luogo da cui quasi nessuno usciva vivo. E l’uomo disperato piegato sulle sue ginocchia che stava per perdere la testa lo sapeva bene.
La falce era sospesa sopra di lui, e sembrava brillare di una luce propria. A reggerla era un uomo incappucciato, un boia per l’esattezza, che aspettava un segnale dal suo padrone per poter mandare giù la sua arma, tagliando l’aria e non solo. Dietro di lui, una figura vestita elegantemente in bianco si stagliava tra il verde dei cespugli. Era un altro uomo, in uno smoking completamente bianco e con una cravatta blu, come la notte sopra di lui. Indossava una bombetta anch’essa bianca sul capo e portava degli occhiali rotondi e spessi. In una mano, reggeva un bastone, quelli usati per camminare; nell’altra, teneva un orologio da taschino, completamente in oro.
“Siamo in ritardo sulla tabella di marcia.” aveva sussurrato, mettendo l’orologio in tasca e sospirando. Iniziò a camminare verso l’entrata del castello, schioccando le dita una sola volta, senza voltarsi indietro.
Per quella notte le urla finirono e l’erba del giardino reale sarebbe stata nutrita dal sangue di un povero malcapitato.
L’uomo in bianco nel frattempo aveva varcato il grande portone grigio, usurato dal tempo e dal gelo che regnava sovrano in quel luogo. Insieme alla regina stessa, s’intende.
Aveva continuato a borbottare qualcosa sulla tabella di marcia, mentre con passo sicuro percorreva i grandi corridoi. A quell’ora della notte non vi era nessun cameriere o servitore in giro e l’unica luce proveniva dalle poche vetrate presenti nell’edificio. Non vi erano quadri o tappeti colorati che decorassero muri e pavimenti, era tutto terribilmente grigio e cupo, colori che attanagliavano il cuore soffocando qualsiasi sensazione di gioia o speranza. L’uomo entrò in una grande sala, la cui unica luce proveniva da una grandissima vetrata proprio davanti a lui. Tutto il resto della stanza era in penombra, con la polvere a fare da coperta. Tutto il resto tranne il trono, e la donna che vi era seduta sopra. L’uomo in bianco le si avvicinò, abbottonandosi i gemelli della giacca e risvoltando la manica della camicia che usciva, con un’eleganza da pochi. “Tutto fatto, mia regina. Scusi il ritardo.” aveva pronunciato, sottolineando l’ultima parola come se fosse il peggiore dei suoi incubi.  
La donna annuì, con un sorrisetto rilassato sul volto. Indossava un abito lungo e azzurro, dalla gonna ampia e voluminosa, da vera regina. Tutto il vestito era ornato con piccoli fiorellini bianchi che nel complesso sembravano gocce di pioggia che si riversavano in un mare movimentato, o almeno così appariva per effetto delle pieghe. Il corpetto tratteneva un corpo magro e fragile e sopra di esso poggiavano delicati dei boccoli biondi trattenuti da un nastro anch’esso azzurro. Sembrava una bambina, dagli occhi grandi e -ovviamente- azzurri. Ma non lo era, perché ormai era cresciuta e le sue forme erano quelle di una donna.
“Quel traditore ha avuto ciò che meritava.” disse, poggiando i gomiti sui braccioli del trono. “E poi mi annoiavo.” aggiunse, dondolando le gambe da sotto il vestito, come se tutto quello fosse un gioco. “Grazie mille, Bianconiglio.”
L’uomo in bianco fece un inchino alla sua regina, con un sorriso soddisfatto. “Ho fatto solo quello che avevate chiesto.”
La Regina unì le mani in un sonoro schiocco, alzandosi in piedi. “Se dovessi trovare un altro traditore..” esclamò, avvicinandosi al Bianconiglio con passi leggiadri. Poggiò una mano sulla spalla di lui e si sollevò sulla punta dei piedi, per eliminare la differenza d’altezza che vi era fra i due. Appoggiò una guancia contro quella dell’altro, sfiorandogli l’orecchio con le sue labbra rosee. “.. Tagliagli la testa.”
Il Bianconiglio sorrise ancora, in quella notte buia e gelida, mentre il castello dormiva.
“Come lei ordina, regina Wendy.”

***

“Ma è davvero lui?”
“Questo è uno sfigato ed è più brutto.”
“Ed è riccio!”
“E dov’è il suo cappello?”
“Ma è morto?”
Gli occhi di Harry si aprirono piano piano, infastiditi dalla luce proveniente dall’alto. Il brusio intorno aumentò, ma era troppo confuso per capire anche solo una parola.
“Lasciatelo in pace!” aveva sentito poi, una frase che sovrastava tutte le altre, pronunciata da una voce che Harry sembrava di ricordare. Si stropicciò gli occhi intorpiditi, cercando di far chiarezza su quelle immagini sfocate. “Chi è questo?” “Perché è finito qui?” avevano continuato a chiedere. “Louis perché lo hai portato qua?”
Tutto ad un tratto i ricordi affiorarono nella mente di Harry e tutto si fece più chiaro.
Allora, vieni con me nel Paese delle Meraviglie?
Stava ancora sognando, evidentemente, perché altrimenti non avrebbe potuto, svegliandosi, trovarsi davanti il volto perfetto di Louis.
“L-Louis?” chiese titubante, cercando di alzarsi in piedi e fallendo miseramente.
“Ciao Harry.” lo salutò il diretto interessato, scostandogli un riccio dalla fronte e sorridendogli amorevolmente.
Il più grande si appoggiò sui gomiti, ancora sdraiato e si guardò intorno. A fissarlo vi erano circa dieci paia di occhi. Dieci bambini con le bocche aperte, la fronte corrucciata o un sopracciglio alzato.
“Visto! Non è Peter. Questo sfigato si chiama Harry.” aveva mormorato uno di loro, che indossava una giacca in camoscio più grande di lui e una maglia di lino usurata dal tempo. Ai piedi, solo il fango di chi aveva camminato per tanto tempo.
“Silenzio.” aveva ordinato Louis, facendo cenno di smetterla con la mano. “Stai bene?” chiese poi, con la voce di chi era seriamente preoccupato.
E sebbene Harry volesse sciogliersi a quelle due semplici parole pronunciate con la stessa dolcezza di una torta al cioccolato bianco, non poteva perché davvero, quei bambini continuavano a fissarlo come se fosse l’attrazione più strana di un circo.
Tutto quello era irreale. Ma dove era finito?
Allora, vieni con me nel Paese delle Meraviglie?
“Avrai preso una bella botta, non tutti sono abituati ad entrare nella tana del Coniglio.”
Harry sbatté le palpebre un paio di volte, senza capire, troppo intontito dal dolore che provava sparso nelle ossa del corpo. Come se fosse caduto.
Poi, si rese conto che effettivamente era caduto e si chiese anche come facesse ad essere vivo.   
Tutto questo non può essere reale! Sto sognando.
Sopra di lui, sovrastava la cosa più straordinaria del mondo. Era caduto tra quelle pareti rocciose lunghissime, di cui non riusciva a vedere neanche la fine. Era un’altezza disumana, non avrebbe mai potuto sopravvivere. Ma la cosa più strana era che nella lunga galleria che sembrava estendersi per chilometri interi, vorticavano gli oggetti più stravaganti. Librerie intere, sedie, tavoli, tappeti e persino un pianoforte erano sospesi in aria, come se quella fosse la loro posizione. In un buco lungo quanto il Tamigi.
E dire che Harry non aveva neanche mai provato a drogarsi.
“Benvenuto nel Paese delle Meraviglie!” esclamò Louis, o almeno Harry pensò di sentire queste parole, prima di svenire nuovamente.

***

Il secondo risveglio fu più traumatico del secondo, poiché Harry si ritrovò completamente fradicio. Appena aprì gli occhi, vide un bambino con in mano un secchio e la faccia divertita di chi aveva appena fatto lo scherzo più grande di tutti i tempi. Un po’ come quella che aveva Louis, notò poco dopo, rendendosi conto che era ancora in quello strano sogno in cui però sembrava tutto terribilmente reale. Non si trovava più alla fine della lunga galleria. Era in un bosco, o almeno pensava. Non era più sicuro di niente da quando tutto quello era iniziato.
“Scusa, per l’acqua. Pennino è sempre dispettoso, quando fa le cose.” disse Louis, porgendogli un fazzoletto di seta tirato fuori dal taschino per asciugarsi.
“Pennino?” chiese titubante Harry, appoggiandosi al tronco dell’albero dietro di lui. Gli doleva la testa, anche se l’acqua fresca aveva leggermente aiutato. Si sentiva ammaccato, stanco e senza forze e quasi non riusciva a sollevarsi per mettersi più comodo e per osservare meglio la compagnia che aveva davanti.
“Ah sì. Harry, ti presento Pennino, Pochino, i gemelli Sudilà e Giùdilì, Piumino, Ricciolo, Macchia e Flautino. Loro sono i bimbi sperduti.”
Harry alzò la mano per salutarli, ma i piccoli non sembravano altrettanto amichevoli, anzi, alcuni di loro sembravano proprio guardarlo male. I loro vestiti erano sgualciti: calzamaglie bucate, salopette tagliate, camicie strappate. Sto sognando un’opera di Dickens, pensò Harry.
“Bimbi sperduti” continuò poi Louis, rivolgendosi ai giovani accanto a lui e allungando una mano nella mia direzione. “Questo è il vostro caro Peter Pan.”
La smorfia non si dipinse solo sul volto di Harry per quel soprannome, ma in tutti quelli dei bambini, che sembravano avere più o meno la stessa età tra loro.
“Questo non è Peter Pan. Questo fa schifo.” disse uno di loro, uscendo fuori la lingua e facendo un versaccio per dispetto. Harry fece spallucce: come dargli torto?
“Su andiamo, non fate così. Dovete fidarmi di me quando dico che lui è Peter Pan. Solo che nell’altro mondo si fa chiamare Harry. Così come io mi faccio chiamare Louis.” Spiegò il ragazzo dal gilet azzurro, ancora intatto nonostante la caduta. Quello di Harry invece era diventato di un verde sporco, coperto dalla polvere della galleria.
“Sì Louis, ma tu appartieni a questo mondo. Lui no.” contestò ancora un altro bambino. Chissà come si chiamava quello, pensò ancora Harry.  Gli facevano tenerezza tutto sommato, nonostante le smorfie e le linguacce.
Gli ricordavano i suoi fratelli.
Ah i fratelli Davies Styles come i bimbi sperduti!
Pensi che la morte di due dei tuoi fratelli non mi tocchi?
“Anche lui appartiene a questo mondo. Deve solo capirlo.”
Harry scacciò via i suoi pensieri, che lo tenevano incatenato. Quasi riusciva a sentire il ferro che tirava i suoi polsi, il dolore della pelle lacerata, l’odore della ruggine. Era prigioniero della sua mente e quella condizione non sarebbe stata cambiata da niente e nessuno. Nemmeno da un sogno da veri sociopatici, con tanto di Alice nel paese delle meraviglie versione maschile con stupendi occhi blu e bimbi sperduti che sembravano i mendicanti della quarta strada a Brixton.
“Vero Harry?” chiese Louis, chiedendosi se il riccio fosse ancora in sé o meno.
“Cosa?”
L’unica risposta che ottenne fu un sorriso smagliante mentre le catene si allentavano un po’.

***

Louis non aveva risposto, ma aveva iniziato a dare ordini a tutti da vero leader del gruppo. I bambini si erano messi in fila per due. Harry aveva contato otto teste, di cui era già sicuro non avrebbe mai imparato i nomi. Ma poco importava, perché era sicuro che da lì a poco si sarebbe svegliato nel suo letto, nel monolocale che aveva affittato per poter raggiungere più velocemente la casa editrice. Non gli piaceva molto restare a casa da solo, per cui evitava il più possibile. Ma in quel momento avrebbe davvero preferito fissare il soffitto dell’appartamento piuttosto che il cielo azzurro di un mondo a cui non apparteneva. Seguì Louis in silenzio, verso una meta che ancora non conosceva. Aveva bisogno di qualche istante per realizzare che quello fosse davvero un bosco, perché neanche gli alberi sembravano essere normali. Avevano dei rami lunghi e sinuosi, che si muovevano con eleganza e di certo non per il vento: avevano vita propria, come se fossero delle braccia vere. Sulle punta delle dita, i rami più sottili, uscivano fuori delle foglie che cambiavano colore quasi ogni secondo. Prima giallo, poi verde chiaro e scuro, rosso, e di nuovo arancione e giallo. Non vi erano stagioni in quegli alberi, i colori cangianti rendevano il bosco uno spettacolo irripetibile. Ma non erano solo quelli ad incantare e a stupire Harry.
Piccoli animaletti dalle forme più strane caratterizzavano quel paesaggio unico e irripetibile. Vi erano uccelli di varie dimensioni che al posto del becco avevano martelli; scoiattoli agili e veloci che invece della piccola coda paffuta avevano trombette dorate, in tinta con la loro pelle arancione; tartarughe che portavano gli occhiali (una di loro in particolare, pensò Harry, assomigliava particolarmente al proprietario della libreria da cui era scappato); persino i ragni, dalle dimensioni più grandi del solito, avevano al posto della otto zampette matite colorate, e ad ogni passo lasciavano macchie di colori sull’erba.
Harry aveva voglia di toccare quello sprazzo di arcobaleno che sembrava essere il bosco. Era un tripudio di gioia e vivacità, qualcosa che non aveva mai visto, anzi, mai sognato.
Una farfalla dalle ali gialle e grandi si posò sulla sua spalla e Harry fece per toccarla, ma una mano lo fermò prima di spaventare la farfalla.
“E’ una panfarfalla! Portano fortuna, non la scacciare.”
Harry rimase elettrizzato da quel contatto che aveva avuto con la pelle di Louis. Morbida e calorosa, accogliente. Avrebbe voluto stringerla al petto e tenerla al caldo, tra le sue dita e il gilet, all’altezza del cuore. Per impedire che uscissero i demoni. Ma non aveva il coraggio di farlo, perché in fondo Louis non esisteva, no? Se lo ripeteva in mente e cercava di convincersi che tutto quello che provava era solo frutto della sua mente malata, che anche da dormiente, aveva deciso di lavorare creando quel sogno così ben fatto da sembrare quasi vero. Era talmente preso dall’analizzare le sue emozioni che non si era accorto che la farfalla gialla al posto delle ali aveva delle fette di pane, e quando finalmente si rese conto di che strano essere fosse, era già troppo tardi perché era volata via con altre pan farfalle.
Harry era sempre più estasiato da ogni singolo animale presente, ma mai quanto fosse estasiato dal sorriso di Louis che gli aveva appena rivolto. “L’hai fatta andare via.” disse il giovane del Paese. “Peccato!”
Peccato fosse solo un sogno.
I bimbi sperduti marciavano sull’erba umida di rugiada -e di colori dei ragni, e di marmellata che cadeva dalle pan farfalle- accompagnando il viaggio con canzoni in una lingua che Harry non conosceva. Saltellavano sempre in coppia, giocherellando fra di loro e tirandosi i calzoni per dispetto. Ma solo dopo si rese conto che non erano loro a cantare. Le voci soavi che sentivano provenivano dai cespugli, dagli alberi cangianti, dalla terra.
Erano i fiori ad avere quella voce meravigliosa, così intonata e capace di raggiungere note alte. Papaveri, rose, gigli e margherite con occhietti tra i petali e boccucce con tanto di ugola, che si univano in coro per dar vita a quella melodia, che riempiva il cuore di Harry.
Era felice. Non se lo sarebbe mai aspettato, ma tutto ciò che lo circondava lo rendeva terribilmente felice, come non si sentiva da tantissimo tempo. Aveva quasi paura di quella strana sensazione di serenità che si propagava nel corpo e nella mente, non era mai stata così tanta e così forte.
Si fermò un attimo, distaccandosi dal resto del gruppo e respirando a fondo il profumo di primavera -lavanda- di estate -pesca- di autunno -castagne- e di inverno -menta-. Chiuse gli occhi e per un attimo non rimpianse il suo letto a Londra, né il suo lavoro o la sua vita. Tutto era esatto in quel luogo, nonostante gli animali strani e le piante viventi. Tutto era bello, e lo era ancora di più con Louis accanto, che si era fermato.
“Immagino tu abbia tante domande.” affermò il più giovane, costringendo Harry ad aprire gli occhi. “Da dove vuoi iniziare?”
“Dove ci troviamo?” fu la prima domanda del riccio.
“Allora sei sciocco davvero!” Louis lo prese a braccetto, obbligandolo a continuare il cammino, per seguire il passo dei bambini. “Siamo nel Paese delle Meraviglie, anche se come avrai potuto notare..” disse, indicando poi le teste degli otto piccoli. “… questa terra ha ospiti che provengono dall’Isola che non c’è.”
“Perché?” chiese titubante il riccio, corrucciando la fronte.
“Perché sei entrato tu Harry! Hai rivoluzionato questo mondo. Guarda i bimbi sperduti: i loro vestiti sono come quelli dei bambini che vedi a Londra. Guarda i nostri: indossiamo gilet e cravatta e non una calzamaglia e un vestitino azzurro.” spiegò Louis, sventolando la mano di qua e di là per enfatizzare il discorso. Harry era confuso e si chiedeva come avesse fatto a cambiare il Paese delle Meraviglie, mischiandolo addirittura con Neverland, l’isola che non c’è.
“Guarda qui.” Louis gli indicò una pozza d’acqua a due passi da loro e spinse Harry davanti per farlo specchiare meglio. Quello che vide non era però l’uomo trentenne che aveva sempre visto sullo specchio di casa sua. Era un Harry più giovane, dal volto più rilassato, dai ricci più luminosi e dalle fossette più pronunciate. Quello era l’Harry dei suoi vent’anni.
“Qui non si cresce. Qui si è giovani per sempre.” aveva sussurrato Louis all’orecchio del riccio, che sconvolto da tutto quello, era rimasto fermo a fissare la sua nuova vecchia immagine. “Per questo tu sei giovane e non hai più di ottant’anni.“ aveva affermato. Louis annuì, ma Harry non si mosse ancora. Quello era davvero troppo.
“Voglio tornare a casa, Louis. Svegliami.”
Louis si allontanò di scatto dal riccio, con le labbra schiuse e gli occhi pieni di rabbia. “Tu pensi ancora che tutto questo sia un sogno?”
Il cielo era diventato grigio, i fiori avevano smesso di cantare e le foglie degli alberi erano diventate grigie. I bambini si fermarono, e tutto cadde in un silenzio che faceva quasi paura.
“Non è Peter Pan ad essere meteoropatico,  è l’Isola che non c’è che cambia il clima a seconda dell’umore del ragazzo.”
Le parole di J.M Barrie gli tornarono in mente e sicuramente, con quel misto tra libri che aveva creato, l’umore di Louis era legato ai cambiamenti climatici del Paese delle Meraviglie. Harry non aveva alcuna intenzione di far arrabbiare Louis, anzi quasi gli dispiaceva. Ma voleva solamente svegliarsi e finire tutto quello, perché le emozioni che provava erano come triplicate e intensificate così tanto da fargli male, da rendere il suo cuore fin troppo vivo, come non lo era mai stato.
“Non ce la faccio Louis! Guardami sono ringiovanito di dieci anni! Ci sono fiori che cantano, uccelli a forma di martello, farfalle a forma di pane, io non ci credo!”
Erano state parole disperate, quelle pronunciate da Harry. C’era stanchezza, nonostante tutte le belle emozioni che aveva vissuto nel bosco. Ma lui era una persona razionale, e accettare un mondo come quello era oltre i suoi limiti.
Louis rimase in silenzio per un po’, con gli occhi sbarrati a fissare il vuoto. I bambini dietro di lui, abbassarono gli sguardi. Alcuni di loro si tolsero il cappello, stringendolo tra le mani più forte che poterono. “Oh no.” era stato il coro.
Louis li guardò, con le mani tra i capelli e il viso stanco e addolorato.
Il riccio, invece, non sapeva proprio che fare. “Che succede?” aveva chiesto, ma i bambini erano troppo impegnati a guardarlo con odio per potere rispondere.
“Ok bambini.” aveva detto loro Louis, con un tono dolce e apprensivo. A Harry sembrò sciogliersi qualcosa dentro, appena sentì quella voce così preoccupata. Iniziò a sentirsi in colpa, anche se non sapeva esattamente per cosa. Lo fece e basta, si colpevolizzò per quegli sguardi affranti nei volti dei bambini e per gli occhi di Louis coperti da un velo di tristezza che li rendeva più scuri. “Andate dal Cappellaio, io lo convincerò, non preoccupatevi.”
I Bimbi Sperduti annuirono, scappando via poco dopo e addentrandosi ancora di più nel bosco.
“Che succede?” ripeté Harry, sperando in una risposta più esaustiva rispetto ad uno sguardo d’odio. Louis gli si avvicinò piano, sistemandosi i capelli e cercando di calmarsi. Appoggiò le mani sulle spalle del riccio, sospirando profondamente.
“Ok, non ci credi. Ma dato che pensi che tutto questo sia un sogno, puoi aiutarmi lo stesso?” chiese, soffiando ogni parola quasi con gentilezza, sulle labbra di Harry, che colpito da quel cambiamento di umore improvviso nei suoi confronti, non sapeva proprio che fare. Louis gli stava chiedendo davvero aiuto, e non aveva neanche tutti i torti. Se quello era un sogno, perché non aiutarlo? Perché non continuare a passeggiare in quel mondo che lo aveva fatto stare tanto bene?
“Che cosa dovrei fare?”
Louis si staccò piano da lui, guardando il cielo che stava tornando sereno. “Abbiamo una missione da compiere. E tu sei necessario, anzi, indispensabile.”
“Quale missione?” chiese ancora Harry, sempre più ansioso di sapere cosa lo circondava.
“Ti spiegherò meglio dopo.” rispose Louis, tornando a sorridere. “Quindi accetti?”
Harry non se la sentiva proprio di far perdere quel sorriso all’altro, ancora una volta. Era stato devastante vederlo triste. E dire che lo aveva appena conosciuto. Ma la tristezza che aveva visto nei suoi occhi azzurri, era qualcosa di indescrivibile, era come sentire un demone in più appendersi al suo cuore, stringendo ancora più forte, insieme a tutti gli altri. In fondo che gli costava? Si sarebbe svegliato meglio, con la consapevolezza di aver aiutato quel ragazzo, anche se era solamente frutto della sua immaginazione.
“Andiamo.” annunciò semplicemente, facendo diventare il sorriso di Louis ancora più largo. “Grazie” sussurrò quest’ultimo, prima di riprendere a camminare.
“Perché i bambini erano tristi?” chiese Harry, dopo qualche minuto di marcia.
Louis sembrò rattristarsi nuovamente, grattandosi la testa e guardando in basso. “Non hai notato che qualcuno manca? Qualcuno che, in teoria, dovrebbe essere sempre con te, Peter Pan?”
Una fatina sta morendo mentre dici queste cose.
“Campanellino..”
“In un mondo in cui vi è anche solo una persona che non crede, le fate non possono esistere.”
Secondo J.M. Barrie, Campanellino era una ragazza minuta, dalle ali argentate che brillavano anche di notte. A causa del suo corpo piccolo, non poteva contenere più emozioni alla volta, per cui spesso era terribilmente arrabbiata o terribilmente felice. Non parlava, ma il suo tintinnante scampanellio era comunque comprensibile a chi aveva familiarità con il linguaggio delle fate. Harry si chiese se, nel caso in cui Campanellino fosse viva in quel mondo, l’avrebbe capita. Probabilmente sì, perché lui era in fondo, molto in fondo, Peter Pan. E Campanellino era terribilmente devota a lui, la sua migliore amica, il suo fianco destro.
Harry non si sentiva in colpa per le fate, si sentiva in colpa per aver fatto diventare tristi quei bambini e soprattutto Louis. Così non disse niente per un po’, mentre camminavano in silenzio nella radura. I fiori tornarono a sbocciare e a cantare, mentre Louis si rilassava. Le foglie che cadevano e danzavano con il vento erano di nuovo cangianti. Il riccio allungò una mano per prenderne una verde, che al suo tocco magicamente diventò verde, esattamente come i suoi occhi. La mise nel taschino del gilet, gli piaceva particolarmente quella foglia e magari gli avrebbe anche portato fortuna per la missione misteriosa.

***

Molti passi e molte canzoni dopo, Harry e Louis arrivarono in un piccolo prato con una sola grande quercia. Sotto essa, vi era una grande tavolata, di circa venti posti quasi tutti vuoti. Sopra la tovaglia invece, sembrava fosse passato di lì un esercito: un centinaio di piatti sporchi, bicchieri, sottosopra dalle forme più strane, pezzi di torta, pasticcini a metà e liquirizie spezzate su tovaglioli bianchi con ricami arancioni. Era tutto con quella tonalità più o meno, mischiata con varie sfumature di verde. Ma tutto quello non era ciò che colpì subito Harry.
Dita affusolate intente a srotolare una piccola cartina bianca, strofinando i polpastrelli con una maestria che non aveva mai visto. Un volto allungato, affilato, senza alcuna peluria, di un rosa pallido che si intonava perfettamente con il colore delle labbra, rosso sangue. Belle e carnose, si erano appena appoggiate sulla carta, inumidendone il bordo con la saliva. La fronte corrugata per la concentrazione era ampia e coperta da ciuffi di capelli castano chiaro, quasi biondo cenere. Sotto le ciglia lunghe, si poteva notare un riflesso azzurro, non come quello di Louis, ma più chiaro, più ghiacciato. Gli occhi erano contornate da occhiaie profonde, come quelle di chi non aveva dormito per giorni interi.
“Finalmente.” aveva detto l’uomo, dalle orecchie leggermente appuntite, che spuntavano da sotto un capello a cilindro abbastanza grande, tutto in verde e con un’etichetta con su scritto 10%.  Indossava un cappotto lungo e grigio, fatto di un tessuto che andava di moda in quel periodo a Londra, notò Harry. Sotto, si intravedeva un maglioncino nero e al collo portava invece una sciarpa, arancione. “Benvenuto a Wonderland, Peter.” continuò ancora, con voce rauca e profonda e sorridendo ai due appena arrivati.
“Quella è erba?” chiese Louis a bocca aperta, avvicinandosi al tavolo dove era comodamente seduto l’uomo.
“Oh andiamo!” aveva risposto quest’ultimo, chiudendo la cartina dopo aver inserito delicatamente la sostanza. “Devo pur ricavarci qualcosa dall’entrata del ragazzino in questo mondo. Mi ha portato questi vestiti comodi e le sigarette.”
Si alzò in piedi, con la canna appena accesa tra le dita, mentre con passi leggiadri si avvicinava ad Harry. Si fermò poco prima, togliendosi il cappello e facendogli un elegante inchino. “Louis qui, dice che nell’altro mondo ti fai chiamare Harry. Beh, piacere mio Harry.” Ogni parola era scandita bene e l’ultima era anche carica di una particolare enfasi. Sembrava quasi sarcasmo, il riccio non ne era tanto sicuro però. Era troppo misterioso quell’uomo, e anche se aveva capito di chi si trattasse, c’era qualcosa di particolarmente strano in lui, magico forse, ma quasi spaventoso. Harry aveva quasi paura di quegli occhi color ghiaccio e di quella fossetta che compariva ad ogni ghigno. Ma allo stesso tempo, c’era qualcosa di terribilmente affascinante nel.. “Cappellaio Matto. Chiamami così, tu.”
Harry annuì, chinandosi a sua volta velocemente per salutarlo. Sotto lo sguardo attento dell’uomo, iniziò a tirare i lembi del suo gilet verde, troppo nervoso per il suo giudizio.
“Quindi tu non ci credi, eh?” chiese il Cappellaio, tirando una boccata di fumo e trattenendolo in bocca, per poi lasciarlo andare accanto al volto del giovane, che dovette socchiudere gli occhi. Gli spostò qualche riccio vicino l’orecchio e si avvicinò sempre di più, per poi sussurrare: “Ci crederai quando non tornerai più nell’altro mondo, in quella che tu chiami realtà.”
Louis scattò verso i due, poggiando una mano sul petto del Cappellaio e separandoli. “Smettila, lascialo in pace.” disse duro, guardandolo gelidamente. “Perdonalo, Harry.”
Harry si rilassò un poco, al sorriso del suo Louis. L’aggettivo possessivo lo aveva detto in mente, senza neanche pensarci più di tanto. Era successo e basta, era suo e avrebbe voluto invece dirlo ad alta voce perché quella mano poggiata sul cappotto del Cappellaio dava più fastidio di un coltello strisciato sulla pelle, pronto ad aprirla e assaggiare il sangue che colava.
Il Cappellaio lo guardò un’ultima volta, prima di voltarsi e dirigersi verso il tavolo, barcollando un po’, come se fosse ubriaco. “Siediti pure, ti offro una tazza di tè, così i demoni che stanno per uscire fuori si rilassano un po’.”
Harry si toccò il petto istintivamente, chiedendosi ancora una volta come diavolo riuscissero tutti a vedere il peso che aveva all’altezza del cuore. Arrossì, perché l’ultimo demone che si era aggiunto era quello della gelosia causata proprio dal Cappellaio, che prima di tirare un’ultima boccata, gli concesse un sorriso.
Come se fosse un po’ matto.

***

Il Castello era più cupo del solito. Era l’unica regione del Paese delle meraviglie in cui i cambiamenti d’umore del giovane Alice chiamato Louis non avevano alcun effetto. Era sempre nebbioso e il cielo rimaneva coperto dalle nuvole per tutte le stagioni dell’anno, perché persino la natura aveva deciso di rivoltarsi contro la regina Wendy. Ella era rimasta svariati minuti davanti allo specchio a guardare il suo riflesso, più pallido del solito. Aveva appoggiato la mano per toccarlo, per cercare un appiglio per quella bambina dentro lei che ormai era scomparsa del tutto. I suoi pensieri però, erano stati interrotti dall’arrivo del suo fidato consigliere, che rigorosamente in bianco aveva fatto silenziosamente la sua comparsa. “Ho cattive notizie.” esordì, con la mano nella tasca della giacca a toccare l’orologio e l’altra appoggiata al suo adorato bastone.
“Lo so già.”
“Come fa a..”
“Avverto la sua presenza.”
La regina Wendy si staccò dallo specchio, iniziando a camminare per tutta la sala, a passi lenti, strascicando il suo bellissimo vestito azzurro. Le mani congiunte al seno indicavano la sua profonda riflessione. Wendy era sempre stata una ragazza riflessiva, anche quando era diventata regina. Forse non saggia, ma riflessiva. Aveva sempre avuto a cuore tutte le questioni che la riguardavano, tutto ciò che la facesse stare male era da eliminare. Ma c’era una cosa, la più grande e fastidiosa, che ancora doveva scomparire per sempre dal mondo e dal suo cuore.
“Cosa pensa di fare, mia regina?” chiese il Bianconiglio, leggermente timoroso di interrompere i suoi pensieri.
“Aspetteremo. Verranno tutti qui, me lo sento. Allora taglieremo la testa a quel dannato Cappellaio da strapazzo, a quella femminuccia di Alice e a quella stupida di Iracebeth.”
“E di lui cosa ne facciamo?”
Wendy fermò la sua camminata, sistemandosi il corpetto azzurro e guardando il pavimento grigio.
“Peter Pan lascialo a me. Gli taglierò la testa personalmente.”

***

Harry era seduto e non capiva davvero nulla. Non solo per il personaggio strambo quale era il padrone della grande tavolata, ma anche e soprattutto per la confusione immensa che vi era sopra. Giurava di aver visto anche bottiglie e piatti muoversi, con tanto di zampine e occhietti.
Il Cappellaio porse sia a lui che a Louis due tazze di tè fumante, comparso da chissà dove. Harry, che non mangiava da quelli che sembravano secoli, allungò la mano verso un pasticcino al cioccolato che pareva veramente delizioso.
“Io non lo mangerei fossi in te.” lo fermò il Cappellaio, che sorseggiava la bevanda nella sua tazza con gli occhi chiusi. “L’ultima volta che qualcuno l’ha mangiato è diventato enorme.”
“Beh era così invitante, l’avresti fatto anche tu!” rispose Louis alterandosi leggermente.
“Non sono così stupido.”
“Oh sì invece.”
“No.”
“Sì.”
“No.”
“Sì.”
“Fottiti.”
“Il Cappellaio Matto non dovrebbe parlare in questo modo!”
“Alice dovrebbe andare a farsi fottere, anzi sembra che la compagnia per farlo ce l’abbia pure!”
Harry avrebbe voluto sotterrarsi, ma si limitò ad arrossire e a nascondersi dietro la sua tazza. Il ragazzo accanto a lui poggiò una mano sulla sua coscia, come per dirgli di non preoccuparsi e che andava tutto bene. “Lascialo in pace!” lo difese ancora Louis, guardando male il Cappellaio, che fece semplicemente spallucce.
Harry invece, se ne stava zitto, immobilizzato dal contatto della mano di Louis, pronta a difenderlo e ad accarezzarlo con dolci movimenti circolari, che lo rassicuravano e allo stesso tempo lo elettrizzavano. Durante il battibecco, il feeling che c’era stato tra il suo Louis - ancora quell’aggettivo possessivo, ma non imparava mai Harry?- e il Cappellaio gli aveva dato fastidio, ma quella sensazione era stata presto sostituita con una molto più piacevole, causata da un semplice gesto come quello della mano. E gli andava bene così: anche se conosceva Louis da molto meno tempo rispetto a quanto lo conoscesse il Matto, stava bene. Nonostante il mondo, nonostante i fiori e i pasticcini, nonostante i bimbi sperduti.
Nonostante fosse solo un sogno.
“Dove sono i Bimbi Sperduti?” chiese dopo un po’ Louis, mangiucchiando qualche caramellina, una di quelle che non portavano nessun ingrandimento o rimpicciolimento.
“Li ho mandati a raccogliere il fiore dalle spine blu.” rispose il Cappellaio. Aveva continuato a bere il suo tè come se fosse infinito, come se si rigenerasse da qualche parte. “Il primo che lo trova vince il mio cappello.”
“Ma non esiste il fiore dalle spine blu!”
“Non potevo mica fumare erba davanti a loro.”
“Scusatemi.” La loro discussione venne interrotta da Harry, che sentendosi in imbarazzo e di troppo aveva deciso di porre fine a quello stupido litigio per chiedere spiegazioni. “Quale sarebbe la missione?”
Louis poggiò la tazza sul tavolo, spostando la sedia verso il riccio per potergli parlare meglio. “Vedi Harry, la situazione è un po’ complicata. Cosa sai tu del Paese delle Meraviglie?”
“So che Alice cade nella tana del Bianconiglio, dopo averlo visto e inseguito.. So che incontra un sacco di personaggi strambi come Pinco Panco e Panco Pinco, il Leprotto Marzolino e il Cappellaio Matto.” rispose Harry, ignorando l’occhiataccia dell’ultimo nominato e il suo “Strambo ci sarai tu.” come commento.
“E poi Alice incontra la regina di Cuori che vuole farle tagliare la testa.” concluse il riccio, cercando di ricordare la fiaba che era solito raccontare ai suoi fratelli, prima di smettere di credere in quelle fantasie malate che portavano solo illusioni.
Louis annuì, con la fronte corrugata e gli occhi pensierosi. “Purtroppo non è proprio così. Vedi Harry..” fece una pausa prima di continuare a parlare, incontrando gli occhi del Cappellaio. “Non abbiamo tempo, devi spiegargli tutto.” lo incoraggiò quest’ultimo, costringendo Louis a continuare.
“Vedi Harry, tu probabilmente non lo ricordi, perché eri molto piccolo, ma sei già stato qua. Sei entrato in questo mondo rivoluzionandolo completamente. E hai portato qui anche tutti i personaggi intorno a te.”
“Quindi ho già fatto un sogno come questo.” affermò Harry, non stupendosi più di tanto, come se fosse una cosa normalissima, ignorando le imprecazioni del Cappellaio e il suo “Non è un sogno.”
“Beh sì, se vuoi metterla in questi termini. Ma le cose sono davvero cambiate adesso e abbiamo bisogno di te.” continuò Louis, appoggiando una mano sulla gilet verde dell’altro ragazzo. Harry poté notare anche un po’ di paura attraversare gli occhi del giovane Louis, solo per un secondo. Doveva esserci qualcosa di molto più grande oltre la storiella inventata da Carroll.
“Perché me?” chiese, guardando i suoi interlocutori in modo perplesso.
“Perché nonostante tu sia un idiota, sei pur sempre Peter Pan.”
Ma non furono né Louis né il Cappellaio a dire quelle parole. Harry sì guardò intorno per capire da dove venisse quella voce, ma non riusciva proprio a individuarne la fonte.
“E sei tu ad aver combinato tutto questo macello.” aggiunse la voce misteriosa. Era femminile, dolce e melodiosa, ma che allo stesso tempo nascondeva una nota di rimprovero. Harry alzò la testa, socchiudendo gli occhi per la luce del sole troppo forte. C’era qualcuno sopra l’albero che con i suoi tanti rami copriva la tavolata del Cappellaio. Il riccio non riusciva a vederla bene, fin quando la figura non scese con un balzo, atterrando delicatamente sul suolo di quel mondo che, lo avrebbe giurato Harry, sperava di non sognare più.
La prima cosa che il riccio notò era il forte contrasto provocato dal vestito nero indossato dalla donna e i suoi capelli come il fuoco. Era un rosso lucente, che risplendeva più di qualsiasi altro colore in quella foresta. Aveva i capelli lunghi e mossi, che le ricadevano sulle spalle in modo disordinato, ma che comunque davano un effetto strabiliante. Indossava un abito completamente nero, fatta eccezione per un piccolo particolare che fece capire ad Harry chi fosse quella donna. Al centro del corpetto di pizzo, la stoffa nera terminava facendo spazio ad un piccolo pezzo di stoffa rossa, a forma di cuore. Era l’unico punto colorato di quel vestito, che terminava in una gonna lunga e in stivaletti di pelle, anch’essi neri.
Harry indietreggiò ricordandosi della fiaba e alzò un braccio davanti a Louis, per proteggerlo. Ma dato che nessuno si muoveva, lo riabbassò, guardando il volto dei suoi nuovi compagni d’avventura. “Idiota.” aveva sussurrato il Cappellaio, rotando gli occhi e tornando al suo tè. Louis fece spallucce, e la donna scoppiò in una fragorosa risata. “Ah Peter Pan! Sei uno spasso.”
Gli si avvicinò leggiadra -“perché erano tutti così eleganti in quel posto?” si chiese Harry- per poi infilare una mano tra i suoi ricci. “Sei proprio un eterno bambino.”
“Non mi chiamo Peter Pan.” ribatté pronto Harry, allontanandosi un poco dalla donna. Grazie alla nuova vicinanza, egli riuscì ad ammirare meglio ogni dettaglio dell’altra: aveva gli occhi grandi, da cerbiatta, color nocciola. Le sue labbra erano carnose e dipinte da un rossetto molto forte, dello stesso colore dei suoi capelli. Le dita erano affusolate, con unghie da felina smaltate di nero. Tra le clavicole ossute si poteva scorgere una catenina molto sottile, alla cui fine pendeva un ciondolo. Era una lettera, per essere esatti. Una “G”.
“Sì, e io non sono la Regina di Cuori.” rispose sarcastica la donna, prendendogli il viso tra le mani. Harry arrossì, non aveva mai visto una donna così bella, né tantomeno ne aveva toccata una così. “Oh.” esclamò sorpresa, accarezzando le guance del riccio e fissandolo negli occhi. “Il tuo cuore è così affollato da demoni che non pagano l’affitto che non riesco a vedere il vero Peter Pan.”
Harry fece per ribattere, ma qualsiasi parola venne fermata dalle labbra della donna sopra le sue, in un bacio che sapeva di frutti di bosco e rose. Il riccio dal suo canto non riusciva a muoversi, bloccato dalla troppa sorpresa e dal profumo inebriante della donna.
Non appena si staccarono gli occhi nocciola sgattaiolarono in fretta verso quelli di Louis, dentro i quali il riccio poté vedere una luce di pura … disapprovazione?
“Sei fortunato Louis, il ragazzo bacia bene.” disse la Regina, prendendo posto al tavolo accanto al Cappellaio, il quale le aveva già versato una tazza di tè e si era già acceso un’altra sigaretta, o quel che fosse. “Un po’ viscido, ma dolce.”
“Qualcuno mi vuole spiegare che sta succedendo?” chiese Harry, ma la domanda più che a qualcuno in generale era rivolta a Louis che con dispiacere sussurrò “E’ fatta così.” riferendosi chiaramente alla nuova arrivata.
“Mi dispiace dolcezza per il bacio, ma altrimenti avresti iniziato con tutta la storia del ‘Non sono Peter Pan, sono Harry Styles’ e blah blah.” La donna si scostò i capelli lunghi dalle spalle, per poter appoggiare i gomiti sul tavolo e sorseggiare liberamente dalla sua tazza (rossa, accuratamente scelta dal Cappellaio Matto). “Puoi chiamarmi Iracebeth comunque. Regina di cuori è così out ormai.”
Harry non riuscì a rispondere perché troppo occupato a decidere chi fosse più fuori di testa tra lei e il Cappellaio Matto.
“Ah! Grazie per aver portato questi splendidi vestiti, mi sento così inglese adesso!” esclamò la donna eccitata, passandosi una mano sul corpetto nero ricamato.
Louis, che era rimasto in silenzio per quasi tutto il tempo, si schiarì la voce, facendo segno ad Harry di prendere posto di nuovo al tavolo, premurandosi di dividerlo dalla donna e sedendosi tra i due. “Torniamo a noi.” sussurrò al riccio, cercando di regalargli il sorriso più confortante che potesse trovare dentro sé.
“Perché me?” richiese Harry, dopo qualche istante per raccogliere le idee e rasserenarsi un po’.
“Perché tu sai volare. In una guerra è fondamentale come elemento.” spiegò Iracebeth dolcemente. Quella donna emanava un aura di passione, dolcezza, mistero e furore, ma Harry faceva difficoltà a capire quale prevalesse ad ogni frase che gli rivolgeva.
“Io non so volare.” rispose velocemente. “E poi di che guerra parlate? Che sta succedendo?”
Il Cappellaio rilasciò il fumo dalla sua bocca, ghignando verso di lui. “La guerra per te.”
Appoggiò i piedi sulla tavola, dondolandosi sulla sedia e abbassandosi il cappello che pareva pesare tonnellate sugli occhi azzurri. La donna sbuffò disgustata accennando a qualche regola del galateo con un tono da ramanzina, come quella che aveva rivolto prima ad Harry.
“Tavolo mio, regole mie.” affermò il Cappellaio, senza neanche guardarla in faccia.
Louis si voltò verso l’altro giovane, distraendolo dalla scenetta simpatica che erano soliti fare i suoi amici. Incontrò lo sguardo di Harry terribilmente confuso e perso nei pensieri. Louis gli prese una mano, intrecciando le loro dita, mentre con l’altra gli sfiorò le labbra delicatamente, per togliere le tracce del rossetto di Iracebeth.
“La prima volta che sei stato qua te ne sei andato perché hai smesso di credere nelle fiabe. Hai avuto paura di tutto ciò che ti circondava, di tutto ciò che avresti potuto perdere e hai smesso di credere. E ti sei svegliato nuovamente nella tua realtà.
Ma quando te ne sei andato hai dimenticato di portare con te la tua fedele compagna, abbandonandola in questo Paese delle Meraviglie, senza alcuna possibilità di fuggire.”
“Wendy…”
“Regina Wendy per la precisione.” si aggiunse al discorso la rossa, mostrando tutta la sua disapprovazione in una smorfia. “Ha rubato il mio regno e lo ha reso un incubo per tutti i villaggi che rientrano in quel territorio.”
“Come ha potuto una ragazzina rubare un regno intero?” chiese Harry, iniziando una serie di domande che frullavano dentro la sua testa. Il silenzio calò nel gruppo, sembravano tutti troppo pensierosi per poter spiegare ad Harry la situazione.
Fu il Cappellaio a decidere di rispondere a quella domanda. “Ha preso la ninfa vitale delle sirene. Hai portato anche loro con te ed esse si erano trasferite felici nel mare della Falsa Tartaruga, qui nel Paese. E’ bastato che Wendy ne uccidesse una per prendere tutta la sua forza.”
“Quindi adesso lei ha tutta la forza leggendaria di una sirena e la capacità di incantare con il suo canto melodioso.” concluse la rossa.
Harry era sempre più stupito da ogni singola parola che gli veniva detta. Era successo davvero tutto questo? Com’era possibile che la piccola Wendy, descritta da Barrie come la più dolce e gentile delle creature, fosse capace di tutto quello? “Quanto dista da qui?” chiese. Era l’unica domanda che riusciva a formulare.
“Quasi due giorni di marcia. Per questo dobbiamo sbrigarci, adesso che ha saputo del tuo arrivo vorrà mettere a ferro e fuoco tutti gli abitanti del Paese pur di trovarti.” spiegò Louis, stringendogli la mano più forte. “Credo voglia ucciderti personalmente.”
“Uccidermi? Pensavo fosse una metafora il ‘mettere a ferro e fuoco’, pensavo che avremmo potuto dialogare con lei!” esclamò il riccio, alzandosi in piedi spaventato. “Voglio svegliarmi.” sussurrò ancora verso il ragazzo dagli occhi azzurri.
“Vuoi svegliarti perché anche tu sai che questo non è un sogno.” Il Cappellaio smise di giocherellare con la sedia, rimettendosi composto con le mani sul tavolo, per poter guardare meglio Harry mentre gli parlava. “Vuoi svegliarti perché la paura che senti è vera, i brividi che ti stanno percuotendo sono la cosa più reale che tu abbia mai sentito e ti stai rendendo conto che questo non è un sogno.”
Harry scosse la testa, portandosi le mani al viso per cercare di calmarsi. Ma data la situazione (un ragazzo che si crede Alice nel Paese delle Meraviglie, due ancora più fuori di testa e una probabile killer in giro per un mondo in cui le farfalle sono pane tostato) era più che normale mostrare segni di cedimento.
“Non è il momento.” Louis rimproverò il Cappellaio, che tornò tranquillamente a fumare sotto lo sguardo arrabbiato del giovane. “Harry..” chiamò piano quest‘ultimo, alzandosi dal tavolo e avvicinandosi a lui con cautela, per poi stringerlo in un abbraccio caloroso, avvolgendolo con il suo corpo e appoggiando il mento sulla sua spalla. “Non preoccuparti, la sconfiggeremo insieme.”
“Non voglio partecipare a questa guerra. Ne ho già viste abbastanza battaglie, non voglio far parte dell’ennesima carneficina.” mugugnò Harry sulla spalla dell’altro, nascondendosi dagli altri presenti in quello spazio aperto. Erano solo loro due in quel momento, in quelle braccia si sentiva protetto come mai si era sentito, nemmeno dietro i sacchi delle trincee o sotto le lenzuola del letto di casa sua.
“Ma devi, altrimenti Wendy non ci darà mai più pace.”
“L’averla abbandonata l’ha resa davvero così cattiva?” chiese Harry, staccandosi leggermente e inebriandosi del profumo del giovane Alice. Guardando i suoi occhi, aveva fatto quell’associazione automaticamente, piano piano si stava abituando all’idea che il Louis che aveva davanti e l’Alice che aveva visto nel quadro ispirato al libro di Carroll avessero gli stessi occhi. Ma era ancora troppo presto per realizzare veramente che in realtà erano la stessa persona.
“No.” rispose Louis, con aria cupa. “L’averla abbandonata dopo averla fatta innamorare di te l’ha resa davvero così cattiva.”
Iracebeth si alzò in piedi con l’aria pensierosa per dirigersi sotto l’albero da cui era scesa, appoggiando la schiena al tronco e scivolando giù per sedersi. La gonna si allargò distendendosi sul prato. “Brutta cosa, l’amore.” sussurrò la donna, sistemando il vestito sull’erba umida. Il Cappellaio la guardò quasi con compassione, o almeno fu quello che parve ad Harry da lontano.
“Io.. Voglio parlarle, magari sta ad ascoltarmi!” suppose, allargando le braccia per convincere gli altri.
“Non ti farebbe nemmeno parlare. Ha una certa passione per il taglio delle teste sai?”
“Se sei donna. Se sei maschio ha la passione anche per il taglio di altre cose.” aggiunse la rossa, completando l’affermazione del suo amico Cappellaio, troppo impegnato a sghignazzare per poter spiegare meglio le parole della donna, anche se già piuttosto palesi.
“Ok, ma perché io sono così importante se non vuole parlare?” chiese ancora Harry, cercando di cambiare quel che sembrava il suo destino già prefissato.
Tutto sembrò fermarsi, come in una foto, immortalata da qualcuno che odiava il tempo sempre in fuga e che pur di farlo stare immobile lo incastra in una cornice dai bordi bianchi. Il riccio poteva sentire la presenza di qualcuno che aveva fermato il vento, i fiori canterini, gli alberi e le loro foglie canterine. Era diventato tutto in bianco e nero, letteralmente. Il bosco era ormai come le immagini che si trovano sopra l’enciclopedia: tutto aveva perso colore trasformandosi in una scala di grigi, persino il suo gilet verde, persino la sua pelle rosea. Persino gli occhi di Louis erano di un grigio cupo, e Harry per un attimo si sentì quasi disperato senza quell’azzurro, si sentì paradossalmente soffocare senza il suo mare preferito. Ma per fortuna, Louis, nonostante fosse in bianco e in nero, gli era ancora accanto pronto ad accarezzargli il braccio per farlo sentire meglio.
Il Cappellaio continuò ad essere tranquillo, come se niente di tutto quello stesse succedendo veramente, così come la donna, che sotto l’albero, si accarezzava i lunghi boccoli rossi immersa in chissà quali pensieri.

Foglie cromatiche lungo il cammino
Arriverà da uno stanzino
la libertà sempre agognata
da un’anima di demoni impregnata.
ma tutto ha un prezzo
e il Paese lo sa già da un pezzo.
Il vento cambierà direzione
e allora arriverà la rivoluzione:
ma sono pronti i guerrieri a ricominciare,
all’amore rinunciare e per la patria lottare?
Rossa e Matto in prima linea
in una guerra tutt’altro che fulminea.
Ma il ragazzo volerà?
O l’azzurro abbandonerà?
Polvere di fata, polvere di stelle
porto cose brutte e cose belle
Sono lo Stregatto delle Meraviglie
e le profezie sono mie figlie.

Non appena queste parole sparse per aria terminarono, tutto tornò nuovamente colorato. Le foglie tornarono ad essere cangianti, i fiori canterini e il Cappellaio si alzò in piedi, barcollando come ormai Harry era abituato a vedere. Si leccò le labbra con la lingua, inumidendole prima di avvicinarsi al riccio e iniziare a parlare. “Perdonalo, lo Stregatto è un po’ burlone e pretende che ogni cosa si oscuri quando ci degna della sua presenza.” Alzò le braccia al cielo, ghignando apertamente. “Grazie micio, le tue profezie sono sempre meravigliose e per nulla inquietanti!” esclamò, con un’evidente notazione sarcastica.
Louis si voltò verso Harry, prendendogli il viso tra le mani e appoggiando la fronte contro quella dell’altra. “Devi volare per noi Harry. Devi partecipare.”
“Io non riesco a vol..”. Harry non fece nemmeno in tempo a completare la frase che venne trascinato via dalla stretta di Louis e non ebbe nemmeno il tempo di accorgersene che si ritrovò a braccetto da una parte e l’altra con Rossa e Matto, così come li avevi chiamati lo Stregatto.
“Pensieri felici Harry!” esclamò Iracebeth, aggrappandosi entusiasta al braccio del riccio.
“Sono quelli che ti fanno volare.” continuò il Cappellaio, facendolo salire sulla sedia e poi sulla grande tavolata, facendo cadere di conseguenza piatti e pasticcini che di sicuro non contenevano crema normale.
“Chiudi gli occhi!”
“Respira forte!”
“Libera la mente!”
“Cerca i tuoi pensieri felici!”
Ma Harry si staccò malamente da loro, spingendoli di lato e scendendo dal tavolo parecchio arrabbiato. “Io non ho pensieri felici.” rispose, incrociando le braccia e voltando le spalle a tutti i presenti. “E voi siete tutti matti.”
“Sai che novità.” commentò il Cappellaio, rimanendo in piedi sul tavolo. La donna scese invece con un balzo molto atletico, come quello che aveva fatto per scendere dall’albero. “Di questo passo non lo convinceremo mai a volare e non abbiamo tempo.”
Louis sospirò, cercando di avvicinarsi ad Harry che tuttavia continuava a scansarsi da qualsiasi tentativo di carezze. “Ti prego voltati.” gli sussurrò da dietro le spalle, per poi infine riuscire a toccarlo e abbracciarlo da dietro. “Lo hai detto tu che è un sogno, no? Allora combatti con noi.”
Harry si rilassò sotto il tocco gentile dell’altro giovane, abbandonandosi completamente alle cure delle sue mani che sembravano conoscerlo meglio di chiunque altro. “Non ho pensieri felici.” sussurrò in risposta, senza staccarsi da lui o voltarsi. Louis non disse altro, ma continuò ad abbracciarlo.
“Oserei dire disgustoso.”
“Oserei dire che sei uno stronzo.”
“Oh sta zitta donna, un linguaggio del genere non si addice ad una Regina.”
“Ti faccio fuori Cappellaio da strapazzo, questo ti si addice?”
Ma Harry e Louis non sentirono nulla di tutto questo, perché dentro il Paese delle Meraviglie avevano creato un mondo tutto loro, protetto da braccia incastrate come fortezze e sospiri mescolati come venti caldi. Chiusero gli occhi e per pochi istanti, sentirono l’arcobaleno dentro di loro, non negli alberi, non nei fiori, ma dentro di loro. Nemmeno lo Stregatto avrebbe potuto penetrare nel loro mondo e renderlo in bianco e nero. Furono interrotti da un urlo acuto che li costrinse a voltarsi verso il tavolo.
“Ci sono!” esclamò il cappellaio, saltellando qua e là tra tazze, piattini e cucchiai. “Come dite voi umani?” chiese rivolgendosi ad Harry “Ah sì: Eureka!”.
“Ho trovato la soluzione.” disse infine, sedendosi a gambe incrociate sul tavolo e prendendo in mano una tazzina e la teiera. “Dato che il signorino non ha pensieri felici, potremmo provare con la polvere di fata! In fondo lo dice anche la profezia.” spiegò, puntando i suoi occhi color ghiaccio su i due giovani.
“Non vorrei buttare a terra la tua teoria, ma come la troviamo la polvere di fata senza fata?” domandò Louis, staccandosi controvoglia dal riccio e creando un vuoto che sembrava peggio del dolore da scottatura.
“Beh, considerando che le fate sono morte -grazie Harry, è sempre un piacere averti qui pronto a devastare le nostre esistenze- non ci resta che rivolgerci a..”
“No.” lo interruppe la rossa, con tono fermo e quasi arrabbiato. “Non ci rivolgeremo a lui. Per nessuna ragione al mondo.”
Il Cappellaio la guardò come aveva già fatto precedentemente, notò il riccio: con compassione. Riprese a sorseggiare il suo tè e ne versò un po’ su un’altra tazza, porgendola alla donna. “Non lui ti prego.” lo implorò, prendendo tra le mani la bevanda calda.
“Lo sai anche tu che è la nostra unica speranza.”
La donna non rispose, ma iniziò a giocherellare con il suo ciondolo, stringendolo tra le dita affusolate. Solo dopo qualche istante di silenzio, finalmente annuì.
Il Cappellaio si alzò di scatto versando tè ovunque sulla tavolata e mostrando il migliore dei suoi sorrisi. “Non c’è tempo, dobbiamo muoverci e andarlo a cercare!” esclamò, saltando giù e raggiungendo i due ragazzi.
Harry non ebbe neanche il tempo di chiedere chi fosse l’uomo delle loro ricerche, poiché il Cappellaio lo aveva già preso a braccetto. “Non siete emozionati anche voi?” chiese, ma non aspettò neanche la risposta. Si voltò un attimo verso la donna, rimasta in silenzio a contemplare quella “G” appesa al collo. La raggiunse camminando a grandi falcate e le prese il volto tra le mani per lasciarle un bacio sulla fronte. “Non gli permetterò di farti del male di nuovo. Raduna tutti, prepara il necessario. Ci vediamo alla villa della Duchessa Brutta stasera. ” le sussurrò, prima di lasciarla sola a quella grande tavolata dalle mille stranezze.

***

“Perché dobbiamo indossare questi mantelli?”
“Oh Harry non fare domande stupide.”
“Louis, perché dobbiamo indossare questi mantelli?”
“Non lo so, non capisco mai quello che gli passa per la testa.”
“I mantelli sono stupendi, smettetela di lamentarvi.”
Avevano camminato per un paio d’ore, anche se ad Harry erano sembrati giorni interi. La presenza del Cappellaio tra lui e Louis lo turbava e non poco. Da una parte perché quell’uomo era completamente andato, dall’altra perché Louis era l’unico che riusciva a tranquillizzarlo in tutta quella situazione, quindi averlo accanto gli avrebbe fatto più che bene, un vero toccasana. Il Cappellaio aveva fatto indossare loro dei lunghi mantelli marroni, che li coprivano interamente, dalla testa grazie al largo cappuccio fino ai piedi.
Erano finalmente giunti nell’ultimo villaggio del Paese, proprio al confine col regno della Regina Wendy. Era un piccolo agglomerato di case colorate che tuttavia si erano rovinate col tempo, o con la vicinanza al luogo dove non sorgeva più il sole. In giro per strada non vi era anima viva, tutto sembrava tremendamente abbandonato a se stesso. Il Cappellaio camminava a passo sicuro tra i sentieri ciottolati, mentre Harry si strinse nel mantello, sia per il vento gelido che tirava che per la paura che sentiva fiorire dentro.
Entrarono in una locanda dalla porta mezza distrutta e impolverata. Il locale era quasi completamente al buio, eccetto per qualche raggio di luce che penetrava da finestre rotte. Vi erano circa sei o sette tavoli a cui uomini di vario tipo sedevano. Molti di essi bevevano da soli, altri invece giocavano a carte, altri ancori ridevano totalmente ubriachi.
“Non toglietevi i cappucci.” ordinò il Cappellaio, avvicinandosi al bancone di legno ormai lercio e probabilmente tormentato dalle termiti. “Oh, più il tempo passa più diventi bella!” esclamò, rivolgendosi alla barista. Era una ragazza minuta, dai capelli lunghi e castani, gli occhi color cioccolato e piccole lentiggini le decoravano le guance. Poteva passare per una ragazza normale, eccetto il fatto che dai capelli le spuntavano due orecchie marroni e pelose da.. Coniglio?
“Che ci fai qui? Sono secoli che non metti piede qua dentro, Cappellaio da strapazzo.”
“Oh seriamente, quel soprannome non fa per me!” ribatté pronto il diretto interessato, abbassandosi il cappuccio e sistemandosi i capelli biondo cenere sparsi sulla fronte che uscivano dal cappello. “Come te la passi, Lepre Marzolina?”
“Tempi duri qui al confine.” rispose amareggiata la barista, mentre asciugava un boccale con uno straccio. “Perché sei qui? Tu fai tutto per una ragione, soprattutto se si tratta di un viaggetto in queste terre desolate.”
“Sei rimasta pure perspicace oltre che bellissima!“ Il Cappellaio si guardò intorno, assicurandosi che nessuno lo sentisse prima di continuare a parlare con la barista. “Ho bisogno di parlare con lui.”
La Lepre smise di strofinare lo straccio sul grande bicchiere, poggiandolo sul bancone e avvicinandosi al viso del Cappellaio. “Come fai a sapere che è qui?” chiese, sorridendogli a due centimetri dalle labbra.
L’uomo ghignò, poggiando un dito sulla fronte di lei e tamburellando lievemente. “Mia piccola Lepre, ma per chi mi hai preso?” esclamò, allontanandosi dal bancone e mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni di velluto. “Le opzioni sono due: o mi sono drogato -cosa impossibile prima delle otto di sera- o quelli che vedo in questa locanda sono davvero pirati, il che vuol dire che lui è qui.”
La Lepre sorrise, facendo segno di seguirla, mostrando la coda a ciuffo agli altri tre.
Entrarono in una stanza se possibile ancora più buia della sala di prima. Vi erano solo due tavoli e un piccolo caminetto spento, impolverato più di qualsiasi altro mobile presente nella locanda. Vi era un solo uomo seduto ad uno dei due tavoli. Indossava un gilet come quello di Harry e Louis, più o meno, color rosso fuoco. La camicia sotto era bianca, dalle maniche larghe e voluminose. Accese con un fiammifero la candela posta al centro del tavolo, illuminando meglio la stanza. Harry poté scorgere meglio il viso dell’uomo, anche se la luce era flebile. Era leggermente più scuro di pelle, visibilmente più grande d’età rispetto al Cappellaio. La barba contornava due labbra carnose e i suoi occhi erano scuri, quasi neri. Aveva i capelli corti, contrariamente a quello che Barrie professava nel suo racconto. Harry si tolse il cappuccio, consapevole di aver davanti il suo più grande nemico.
“Ma guarda un po’ chi è tornato.” La voce dell’uomo era bassa e roca, strascicata, quasi ipnotizzante. “Peter Pan torna a casa e trova la sua cara amichetta con un’ascia in mano e il suo peggior nemico a riposare tranquillo in una locanda.”
Harry indietreggiò un poco, ma non per paura. Era come se quell’uomo lo mettesse in soggezione, ma non lo spaventava. Anche Louis si tolse il cappuccio, alzando due dita in segno di saluto. “Capitano.” pronunciò velocemente, prima di avvicinarsi al riccio e prendergli la mano.
L’uomo fece lo stesso segno di saluto, sorridendo al giovane. “Alice.”
“Cappellaio!” esclamò lui stesso, battendo le mani e aggiustandosi l‘etichetta 10% del suo cappello. “Ora che abbiamo fatto le presentazioni, possiamo passare alle cose serie.” disse, inchinandosi alla Lepre che aveva rotato gli occhi e se n’era andata sbuffando. Il Cappellaio si sedette, togliendosi completamente di dosso il mantello e poggiando le gambe sul tavolo davanti a sé. “Abbiamo bisogno di una mano.”
“Sei sempre il solito stronzo.” rispose il Capitano, ridendo sommessamente.
“Ops scusa, battuta infelice!” si difese il Cappellaio, alzando le mani per scusarsi per poi portarle al petto e ridere con l’uomo davanti a sé. “Ma abbiamo davvero bisogno del tuo aiuto.” continuò dopo essersi ripreso dal momento ilare.
“Come sta lei?” chiese il Capitano, tornando improvvisamente serio. “Come sta?”
Il Cappellaio non rispose, facendo scomparire il sorriso che gli dipingeva il volto. “Abbiamo bisogno della polvere di fata.” disse, ignorando completamente la domanda rivoltagli.
L’uomo si alzò di scatto, bloccando con una mano la manica del maglione nero che indossava il Cappellaio. Ma poi Harry si accorse che quella che teneva fermo il Cappellaio al tavolo non era affatto una mano, ma un uncino scintillante sotto la luce della candela.
“Se non mi dici come sta, giuro che ti uccido seduta stante, quanto è vero che mi chiamo Giacomo Uncino.”
Il Cappellaio sorrise a quell’affermazione, facendogli segno di risedersi. “Louis, Harry. Andate fuori per favore. Io e il Capitano abbiamo tante cose da discutere.”

***

“Sei preoccupato?”
Harry e Louis erano rimasti fuori dalla stanza per circa un’ora. Stava quasi per tramontare e loro stavano ancora aspettando il Cappellaio, seduti ad un tavolo della locanda in mezzo agli altri pirati. Harry aveva potuto notare quanto fossero ubriachi, vestiti più o meno come i vagabondi della strada sotto casa sua, a Londra. Ripensò a quella splendida città e a quanto gli mancasse. Ma dopotutto e nonostante tutto, quello non gli dispiaceva. O meglio, a non dispiacergli era proprio Louis. Il ragazzo aveva ordinato due birre per tutti e due e Harry si era chiesto per l’ennesima volta che nel Paese delle Meraviglie ci fosse la birra. “Te l’ho detto, hai rivoluzionato tutto tornando qua, adesso ci sono usi e costumi degli anni ‘30, proprio come nel tuo mondo.” gli aveva spiegato Louis, che cercava di godersi il suono della fisarmonica di un pirata barcollante.
“Non sono preoccupato, sono solo confuso.” rispose Harry, mentendo. In realtà era più che preoccupato, talmente tanto da non riuscire a bere neanche la bevanda fresca. “Quando andrete in battaglia?”
Louis fece finta di ignorare l’implicito rifiuto di Harry nel partecipare alla guerra e rispose alla domanda cercando di apparire il più calmo possibile. “All’alba.”
“E quale sarebbe il piano?” chiese ancora il riccio, sempre più curioso.
“Spingerci oltre il confine, sbaragliare le truppe della Regina Wendy e entrare nel castello. Il problema è che il ponte d’entrata sarà sicuramente chiuso e il castello è circondato da acque profonde con coccodrilli che tutti noi conosciamo bene, soprattutto il Capitano. Abbiamo bisogno di qualcuno che entri dentro per aprire il ponte e spianarci la strada.”
“E quel qualcuno sarei io che volando potrei entrare facilmente nel castello, giusto?”
“Esattamente.”
“Ma il Cappellaio sta prendendo la polvere di fata, quindi con quella tutti possono volare.” suppose Harry, cercando una via d’uscita da tutto quello.
“Non proprio, perché noi non siamo parte dell’Isola che non c’è. Noi non facciamo parte di quel mondo e indubbiamente non possiamo lasciare andare i bambini.”
Harry non rispose. A quanto pareva solo lui poteva salvare il Paese delle Meraviglie e solo lui era l’unico personaggio a disposizione per farsi uccidere, anche perché, se avesse stilato una lista, avrebbe notato che i Bimbi Sperduti erano troppo piccoli, Wendy era la cattiva della situazione, Campanellino non c’era e di Uncino non sapeva ancora da che parte stava. La conversazione finì lì, con un Harry pensieroso e un Louis che lo guardava in modo apprensivo.
Dopo una ventina di minuti, il Cappellaio uscì dalla stanza, sollevandosi il cappuccio sulla testa e facendo segno ai due giovani di seguirlo.
“Andiamo a giocare con le bamboline bionde e i coniglietti ritardatari!” urlò, girando su stesso per l’entusiasmo e lasciando sorpresi tutti i pirati presenti nella locanda.

***

In meno di mezz’ora i tre avventurieri raggiunsero un grande palazzo, poco lontano dal villaggio appena visitato. Era molto grande e tutto rosa. Grandi torri si stagliavano accanto all’edificio principale, da cui si intravedevano delle grosse campane ferme e probabilmente mai messe in funzioni. Tutto intorno vi era un grande giardino da grossi alberi e cespugli, che, a quanto pareva, amavano spostarsi in continuazione da soli. Anche là vi erano fiori canterini e pan farfalle, ma sembravano tutti molto più agitati. Persino la natura si stava preparando alla guerra.
I tre entrarono nel palazzo e Harry si sentì subito avvolto da un profumo di rose e fragole: Iracebeth era già lì. La sala principale era decorata da enormi tappeti dalle varie sfumature di rosa, dai mobili più strambi possibili e da una grande scalinata che portava ai piani superiori. Fu proprio da quella che fece la sua comparsa l’ex Regina, vestita con una tutina nera aderente, sicuramente molto più pratica della gonna anni ‘30 che ingombrava e impediva fluidi movimenti.  I capelli erano raccolti in una lunga coda di cavallo e alle orecchie brillavano due piccoli orecchini a forma di cuore, le uniche cose rosse che portava oltre il rossetto sempre più forte.
“Mia Rossa, mi dispiace dirti che se vuoi conquistare Wendy con la tua bellezza, non ci riuscirai. Temo le piaccia qualcun altro.” disse il Cappellaio, gettando per terra il mantello e infilandosi le mani in tasca, mentre guardava meravigliato la discesa di Iracebeth, come Louis e Harry. La bellezza di quella donna era qualcosa di disarmante per tutti nel Paese.
“Fai poco lo spiritoso. Hai quello che dovevi prendere?” chiese incrociando le braccia non appena arrivò davanti al diretto interessato, che annuì serio.
“Hai preparato tutto?” chiese di rimando il Cappellaio, allargando le braccia in cerca di un abbraccio.
“Come sta?” domandò sussurrando la donna, non muovendosi di un millimetro.
L’uomo sbuffò, rinunciando all’abbraccio e alzando gli occhi al cielo. “Dio mio quanto siete uguali!” esclamò, ma non le diede il tempo di rispondere, voltandosi verso Louis. Estrasse dalla tasca un sacchettino bianco, porgendoglielo e sussurrandogli qualcosa all’orecchio, che nessun altro dei presenti poté sentire. Harry cercò di non farci caso, ma quella scena gli fece ribollire il sangue dentro le vene, mentre i demoni stringevano ancora di più attorno al suo cuore. Si portò una mano al petto respirando a fatica, il dolore lo attanagliava in modo così forte da bloccare il passaggio dell’aria all’altezza dello sterno.
Non era mai stato geloso di nessuno. Più che altro, non si era mai affezionato a qualcuno talmente tanto da esserne geloso. Certo, quando qualcuno si avvicinava ai suoi fratelli, dopo tutta la storia con Barrie, iniziava a dar di matto, ma quella era senso di protezione più che gelosia. Ma nessuno gli aveva fatto battere il cuore come Louis per poi fermarlo in una morsa mozzafiato all’improvviso. Si rifiutava davvero di credere che quella fosse gelosia, non poteva essere così terribilmente reale il dolore. Ma ormai non sapeva più a cosa credere, a cosa aggrapparsi nella speranza vana che quello fosse un sogno.
“Ci vediamo domani all’alba. Harry hai la stanza al secondo piano. Buonanotte a tutti!” esclamò il Cappellaio, scomparendo in una dei corridoi del palazzo, seguito a ruota da Iracebeth.
Louis fece per avvicinarsi ad Harry, ma quest’ultimo era già sparito alla ricerca della sua stanza.

***

Tic Toc l’orologio schiocca,
il gatto mette bocca
e il Matto solo resterà
mentre l’amore trionferà.

“O taci gatto del Cheshire, non ho bisogno di te adesso.” pronunciò il Cappellaio, mentre camminava in giro per il palazzo solo, con le mani in tasca e la sciarpa arancione che penzolava ad ogni passo.

Tic Toc l’orologio canta
e il Matto di paura ne ha tanta.
Qualcuno domani cadrà
e tra le braccia di un altro morirà.

“Me l’hai già detto questo.” rispose il Cappellaio, fermatosi ad ascoltare meglio le parole dello Stregatto, che avevano fatto diventare tutto in bianco e nero.

Tic Toc l’orologio è rotto
il Matto è giunto alla fine
e il gatto sparisce di botto,
lasciandolo da solo infine.

“Oh meraviglioso, sai anche fare le rime incrociate!” commentò l’uomo, ritornando a vedere a colori dopo la fine della profezia. Sospirò arrabbiato, mentre rifletteva sulle parole del Gatto del Cheshire, parole che gli erano già state riferite e di cui aveva una tremenda paura.
“Cappellaio aspetta!”
Il diritto interessato si girò di scatto, vedendo correre verso di lui la donna dai capelli rossi che raccolti nella coda dondolavano di qua e di là. Il Cappellaio gli sorrise, scacciando via tutti i pensieri che lo avevano tormentato poco prima. “Mia dolce bellissima Iracebeth!”
“Come mai questi complimenti?” chiese curiosa la rossa, guardandolo sedersi per terra a gambe incrociate, nel bel mezzo del corridoio.
“Perché da domani non potrò farteli più, o quanto meno non davanti a lui.” rispose l’uomo, tirando fuori dalla tasca un mazzo di chiavi, gettandolo poi a terra di lato.
“Che ti ha detto?”. La donna si sedette davanti a lui, in ginocchio, mentre l’altro continuava a tirare fuori oggetti dalla sua giacca marrone: una caffettiera, una bottiglia, un vaso di fiori e un mucchio di altra roba che si stava accumulando accanto a loro.
“Ma dove diavolo l’ho messa?” imprecò sottovoce, ignorando del tutto Iracebeth che sembrava essersi rabbuiata in viso. I suoi occhi color nocciola nascondevano un barlume di tristezza così grande che era difficile da non notare. Ma il Cappellaio preferiva non guardarla in volto, vedere i suoi più cari amici stare male era l’unica cosa di cui aveva paura. Proprio come aveva detto lo Stregatto nella profezia.
“Ah eccola!” esclamò, dopo una lunga ricerca nelle sue tasche. Si trattava di una semplice pipa, l’unica cosa che per le sue dimensioni avrebbe potuto veramente entrare in una tasca di un semplice cappotto. La accese in silenzio, guardando il pavimento freddo sotto di loro.
“Non hai intenzione di dirmi nulla vero?” provò infine l’altra, cercando di rilasciare tutto ciò che aveva dentro in un sospiro pesante. Il Cappellaio alzò finalmente lo sguardo su di lei, scuotendo la testa in segno di diniego. Allontanò la pipa dalla bocca, avvicinandosi all’amica e facendo scontrare le loro fronti.
“Promettimi una cosa.” le disse, guardandola dritta dentro gli occhi, dritto dentro la sua anima. “Promettimi che qualunque cosa succeda domani, non diventerai triste. Non puoi permettertelo ok? Non adesso che sta tornando lui e te lo giuro sul mio cappello, Iracebeth, lui ti proteggerà e ti amerà come nessuno ha mai fatto prima d’ora.”
Non appena finì di parlare, si alzò di scatto, lasciandola completamente da sola. La donna non si accorse neanche della sua fuga, talmente era stato veloce. Era come se il Cappellaio sapesse così tante cose in più, e che non aveva osato chiedere perché si sa che è pericoloso conoscere il proprio futuro. Ma nel dubbio, si limitò a piangere silenziosamente, a perdersi nei ricordi e ad illudersi di aver frainteso completamente le parole del Cappellaio che presagivano solamente tempi bui.
Il Cappellaio era fuggito perché se conosceva la sua amica quanto bastava, non avrebbe sopportato vederla piangere. Cercò di rilassarsi, mentre la profezia risuonava nella sua mente come il suono di un tamburo, costante, fastidioso, insidiante, devastante.
Il Palazzo era piuttosto grande, ma il Cappellaio lo conosceva come le sue tasche -sì, proprio quelle enormi-. E mentre vagava per i corridoi fuggendo dalla voce del gatto e dalle lacrime di Iracebeth, pensò a quel pomeriggio.

“Louis, Harry. Andate fuori per favore. Io e il Capitano abbiamo tante cose da discutere.”
Non appena i due ragazzi lasciarono la stanza, il Cappellaio si passò una mano tra i capelli, poggiando il suo grande cappello sul tavolo. “Uncino, ti ritengo una persona abbastanza intelligente da poter capire quanto tu abbia sbagliato con Iracebeth.” affermò, giungendo le mani tra loro e mettendosi comodo sulla sedia.
“Non è stata una mia scelta.”
Il Capitano non si era ancora seduto, nonostante l’altro lo avesse invitato a farlo. Rimasero in silenzio per un po’, uno a guardare fuori dalla finestra, l’altro intento a sistemarsi l’ennesima canna, prendendo la cartina dalla tasca e tutto il resto dell’occorrente. Quei due uomini erano più simili di quanto potesse apparire: entrambi solitari, pensierosi solo quando nessuno poteva vederli.
“Hai intenzione di raccontarmi che cosa diavolo è successo?” domandò dopo qualche minuto il Cappellaio, leccando la cartina per chiuderla.
“Prima dimmi come sta.” ribatté il Capitano.
“Esattamente come te.”
Altri minuti di silenzio trascorsero, mentre fuori il cielo iniziava a rosseggiare pronto a vedere il suo più grande amico sole tramontare.
“Non è stata una mia scelta. Intendo tradirla. La amavo più di ogni altra cosa a questo mondo, l’ho fatto per proteggerla. Wendy mi ha ricattato dicendomi che se non avessi fatto tutto ciò che voleva, avrebbe fatto del male ad Iracebeth. L’avrebbe uccisa.”
“Così hai preferito tradire la tua amata, aprendo le porte del castello e lasciando entrare Wendy.” commentò il Cappellaio, con una smorfia di disgusto.
“Ma non l’ha uccisa.” rispose arrabbiato l’altro, voltandosi verso di lui. “Iracebeth è salva perché comunque ha avuto la possibilità di scappare.”
“Avremmo potuto combatterla.”
“No non avreste potuto. Nessuno può fermare una persona che combatte in nome di un amore perduto.”
Al Cappellaio fu chiaro il messaggio, e di certo non si riferiva solo alla regina Wendy. Uscì dalla tasca una bottiglia e due tazzine, poggiandole sul tavolo illuminato dalla candela che cominciava a sciogliersi, parola dopo parola, facendo scorrere gocce di cera sul piattino come scorrevano le lacrime su un viso.
“E che mi dici delle persone che combattono nel nome di un amore che potrebbe essere ritrovato?” domandò, versando un po’ del contenuto della bottiglia su una delle tue tazzine e leccandosi le labbra carnose con la lingua, pronto ad assaporare la bevanda.
“In che senso?” chiese il Capitano, fingendo di non aver capito. Lo guardò portare alla bocca il bicchiere, chiudendo gli occhi e odorandone l’essenza, prima di dirgli:“Combatti per noi. Tu e i tuoi pirati. Aiutateci in questa guerra.”
“Non posso.” fu la risposta immediata di Uncino, che tornò a prendere posto al tavolo.
“Perché no?”
“Perché lei non mi vorrebbe accanto.”
Il Cappellaio mandò giù il contenuto della tazza, arricciando il naso e serrando le labbra.
“Ripetile ciò che hai detto a me. Lei non sa del ricatto di Wendy.” disse poi.
“Lei sa solo che l’ho tradita e questo l’ha ferita nel profondo e niente potrà mai guarirla.” Il volto del Capitano, mentre queste parole venivano pronunciate, si trasformò in una maschera di dolore. Era sempre stato bravo a nascondere le sue emozioni, o almeno così il Cappellaio si ricordava. Ma in quel momento era come se volesse trasmettere tutta la sofferenza che aveva passato in quegli anni di silenzio, tutti i giorni più tristi della sua vita, senza la sua amata accanto, con la consapevolezza di averla ferita irrimediabilmente.
“Tutti hanno diritto ad una seconda possibilità.”
“Da quando sei così saggio?”
“Da quando ascolti un vecchio matto?”
“Da quando persino un matto è diventato la mia unica speranza.”
Si sorrisero a vicenda, mentre la stanza si tingeva di un rosso che sapeva di speranza, ma anche di ricordi di un tempo ormai perduto.
“Mi sottovaluti”rise il Cappellaio, riempiendo anche l’altro bicchiere e porgendolo al suo vecchio conoscente. “Posso avere la mia polvere di fata?”
L’uomo lo prese in mano, iniziando assaggiandone il contenuto con la punta della lingua. “Decisamente questo non è tè.” commentò, prima di mandare giù il contenuto tutto d’un fiato. “A che ti serve la polvere se dalla tua parte hai Peter Pan?”
Il Cappellaio gli sorrise, felice di aver ricevuto in dono dall‘altro mondo non solo le sigarette e quant‘altro ma anche del buon vecchio alcool. Sicuramente una bevanda come il rum si addice meglio ad un pirata rispetto ad una normale tazza di tè.
“Non riesce a volare. Non ha pensieri felici.” gli spiegò, riempiendo nuovamente il suo bicchiere con una mano e tenendo in alto la canna con l’altra.
“Sempre pensato che Peter Pan fosse un rammollito.”
“Eppure quell’uncino dimostra il contrario.”
Il Capitano alzò il braccio, facendo brillare l’uncino sotto quella luce rossastra che proveniva da fuori. Si ricordò di quando l’aveva persa, con quel famoso Coccodrillo e per colpa di Peter Pan. Ma erano tempi remoti ormai quelli, erano cambiate talmente tante cose da quando Peter se ne era andato e aveva dimenticato che ormai non ci faceva più caso, a quell’uncino. Forse lo aveva persino perdonato Peter, perché comunque lo aveva portato in quel mondo, nel Paese delle Meraviglie e gli aveva fatto conoscere la sua amata. “Potrei ficcartelo nel petto e strapparti il cuore per farti vedere quanto sia pericoloso questo uncino.” fu ciò che disse, in un ghigno che di certo non spaventò il Cappellaio che alzandosi in piedi e portandosi una mano al petto esclamò:“Ah Giacomo, come sei romantico!”
Uncino alzò gli occhi al cielo, incolpando nuovamente Peter Pan per avergli fatto conoscere una persona del genere, mentre il Cappellaio aveva iniziato a ridere per conto suo. Solo dopo qualche istante di ilarità, tornò serio, guardando Uncino dritto negli occhi.  “Iracebeth è davvero fortunata.”
“Non nominarla. Non ti do il permesso.”
Furono parole dure, dette quasi con rabbia, quelle del Capitano. Nominarla era sempre un colpo al cuore, ma sentirla nominare da qualcun altro era anche peggio, come mille frecce conficcate nel petto a dilaniargli contemporaneamente pelle e anima.
“Fatti vivo domani all’alba e ne riparliamo. Al momento sono io che tornerò da lei nascondendole la vera storia.”
“Anche se tu le dicessi la verità, non mi perdonerebbe mai.”
Il Cappellaio sembrò rifletterci un po’ su, riprendendo il suo cappello e sfiorandone con le dita la fodera verde che aveva toccato così tante volte da conoscere ogni suo ricamo.
“Non gliela dirò comunque. Sarai tu a dirgliela domani.” rispose al Capitano, il quale si era alzato e aveva uscito un sacchetto bianco dalla tasca del panciotto rosso.
“Come fai ad essere così sicuro che domani mi presenterò?” chiese, poggiando sul tavolo l’oggetto e accarezzandosi poi la barba corta che gli incorniciava il viso.
“Oh andiamo!”esclamò il Cappellaio, in un grido d‘eccitazione e con un sorriso che mostrava tutti i suoi denti bianchi e perfetti.“E’ da un’ora che parliamo, è palese che tu abbia una cotta per me e farai tutto ciò che dico.”
Uncino scosse la testa, indicando la porta con un dito. “Sparisci Cappellaio da strapazzo.”
E così fece il Cappellaio, prendendo il sacchettino e lasciandogli invece la bottiglia di rum, convinto di lasciargli la compagnia perfetta per quella che sarebbe stata la notte più lunga delle loro vite infinite.

Tic Toc, le lancette della vita schioccano
ma quelle del Matto si incantano
in un attimo immobili e silenziose
nel giorno dalle nuvole piovose.


Il Cappellaio fece finta di non ascoltare quell’ultima profezia dello Stregatto, mentre pensava alla conversazione avuta con Uncino. Sorrise alla luna piena che si scorgeva dalle finestre del corridoio, nonostante fosse diventato tutto una scala di grigi. “E’ più luminosa così.” pensò, guardandola in bianco, come una sposa perfetta e meravigliosa, innamorata del suo unico compagno, il cielo, che l’aveva accolta tra le sue braccia completamente nere in un abbraccio lungo ore intere.

***

Il Cappellaio non era l’unico ad ammirare quello spettacolo però. Il giardino del Palazzo di notte era la cosa più bella che Harry avesse mai visto, e dire che ne aveva visto davvero tante di cose meravigliose, in quella lunga giornata. Ma nessun albero cangiante o animale strano che lasciava tracce colorate al suo cammino, poteva eguagliare la bellezza dello spettacolo che il riccio aveva di fronte. Si era rinchiuso nella sua stanza per provare a dormire, ma i troppi pensieri e le strette continue al cuore non riuscivano a farlo addormentare. Più passavano le ore, più il riccio realizzava che quello non era affatto un sogno, anche se si rifiutava di crederci. Lo aveva sempre saputo dentro di sé, in realtà, sin dal primo incontro con Louis, nella libreria. Ma come poteva anche solo ammettere a se stesso che tutto ciò che percepiva con i cinque sensi era reale e concreto? Era da pazzi concedersi il lusso di credersi in una fiaba, anzi, in un miscuglio di due fiabe. La parte razionale aveva prevalso fino a quel momento, ma non appena era uscito fuori dalla stanza per trovare un po’ di pace in giardino, una piccola parte di sé ci aveva creduto veramente.
Aveva alzato di poco lo sguardo e ciò che vide lo lasciò a bocca aperta e nonostante tutti i demoni che stringevano e soffocavano il suo cuore, esso iniziò a battere velocemente, senza rallentare, come un martello inarrestabile. Tra i bassi cespugli c’era Louis, con le braccia aperte e gli occhi al cielo. Sopra di lui si muovevano circa un centinaio di piccole luci, che solo dopo qualche istante Harry capì fossero lucciole. Stavano danzando, ma non sopra di Louis, bensì con lui. Erano intorno alla sua figura, circondandolo con movimenti lenti e circolari, in quella che sembrava la coreografia di tante ballerine eleganti, come quelle che Harry era solito vedere al teatro. Il volto di Louis sembrava più luminoso del solito, sotto le lucciole. I suoi occhi azzurri brillavano e si scontravano con l’oscurità, in una lotta senza fine tra luce e buio. Ruotava il torso prima da una parte poi dall’altra, per seguire il movimento delle lucciole. In sottofondo, Harry poteva sentire come una melodia, lontana ma comunque presente. Sembrava il suono di un violino e il riccio si chiese quale animale avesse la coda con tre corde capace di imitare il suono dello strumento. E lo ringraziò anche mentalmente, perché quelle note dolci facevano da sfondo perfetto al soggetto meraviglioso che aveva davanti. Solo dopo qualche minuto, Louis si accorse della sua presenza. Gli sorrise, ma non disse nulla. Gli fece segno con la mano di avvicinarsi, dondolandosi ancora per la danza.
Harry ci rifletté un attimo, prima di muovere il primo passo verso di lui. Avrebbe preferito starlo a guardare per ore, senza interferire in quell’immagine stupenda. Ma poi si mosse, troppo attratto dall’altro per poter rifiutare il calore delle sue mani, la vicinanza col suo viso e i suoi occhi puntati su di sé. Si sentì quasi geloso delle lucciole che lo avevano accompagnato per tutto quel tempo, quando invece avrebbe voluto restarci lui con Louis.
Ma si accontentò di muovere una gamba verso di lui, poi l’altra, e così via di seguito in una corsa quasi disperata per raggiungere l’altro ragazzo.
Furono le dita, le prime ad incontrarsi e a sfiorarsi. Unghie e polpastrelli le une sopra gli altri e viceversa, in un tenero gioco senza fine. Ma nessuno dei due guardava quelle dita adesso intrecciate, che quasi non si distinguevano più. Si guardavano negli occhi, l’unico luogo grazie al quale potevano davvero sentire l’anima dell’altro. In fondo Carroll l’aveva sempre detto che Attraverso lo specchio c’era un altro mondo. Harry avrebbe potuto dire, una volta tornato nella sua realtà, che aveva visto un paese meraviglioso. Ma di certo non si sarebbe riferito a Wonderland, ma a Louis. Perché attraverso quegli occhi, quegli specchi di luce azzurra, c’era davvero un mondo intero, di cui Harry stava iniziando a fare la mappatura. Ne avrebbe potuto tracciare a grandi linee i posti più belli, quelli che aveva avuto l’onore di visitare: il calore dentro le sue mani, rassicurante come un posto caldo ai Tropici; il profumo avvolgente, come quello di un campo di lavanda in Provenza; il rossore sulle guance, come un vulcano italiano in eruzione; un sorriso meraviglioso, pieno di sfaccettature, come una valle, come la Khagan Valley in Pakistan. Avrebbe rappresentato quella mappa e l’avrebbe firmata col suo nome, appesa in camera e avrebbe vegliato su di lei per tutti i giorni futuri. Ma per il momento, si limitava ad analizzarla e a capirne la legenda, mentre danzavano sotto le lucciole festose.
Harry cercava di seguire i passi eleganti di Louis, senza concentrarsi più di tanto, quanto bastava per non calpestargli i piedi. Più che una danza sembrava un girotondo, perché non erano importanti i movimenti, ma il loro immobile scovarsi e scoprirsi, dentro quegli specchi e quei sorrisi. Ogni tanto Louis faceva ruotare Harry, inchinandosi, con un piede in avanti e l’altro in punta, e rialzandosi subito dopo, per poi riavvicinarlo a sé, abbracciarlo e non smettere mai di muoversi pur di continuare quel contatto.
Il riccio appoggiò il mento sopra la spalla dell’altro, in un abbraccio ancora più stretto degli altri. Poteva sentire il battito del suo cuore riempire i vuoti del battito di Louis. Un unico cuore, che non smetteva mai di battere, che colpiva a ritmo della musica del giardino. Ma in fondo Louis e Harry erano le facce della stessa medaglia. Anche se incastrati in realtà diverse, la vita che avevano vissuto era molto simile, talmente tanto che in quel momento, persino Harry riusciva a vedere i demoni dentro il cuore di Louis. Erano più piccoli dei suoi, sembravano degli insetti neri, ed erano pochi. Però c’erano e Harry si stupì, ma non perché riusciva a vederli nella loro concretezza (piccole ombre sul punto del petto di Louis dove si situava il cuore), ma perché pensava che lui non ne avesse.
Nel paese delle meraviglie tutti i demoni vanno affrontati, oppure si rischia di morire.
“Perché anche tu hai il cuore nero?” chiese titubante rompendo il silenzio, senza staccarsi troppo da lui, solo quanto bastava per guardarlo negli occhi. Le ombre scomparsero subito, come se Louis da dentro cercasse di nasconderle, mentre il suo viso arrossiva un po’.
“L’ho sempre avuto. Solo che prima tu non eri capace di vederlo.” rispose piano, dando il giusto peso ad ogni parola. “Adesso che hai passato abbastanza tempo nel Paese, sei capace di vederli anche tu negli altri.”
Harry sembrò rifletterci un po’, su quelle parole. Nell’altra realtà, gli aveva detto che tutti i demoni vanno affrontati. Perché allora lui non l’aveva ancora fatto? Ma non aveva il coraggio di chiederlo esplicitamente. Non al momento.
La danza era finita. Ormai era solo diventato un abbraccio, lungo minuti, ore, nessuno dei due lo sapeva. Persino le lucciole andavano via, perdendosi tra i cespugli di quel meraviglioso giardino.
“Non riuscivi a dormire?” gli chiese Louis, dopo molti istanti di silenzio, sussurrandoglielo all’orecchio. Harry scosse la testa, sfregando il naso sulla spalla dell’altro e accoccolandosi meglio nell’incavo del suo collo.
“Sei preoccupato?” chiese ancora Louis leggermente allarmato, poggiando le labbra sulla fronte di Harry, in un piccolo bacio delicato.
Ma il riccio dovette allontanarsi, a malincuore, interrompendo quel lunghissimo abbraccio. “No.” rispose, staccandosi del tutto. “Io non verrò con voi.”
Louis aprì la bocca per lo stupore, serrandola subito dopo, come se fosse arrabbiato. O almeno Harry sperava fosse questo, perché la delusione sul volto di Louis non l’avrebbe potuta sopportare.
“Perché ti sei reso conto che questo non è un sogno?” Louis allargò leggermente le gambe, mentre pronunciava queste parole, infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni e restando in piedi davanti ad Harry, guardandolo negli occhi.
Harry invece non riusciva proprio a cercare quell’azzurro, come aveva fatto prima durante la danza. Non voleva deludere Louis, ma non partecipare alla guerra e aspettare di essere riportato nell’altro mondo gli pareva la soluzione più adatta a lui. Magari non quella più giusta, ma quella per lui. Non aveva mai peccato di egoismo, Harry. Eppure in quel momento, lasciare i suoi nuovi compagni in pericolo, tra le grinfie della regina Wendy, gli pareva la soluzione migliore, pur di scappare da qualcosa in cui non credeva. O forse erano gli altri ad essere egoisti per averlo portato al Paese a rischiare la morte? Come i cattolici, si disse Harry, che pur di combattere la loro causa avrebbero lasciato indietro chiunque, in un atto di egoismo che sicuramente il povero dio costretto a vederne di tutti i colori lassù, non avrebbe approvato.
“Che succederebbe se dovessi morire qui?” fu la domanda spontanea di Harry, evitando accuratamente di rispondere alla risposta di Louis. Quest’ultimo gli sorrise, rilasciando la mascella dura e rilassando gli altri muscoli. “Ti risveglieresti nell’altro mondo, perché è quello che credi tuo.” rispose, facendo spallucce, sperando di averlo convinto almeno un po’ a partecipare a quella battaglia. In fondo non avrebbe perso nulla, se per uno sfortunato caso si fosse trovato con una spada in mezzo al petto. Si sarebbe svegliato nella libreria, proprio nel punto in cui Louis aveva fatto cadere il libro del Paese. Ma proprio Louis non sapeva che la morte non era l’unica preoccupazione di Harry.
“E se dovesse succedere qualcosa a te?” chiese infatti.
Era perdere Louis la sua preoccupazione più grande.
Harry, poco prima in camera, aveva riflettuto a lungo sulla sua relazione con Louis. Voleva lasciare questo mondo, ma non lui. Si era infatuato di un personaggio delle fiabe e ormai ne era consapevole, ma se gli fosse successo qualcosa, come avrebbe potuto anche solo pensare di sopravvivere all’ennesimo dolore? Ne aveva già vista troppa, di sofferenza e di morte. Era da quello che stava scappando. Era per quello che aveva accettato di raggiungere il Paese, ma come avrebbe potuto immaginare che anche lì, la vita era fatta piena di sofferenze? Non c’era scampo per nessuno: tutti, prima o poi, sono costretti a provare il dolore, ad accogliere dei demoni dentro il loro cuore. Harry ci aveva fatto l’abitudine sin da piccolo, sin da quando J.M. Barrie gli aveva cambiato la vita, portando lui e tutta la sua famiglia al successo, per poi abbandonarli e lasciarli al loro destino intrinseco di eventi che avrebbero portato Harry ad essere terribilmente solo.
Ma con Louis, Harry non si era più sentito solo. Nonostante tutto, il ragazzo dagli occhi come il mare e le guance dipinte di rosso come quelle di un bambino, lo aveva salvato dal mare della solitudine. Aveva pensato di tornare nel Paese, una volta finita tutta quella storia. Magari una volta al mese, o a settimana, ogni qualvolta che Louis lo volesse. Ma se Louis non ci fosse stato più, ad attenderlo in mezzo a foglie cangianti e lucciole danzanti? Che cosa ne sarebbe stato del suo unico angolo di paradiso in quegli occhi azzurri?
“Beh per me non ci sarebbero speranze, dato che io credo in questo mondo.” rispose semplicemente Louis, massaggiandosi le mani a vicenda, in segno di nervosismo. “Ma io non ho paura di morire.” affermò, forse mentendo, forse no. Harry non avrebbe saputo distinguere la sottile differenza tra verità e bugia bianca. “Perché tu non ci credi?” chiese infine, in un sussurro.
Il riccio non rispose subito. Non voleva litigare con Louis, né in quel momento, né mai, ma sentiva che dentro stava crescendo un sentimento simile alla rabbia, alla paura, alla codardia. Tutti mischiati insieme. "Perché io non sono il ragazzo che non voleva crescere, Non posso volare. Nella mia realtà tu non sei Alice, non so neanche se esisti nel mio mondo!”
E poi si ricordò ciò che crescere era veramente: quando imparò che i ragazzi non potevano volare e le sirene non esistevano e i conigli bianchi non parlavano e tutti diventavano vecchi, prima o poi, anche Peter Pan. Era stato illuso. Scoprire quelle cose era stato così doloroso che a lungo, quando era bambino, aveva cercato l’Isola che non c’è. Ma nessuno era lì ad aiutarlo: J.M. Barrie aveva preso i soldi e le loro vite e se n’era andato. Lo aveva illuso e lo aveva abbandonato così velocemente da non accorgersene. E gli era rimasta solo la sofferenza. Perché se il suo mondo fosse stato una fiaba, i suoi genitori e i suoi fratelli non sarebbero di certo morti. Non avrebbe visto soldati morire sotto la polvere da sparo che incombente non lasciava spazio per nessun’altra cosa, tantomeno per la speranza.
"Non possiamo vivere in una fantasia. La realtà è dura, ma è tutto ciò che abbiamo."* aggiunse, guardando per terra, a voce più bassa. “Non ci sono laghi delle sirene: i nostri laghi sono silenziosi, dalle acque profonde dove i ragazzi solitari si suicidando affogando. Non ci sono capitani di pirati. Ci sono trincee e proiettili e noi non voliamo, né potremo mai farlo."
Louis rimase in silenzio ad ascoltare Harry che si liberava di tutto ciò che aveva dentro. Non avrebbe potuto di certo rimproverarlo per tutto ciò che aveva passato. Avevano avuto vite simili, ma avevano fatto scelte diverse. Harry aveva smesso di credere nelle fiabe, nonostante aver visitato il Paese delle Meraviglie, ricordo che sembrava ormai essere scomparso del tutto. Louis, invece, ci aveva creduto più di ogni altra cosa, tanto da smettere di vivere nella realtà della sofferenza, della guerra e di tutto ciò che prima o poi finisce per rimanere felice e giovane nel Paese delle Meraviglie. Louis si chiese chi fosse il più codardo fra i due. Iniziò a camminare, facendo segno con la mano ad Harry di seguirlo. Il giardino era vastissimo, quindi passeggiarono per circa un quarto d’ora, in completo silenzio. Entrambi i ragazzi erano persi nei loro pensieri, a guardare il cielo senza nuvole o l’erba umida di colori lasciati dai ragnetti. Arrivarono in un punto in cui la fila di cespugli cessò e al centro si stagliava una bella fontana grande, con l’acqua che scorreva ogni secondo in un colore diverso, illuminata da chissà quali luci. Harry avrebbe voluto restarne estasiato, e un po’ lo era, ma i pensieri lo tormentavano troppo e non riusciva a concentrarsi sulla bellezza della fontana. Louis si sedette a bordo di essa, con le gambe incrociate.
Sembrava Peter Pan. Avrebbe dovuto essere lui Peter Pan, ne sarebbe stato degno. pensò Harry, sedendosi accanto a lui.
"Nel luogo chiamato età adulta,” iniziò Louis, dopo qualche minuto di silenzio, passati a fissare l’acqua colorata. “ci sono pochi pomeriggi d'oro. Sono andati via per lasciar spazio ad altre cose come gli affari e le pulizie e il voler conformarsi agli altri. Vite vissute in siepi ben curate, tutti gli eccessi banditi, tutte le gioiose peculiarità cancellate. E' orribile e malsano. Non ci sono Cappellai Matti o Stregatti. Quello è il posto chiamato età adulta - ci sei adesso, o quantomeno prima che io ti portassi via. Ho pensato che il Paese avrebbe potuto piacerti davvero. Sai perché?” chiese retoricamente, ma non aspetto neanche la risposta di Harry. “Perché qui e adesso, in questa storia che stiamo scrivendo insieme, tu non rimarrai mai ferito. E non soffrirai mai per amore. E non sarai mai da solo, sarai amato."
Louis gli prese la mano, mentre parlava. Cercava di scavare dentro Harry, di parlare alla sua anima, ma il ragazzo era così titubante che gli risultò difficile persino trovarla. “Le storie per bambini non possono ferirti.”
Harry inghiottì, ma il nodo che gli si era formato in gola per aver ascoltato quelle parole era troppo grosso, gli faceva persino male. Sarebbe stato amato. Da Louis, prima di tutti. Ma anche dagli altri, dal Cappellaio, da Iracebeth, dai bambini. Col tempo, ma lo sarebbe stato. Ma era davvero disposto a credere in una cosa del genere, dopo tutti gli anni passati a dare la colpa a J.M. Barrie per avergli fatto credere nell’Isola che non c’è? E se fosse di nuovo l’ennesima delusione?
“Non esistono, le fiabe.” aveva detto ancora, con le lacrime agli occhi. “Non c’è nessun Capitan Uncino.”
“ Sei sicuro?“ chiese Louis, avvicinandosi. “Non lo senti qualche volta?” Gli sfiorò la guancia, pronto a catturare la lacrima che timida tentava di uscire da quella trappola di sofferenza verde nel suo volto. “Quando sei solo, in una stanza buia, non senti la punta del suo uncino toccare il retro del tuo collo?"
E la catturò, e ne catturò anche altre, perché Harry era veramente scoppiato a piangere. Non riusciva a smettere di singhiozzare, mentre la mano di Louis gli accarezzava le guance, prima l’una e poi l’altra, pronta a non lasciare passare nemmeno una lacrima.
"Peter e Alice. Noi non siamo quelli, non sono più Peter Pan, né tu sei Alice. Siamo quello che la vita ci ha reso.” aveva singhiozzato ancora, chiudendo gli occhi, per evitare che altre lacrime uscissero, ma era impossibile. “Anche Barrie alla fine l'aveva capito: l'unica ragione per cui i bambini non crescono è perché muoiono.”
Louis non seppe che rispondere. Era rimasto impressionato da quella risposta, e ancor di più dalla sofferenza che stava provando Harry. Aveva visto i demoni aumentare, ma non poteva vedere che i demoni più dolorosi ce li aveva dentro la testa. Erano i ricordi a fare del male al riccio, più di ogni altra cosa.
"Quando chiudo gli occhi e vedo la mia famiglia..” aveva cominciato Harry, titubante.  “Sento.. sento che mi stanno aspettando. Vogliono che mi unisca a loro. Ho paura a chiudere gli occhi perché quando li vedo, quella fila di corpi che mi aspettano nell'oscurità..“ continuò, senza riuscire a formulare frasi complete. “Mio padre, che respira a fatica mentre il cancro lo porta via.. Mia madre, che a braccia aperte mi dice addio... Mio fratello George, che con le mani insanguinate tiene stretto il filo spinato.. Mio fratello Michael, occhi aperti, che va giù, allungando la mano verso me. Posso vederli, anche adesso."
Louis lo abbracciò, senza pensarci due volte. Fu una reazione istantanea, era la cosa più esatta che Louis potesse fare. Averlo tra le braccia, consolarlo, gli sembrava giusto. Perfetto. Singhiozzava sul suo petto e le lacrime bagnavano il gilet azzurro, ma non gli importava. Gli importava che le sue mani fossero incastrate tra i suoi capelli ricci, gli importava che finalmente, dopo tutti quegli anni, si era concesso il lusso di piangere. Per la situazione in cui si trovava, per la sua famiglia, per tutto il dolore accumulato.
“Non chiudere gli occhi allora.” fu la risposta di Louis, a quel mare di parole di sfogo.
Harry si accoccolò meglio al petto dell’altro ragazzo, smettendo piano piano di piangere.
“La scelta è tua adesso.” gli disse Louis, dopo un po’.
“Non capisco cosa vuoi dire.”
“E' la tua vita. Non quella di Barrie, non quella di tuo fratello. La tua.” Louis prese il viso di Harry tra le mani, staccandolo dal suo petto. Lo guardò dritto negli occhi, cercando di trovare una qualche risposta dentro di lui. “Scegli.”
“Cosa vorresti che facessi?” chiese il riccio, appoggiando la mano sopra quella di Louis, sul suo volto.
“Vorrei che vivessi.”
Harry lo guardò perplesso, alzando un sopracciglio. “Intendi credendo nelle fiabe?” chiese titubante, come se quella soluzione non fosse neanche compresa tra le opzioni.
“Perché no?" fu l’unica cosa che disse Louis, prima di alzarsi e andarsene, lasciando solo Harry con i suoi ricordi, i suoi pensieri, i suoi tormenti e l’ombra di un sorriso sotto le luci colorate della fontana.

***

Il castello di Regina Wendy era in fermento. Il Bianconiglio dirigeva le operazioni di guerra con grande fervore, cercando di non essere in ritardo con la tabella di marcia. Wendy, nel suo graziosissimo vestito azzurro, se ne stava sul balcone della sua camera, guardando giù, dove orde di carte da gioco si disponevano in file ordinate. Quello era l’esercito che una volta la Regina di Cuori utilizzava per mantenere la pace, ma che adesso veniva sfruttato per iniziare una guerra che avrebbe portato solo morte e distruzione. Non che alla regina bionda dispiacesse, anzi. Il suo unico desiderio era vedere scomparire dal Paese delle Meraviglie le uniche persone che avrebbero potuto ostacolarla: il Matto, la Rossa e Alice.
Peter Pan, invece, era un omaggio offerto dal destino. Non aveva previsto il suo ritorno, non se lo sarebbe mai aspettato, ma a quanto pareva la fortuna giocava nella sua squadra. Wendy aveva pensato per anni a come vendicarsi di colui che gli aveva spezzato il cuore, rompendolo irrimediabilmente e facendo passare attraverso le crepe di esso solo puro astio verso il resto del mondo, dell’amore e della felicità. Ma adesso che il ragazzo che non voleva crescere aveva deciso di far ritorno in quel Paese in cui l’aveva abbandonata senza pietà, aveva la possibilità di mettere a posto le cose. Desiderava fargli lo stesso male che lui aveva fatto a lei, farlo soffrire come nessuno aveva mai sofferto prima d’ora.
Se Iracebeth era la Regina di Cuori, Wendy sarebbe stata la Regina dei Cuori spezzati.

***

Harry aveva lasciato la fontana colorata dopo un’ora. Era rimasto a fissare l’acqua e a riflettere sulla conversazione appena avuta. Era molto stanco, gli dolevano tutte le membra e avrebbe voluto tanto dormire per giorni interi. Ma la sua mente non riusciva proprio a staccarsi e a spegnersi, anche solo per una decina di minuti. C’era tanto a cui pensare e la sua attenzione non poteva perdersi in un sonno superfluo. Ma d’altro canto, nessuno avrebbe avuto voglia di dormire se si fosse trovato nel Paese delle Meraviglie, nel bel mezzo della più grande guerra mai vista in una fiaba. Harry si chiese com’era possibile che le storie inventate da Carroll e Barrie potessero continuare ad avere vita propria, letteralmente. Ma ormai non riusciva più a stupirsi di nulla, in fondo ne aveva viste di tutti i colori in quel mondo. Ed era persino ringiovanito! Camminando nel corridoio del castello, fu proprio quello che pensò, rispecchiandosi in una delle finestre da cui penetrava la luce della luna. Il suo riflesso era così giovane, senza rughe che segnavano inesorabili l‘avanzare dell‘età. Ma i suoi occhi erano più stanchi di quelli di un uomo di ottant’anni. Harry Davis Styles in trent’anni aveva vissuto più di chiunque altro avesse il doppio della sua età. E aveva così tanti rimpianti e rimorsi che avrebbe preferito invece passare una vita monotona, lunga e senza esperienze particolari. Una vita semplice, come quella di un contadino ad esempio. Ma il destino gli aveva preservato l’incontro con Barrie da bambino, la fama, i sogni, le speranze, per poi togliergli tutto, persino la famiglia.
“Oh oh il piccolo Harry non riposa.”
Harry sobbalzò sul posto per la sorpresa, non aspettandosi nessuno in piedi a quell’ora della notte. Le parole del Cappellaio trapelavano come al solito da un ghigno che illuminava il corridoio buio. Si era avvicinato silenzioso, probabilmente col passo barcollante che aveva sempre.
“Neanche tu.” sospirò Harry, tornando a guardare la luna che pareva più pensierosa di lui stesso.
“Io ho da fare.” rispose il Cappellaio, accendendosi una sigaretta e facendo compagnia all’altro nell’ammirare il cielo adesso illuminato. “Purtroppo la guerra incombe e bisogna preparare tante cose. Certo preferirei stare tranquillo al mio tavolo a festeggiare compleanni, ma non posso.”
“Pensavo festeggiassi non compleanni.”
“A volte anche compleanni. Per le amiche soprattutto. Tanti auguri e tanta felicità. Non si è mai abbastanza vecchi per augurare il meglio il giorno del compleanno, anche se si fanno -che so- 20 o 21 anni.”
Harry scosse la testa. Non si sarebbe mai abituato alla presenza di quell’uomo, alla sua stravaganza ed estrosità. “Tu sei completamente …”
“Matto. Sì lo so, grazie tante.” completò la frase, porgendogli la sigaretta. Harry scosse la testa, rifiutando l’offerta. Il Cappellaio alzò un sopracciglio, riportando la sigaretta sulle sue labbra e tirando un’altra boccata. “Mollaccione.” fu il commento sottovoce, ma il riccio non ci fece nemmeno caso. Guardarono il cielo in silenzio, sempre più scuro di nuvole, fin quando non iniziò a piovigginare.
“Hai fatto rattristare Louis per caso?” domandò il Cappellaio, riferendosi alle tendenze meteorologiche del Paese, che cambiavano a seconda dell’umore del personaggio più rilevante in quel luogo. Harry non rispose, pensare a Louis triste gli faceva troppo male, per di più se la colpa fosse sua. “Tu ancora non ci credi vero?”
Harry scosse la testa. “No.” Non riusciva neanche a guardarlo in faccia mentre negava completamente il suo aiuto. Se ci fosse stata un’alternativa alla guerra, magari avrebbe provato ad offrire il suo aiuto a tutti. Ma di battaglie e violenze, ne aveva già viste troppe. “Ma credo possiate farcela. Io credo in Louis.”
Il Cappellaio spalancò la bocca, facendo cadere residui di sigaretta a terra, senza preoccuparsene. “Oh per le zampe del Brucaliffo!” esclamò quasi urlando. Harry pensò che se fosse finito nel libro della Spada nella roccia, quella sarebbe stata l’alternativa all’esclamazione Per la barba di Merlino.
“L’hai detto veramente!” continuò ancora l’uomo dal grande cappello, gettandolo in aria e riprendendolo al volo, tra un saltello e l’altro. I suoi occhi glaciali brillavano più del solito sotto la luce della luna, o forse era per quella gioia improvvisa che Harry non riusciva a comprendere. Ma non se ne stupiva più di tanto, era pur sempre il Matto.
“Domani mattina non aspettatemi, vi raggiungerò dopo!” disse quest’ultimo, prima di lasciare Harry nuovamente da solo con i suoi pensieri. Corse via e Harry con la coda dell’occhio gli rivolse un ultimo sguardo. Louis aveva ombre nere sul suo cuore, ma quelle che aveva visto nel Cappellaio erano burroni di oscurità in confronto. Si chiese cosa potesse tormentare così tanto un uomo la cui felicità dipendeva dalla temperatura del tè. Ma poi capì che tra il Paese e la sua realtà non c’era così tanta differenza: tutti gli uomini avevano dei demoni nascosti nei loro cuori.

***

“Ma dove è finito quell’idiota?”
L’alba aveva invaso il Paese delle Meraviglie dolcemente, senza permesso, come faceva ogni giorno. Il giardino del palazzo baciato dai raggi di sole sembrava un dipinto ad olio, ed Harry, dalla finestra della sua camera, avrebbe voluto prendere una tela e dei pennelli per racchiudere quello spettacolo meraviglioso dentro ad una cornice. Non sapeva disegnare, né dipingere, però quella vista avrebbe ispirato qualsiasi artista, e persino uno scrittore o un musicista. Un sonetto di Shakespeare o una composizione di Mozart sarebbero stati niente in confronto.
Dall’alto della sua camera, poteva vedere i preparativi. Vedeva Iracebeth che velocemente preparava il suo cavallo bianchissimo, proprio come quello di una fiaba. Ogni tanto inveiva contro il personale del palazzo -un paio di camerieri che svolgevano quasi tutte le funzioni- affinché trovassero il dannato Cappellaio. Harry avrebbe voluto dirle che non c’era, ma non sapeva dove fosse andato, quindi evitò persino di scendere. O meglio, così si convinse. La vera ragione era che non voleva scendere per evitare Louis. Anche lui stava preparando il suo cavallo, accarezzandolo sul dorso con quelle mani delicate che fino alla sera prima avevano sfiorato le sue guance bagnate. Aveva trascorso le ultime ore prima dell’ascesa del sole con quel ricordo tra le mani, stringendolo forte per evitare che scivolasse via. Persino attraverso la finestra, a quella distanza, Harry poteva vedere quanto l’altro era bello. Non era una bellezza oggettiva, nella sua realtà probabilmente nessuno lo avrebbe notato per strada. Ma per il riccio, era di una bellezza elegante, sopraffina. Avrebbe anche osato dire unica, perché non aveva mai visto ragazzo più bello di quello. Non sapeva se era un suo sogno, una sua fantasia, una creatura magica o qualsiasi altra cosa, ma Harry non poteva che rimanere incantato dal volto perfetto di Louis. Cercò di ricordarne i dettagli, anche i più piccoli, come quei piccoli nei quasi invisibili ad occhio nudo o le piccole pieghe della pelle vicino agli occhi, quando sorrideva. Un’alba nel Paese delle Meraviglie, un sonetto di Shakespeare e una composizione di Mozart sarebbero stati niente in confronto.
“Ciao impostore.”
I pensieri di Harry furono interrotti da una vocina che non conosceva dietro di lui. Si voltò spaventato, ma non vide nessuno finché non abbassò lo sguardo.
“Ciao… Pennino? E’ questo il tuo nome?” chiese il riccio, piegandosi per raggiungere l’altezza del piccolo Bimbo Sperduto. Era lo stesso bambino che la mattina prima aveva avuto l’accuratezza di svegliarlo con una secchiata d’acqua. Dio, sembrava essere passata un’infinità di tempo da quel momento.
Il bambino annuì, continuando a succhiare con una cannuccia una qualche bevanda dal suo bicchiere. “Ciao impostore.” ripeté il bambino dalle guance paffute e gli occhi piccoli.
Harry sospirò. In fondo con quali parole avrebbe potuto controbattere? Lui era un impostore, perché non voleva essere Peter Pan. “Dove sono gli altri?” chiese, cercando di cambiare discorso.
“Stanno aiutando Alice.”
“E tu non vai con loro?”
“No, volevo vedere l’impostore.”
Harry non aveva mai avuto a che fare con dei bambini. Certo, c’erano stati i suoi fratelli, ma quando viveva ancora con loro anche lui era piccolo. Ma dopo essere passato dall’adolescenza all’età adulta, non aveva più avuto l’occasione di sostenere una conversazione con un bambino così piccolo. Poteva avere circa nove anni, pensò Harry. Non lo biasimò di certo per quel nomignolo che gli aveva affibbiato, anzi. Piuttosto lo invidiava, perché lui avrebbe potuto rimanere un bambino per sempre. E credere nelle fate, nelle pan farfalle e tutte quelle robe là. Negli occhi di Pennino, poteva vedere quell’innocenza che Harry aveva perduto da tempo. Quel bimbo non sarebbe mai cresciuto, non avrebbe mai vissuto in una casa in cui un giorno, si sarebbe ritrovato da solo. Non avrebbe contato i minuti che mancavano al giorno seguente nei momenti liberi, né avrebbe visto il suo volto invecchiare in uno specchio ormai rovinato dal tempo. Forse, dopo tutto quello che Harry aveva visto in quel mondo, se gli fosse stata offerta la possibilità di tornare bambino, l’avrebbe accettata senza battere ciglio. Forse avrebbe addirittura continuato a credere nelle fate. Perché c’era una cosa che aveva notato, ed era una cosa che avrebbe rimpianto per sempre, poiché lui non aveva avuto la stessa fortuna.
Pennino non aveva demoni dentro al cuore.
“Ascoltami Pennino.” iniziò Harry, guardandosi le mani nervoso. Come si parlava ai bambini? Proprio non sapeva farci. “Mi dispiace.”
Il bambino smise di bere da quella cannuccia colorata, donando la sua completa attenzione al riccio.
“Mi dispiace, avrei voluto tanto essere Peter Pan, ma non lo sono. Sono finito qui per sbaglio, niente di tutto questo mi appartiene. Mi chiamo Harry Davies Styles, e non so volare, né sono in grado di badare a voi Bimbi Sperduti, né sono amico di Giglio Tigrato.”
Pennino allungò la sua mano verso il volto del riccio, come per accarezzarlo, ma iniziò invece a tirargli la pelle della guancia sinistra con pizzicotti veloci.
“Mi fai male!” si staccò subito Harry con esclamazioni di dolore. “Sei impazzito?”
“Non ti ho chiamato impostore perché tu non sei Peter Pan.” affermò il bambino, tornando a bere dal bicchiere con entrambe le mani. “Ti ho chiamato così perché non vuoi aiutare Louis.”
Quelle parole spiazzarono Harry del tutto, che restò a bocca aperta. Persino un bambino aveva capito che ciò che stava facendo, o meglio ciò che non stava facendo per Louis era sbagliato. E per cosa? Per paura? Orgoglio? Senso di colpa?
“Forse la parola giusta era codardo, non lo so.” continuò il bambino, dondolandosi sul posto. Gli ricordava un po’ il Cappellaio, nella postura. “Non sono andato a scuola, non so le parole giuste.” E se ne andò lasciando Harry da solo, come se quella conversazione non fosse mai avvenuta.
Il riccio si alzò in piedi, ancora disorientato da quelle parole. Ma quando si affacciò alla finestra, il giardino era vuoto: Louis e Iracebeth erano già partiti. Si toccò la guancia ancora dolorante per i pizzicotti, mentre la parola codardo risuonava alle sue orecchie come la peggiore delle imprecazioni, qualcosa da cui stare lontano.
E mentre andava a cercare Pennino affinché lo aiutasse a preparare un cavallo, Harry pensò che quella era proprio la parola giusta per lui.
Ma anche se, a differenza del bambino, era andato a scuola, il riccio non riusciva nemmeno a capacitarsi che una parola del genere potesse fermarlo nell’aiutare qualcuno a cui aveva iniziato ad affezionarsi.

***

Erano le sette del mattino, ma al confine tra il Paese delle Meraviglie e la parte di territorio della Regina Wendy, sembrava essere notte fonda. Era questa una delle conseguenze del regno della bionda: l’oscurità doveva essere presente sempre, a qualsiasi ora del giorno. Persino l’umore di Louis non aveva influenza su quella porzione di Paese, che di certo non poteva chiamarsi più delle Meraviglie.
Louis e Iracebeth avevano cavalcato tra le radure oscure, dove non vivevano né panfarfalle, né ragni dalle zampe colorate. Era una natura spenta, appassita dalla cattiveria, dall’odio e da altri sentimenti impuri che la stavano facendo morire, giorno dopo giorno. In un regno senza sole, come poteva vivere la natura? L’unica macchia di colore erano i cavalli bianchi e i capelli rossi dell’ex Regina di Cuori, dentro la quale, a quella vista, la voglia di spodestare Wendy dal suo trono accresceva sempre di più.
Ma presto quel sentimento fu sostituito da un altro molto più forte che si manifestava con un battito di cuore accelerato e dei brividi che le percorrevano la schiena. Ad aspettarli al confine, vi era un gruppo di uomini incappucciati, i cui volti erano coperti dall’oscurità della radura. Louis dovette socchiudere gli occhi per poter focalizzare l’immagine di quello strambo gruppo, prima di realizzare chi fosse.
La rossa, invece, l’aveva già capito dal primo momento. Al centro di esso, vi era un cavallo completamente nero con sopra qualcuno che conosceva più di se stessa.

“Voglio il cavallo nero!”
“No, tu sei femmina, quindi ti tocca il cavallo bianco.”
“Femmina! Ma ti senti quando parli?”
“Non voglio uno stupido cavallo bianco come quello di quell’idiota del Principe Azzurro.”
“Almeno non si rivolge alle donne chiamandole volgarmente femmine.”
“Di sicuro non gli è permesso rivolgersi alla mia donna in nessun altro modo.”
“Arrogante.”
“Viziata.”
“Spaccone.”
“Egocentrica.”
“Testone.”
“Mia.”

“Che ci fai tu qui?”
Iracebeth si morse un labbro, dopo aver posto la domanda che dentro quella radura sembrò riecheggiare tra le foglie non più cangianti. Accarezzò il dorso del suo cavallo bianco, prima di piegarsi in avanti e scendere elegantemente, facendo dondolare i capelli raccolti da una coda.
L’uomo si abbassò il cappuccio del mantello. Mostrava un sorriso splendente come l‘uncino che portava, ma dentro i suoi occhi vi era solo tristezza. La sua donna era lì, davanti a lui e un’ondata di ricordi lo pervase, ma cercò di non darlo a vedere. Cosa che, ovviamente, Iracebeth notò perché era la stessa sensazione che stava provando anche lei.
E’ inutile nascondersi alla vista di qualcuno che ti conosce fin troppo bene, e questo la rossa lo sapeva bene. Portò le braccia al petto, incrociandole e cercò di indossare la sua maschera preferita: l’indifferenza.
Ma quella maschera era stata utilizzata talmente tante volte che aveva delle fessure da cui trapelava la realtà, il vero volto di una donna che era stata ferita e abbandonata, ma che comunque aveva amato tanto, tantissimo. Forse tra lei e Wendy, non c’era poi così tanta differenza.
“Il tuo amichetto mi ha invitato.” rispose Uncino, scendendo dal cavallo completamente nero. “Non è carino che io non partecipi ai giochi.”
“Tu e il tuo branco di idioti sareste solo d’impaccio.”
Louis guardò entrambi. Era come osservare cane e gatto nell’attimo prima di una faida senza sosta. I loro sguardi erano carichi di elettricità e la tensione era così palese che perfino uno degli stupidi pirati avrebbe potuto capirlo che tra quei due c’era molto più che semplice antipatia. Se così si poteva chiamare quella scenetta che stavano mettendo in atto.
“Credo che vi saremmo d’aiuto invece.” la liquidò velocemente il Capitano. Fece segno ai suoi loschi compari di scendere da cavallo, incappucciandosi nuovamente. “E’ meglio proseguire a piedi.” consigliò, voltando le spalle a Louis e ad Iracebeth. Quest’ultima fece per ribattere ma venne interrotta nuovamente dal Capitano, il quale con un gesto della mano aveva ordinato di fare silenzio. Da lontano si sentiva uno scalpitio di zoccoli che veloci si appropinquavano sempre di più, in un ritmo che somigliava al battito del cuore di Louis leggermente preoccupato.
Ma l’ansia scivolò via non appena il cavallo comparse di fronte a loro, con Harry sopra che teneva le redini strettissime per la paura, tanto da fargli sanguinare le mani. Louis si rilassò un attimo, prima di realizzare che Harry era veramente là per loro e scoppiare di gioia. Non riuscì a fare un passo, ma lo guardò dal basso affascinato. Harry si scostò una ciocca di ricci dalla fronte, con la mano un po’ tremante per la lunga cavalcata alla velocità della luce. Scese dal cavallo, atterrando a terra in un balzo maldestro, ma non ebbe neanche il tempo di perdere l’equilibrio e cadere, perché due braccia l’avevano avvolto in una forte stretta.
Harry si sciolse in quell’abbraccio, ubriacandosi del profumo di lavanda di Louis. Anche dentro la radura oscura, il sorriso di quest’ultimo riusciva ad illuminare tutto, o almeno questo era ciò che pensava Harry. Uncino aveva ruotato gli occhi al cielo, insultando “quel mollaccione di Peter Pan” con qualche epiteto poco carino. La rossa invece aveva mostrato un mezzo sorriso. Almeno due tra loro erano felici.
Perché era così che si sentiva Harry, tra le braccia di Louis. Non gli importava se stava andando a morire e se alla fine di tutta quella storia sarebbe tornato nella sua realtà.
Era lì in quel momento, per aiutare Louis. Era questo ciò che importava. Non del Paese delle Meraviglie, della guerra, di Wendy, di Alice. Ma del Louis di cui stava iniziando ad innamorarsi, senza neanche volerlo, a piccoli passi come nella danza classica: un arabesque delicato come il tocco delle loro pelli, un raffinato cambré come i colori dei loro occhi illuminati da una leggera malizia, un aggraziato brisé come i saltelli che facevano i loro cuori ogni qual volta si ritrovavano incastrati petto a petto.
Certo, la danza della sera prima era ben lontana da tutta quell’eleganza, ma era bastata comunque a far capire ad Harry quel piccolo barlume di sentimenti  per Louis che iniziava a farsi spazio dentro sé. In più c’era stato Pennino, che con una semplice parola aveva fatto crollare tutte le sue convinzioni.
Come poteva essere chiamato codardo un uomo che osava amare?
“Mi dispiace interrompere questa scenetta melodrammatica,” li interruppe Uncino, sistemandosi il cappuccio di nuovo sulla testa. “ma è meglio andare.”
Porse loro tre mantelli, facendo ben attenzione a non sfiorare la pelle di Iracebeth, ma per evitare il suo profumo alla fragola proprio non poteva fare nulla. La rossa glielo tolse dalle mani bruscamente, voltandosi dall’altra parte per indossarlo.
Prevedibile, pensò Uncino sospirando.

***

C’era stato un tempo in cui quelle terre erano baciate dal sole di giorno e illuminate dalla luce delle stelle di notte. Gli ampi spazi all’aperto erano sempre pieni di persone che non uscivano di casa senza un sorriso dipinto in volto. Ma era difficile immaginare un quadretto del genere con davanti un paesaggio come quello. Nel cielo solo nuvole scure che non facevano trapelare nemmeno un raggio di sole. Harry poteva sentire l’erba secca scricchiolare sotto le sue scarpe, e quasi si sentì in colpa nello spezzare quei fili così delicati uccisi dalla distruzione portata dall’odio di una singola persona.
Si strinse nel mantello, mentre pensava che quella era colpa sua. Non si ricordava com’era finito nel Paese delle Meraviglie la prima volta. Dopo che aveva deciso di smettere di credere nelle fiabe - e nella felicità, nella speranza e tutto ciò a cui può credere un bambino- aveva tentato di rimuovere più cose possibili della sua infanzia. Voleva solo concentrarsi sulla sua nuova vita, catapultato direttamente nel mondo degli adulti senza nemmeno passare dall’adolescenza spensierata. Era stato mandato in guerra con un fucile in mano e un elmetto scadente, gli aveva inculcato messaggi che non voleva condividere, ma ne era stato comunque costretto. L’erba secca gli ricordava un po’ il terreno arido delle trincee. Non voleva che anche nel Paese delle Meraviglie tutto si trasformasse in una guerra senza fine. Eppure era là, a marciare accanto ai suoi compagni e ad una dozzina di pirati sgangherati, verso un castello che non conosceva, una regina che non era la sua e una probabile morte. Harry si guardò intorno. Erano esattamente sedici persone, come avrebbero potuto combattere un esercito? Ma gli altri sembravano non preoccuparsene. Louis, talmente vicino a lui da sfiorarsi con le braccia, era sereno in volto. Come poteva essere così tranquillo? Stavano andando in battaglia eppure sembrava spensierato come se stessero andando a prendere il tè.
“Ah!” esclamò il riccio, facendo voltare Iracebeth che camminava qualche passo davanti a loro e facendo fermare Uncino, dietro loro insieme alla sua banda. “Il Cappellaio ha detto che ci raggiungerà dopo.” spiegò, ricordandosi improvvisamente delle parole del Matto la sera prima. Non gli aveva detto però dove stesse andando.
“Possiamo farcela anche senza di lui.” affermò uncino, con un tono leggermente disgustato. Harry poteva giurare di aver intravisto persino una smorfia sul suo volto, ma l’oscurità non gli dava la certezza.  
Fu l’unica donna del gruppo a rispondere, in modo acido. “E sentiamo, saresti tu l’unico capace di battere Wendy, con quella massa di deficienti che non sanno neanche tenere una spada in mano?”
“Beh..” fece il Capitano, zittendo con una mano quella massa di deficienti che dietro di lui avevano iniziato a sghignazzare e a prendere in giro Iracebeth, dandole della pazza miscredente. Anche se non sapevano esattamente cosa significasse miscredente, ma sembrava loro un buon insulto, l’avevano sentito una volta dal loro leader. “… sicuramente possiamo essere molto più d’aiuto rispetto ad uno completamente andato di testa, il cui scopo nella vita è bollire abbastanza tè per tutti.”
Iracebeth si fermò, voltandosi di scatto molto arrabbiata. Alzò un dito per aria, con gli occhi che trapelavano furore per le parole dell’altro. “Non ti permetto di parlare così di lui. Solo io posso prenderlo in giro.”
Ma il Capitano non rispose, troppo intento ad osservarla e a perdersi in ogni suo piccolo particolare (compresa quella piccola G, che scintillante se ne stava comoda sul suo collo), che per tanto tempo aveva cercato di tenere a mente, per evitare che l’immagine della donna potesse svanire improvvisamente. Il suo più grande desiderio era che lei lo dimenticasse. Voleva che superasse tutto il dolore che le aveva provocato e che smettesse di pensare a lui, fino a quando i ricordi e le ferite non avessero finito di fare male. Ma lui no, non poteva dimenticarsi di lei. Era lei l’unica ragione per cui svegliarsi ogni mattina. Il ricordo della sua pelle chiara, dei capelli rossi e luminosi, delle labbra che tante volte aveva baciato. Non l’avrebbe mai ammesso, ma era riconoscente a Peter Pan per averlo abbandonato in quel Paese, per avergli permesso di conoscere la donna più bella del mondo. Ma queste cose non gliele aveva mai dette a voce alta. E non avrebbe potuto mai più, non dopo tutto quello che aveva fatto.
Un rumore di passi interruppe i suoi pensieri, ma nessuno del grande gruppo si stava muovendo. Era qualcuno che stava marciando, pensò il Capitano. In sincronia, per di più, ma il rumore era troppo forte per essere solo una persona. Sembrava proprio un esercito. I sedici avventurieri si strinsero in un cerchio più piccolo, sguainando le spade e preparandosi all’azione. Harry e Louis, protetti dagli altri essendo gli unici disarmati, si presero per mano, cercando di darsi conforto e di farsi coraggio.
Il suono dei passi era sempre più potente e deciso, e si propagava nell’aria sostituendo qualsiasi bisbiglio tra i pirati.
“Quindi, quale sarebbe il tuo piano?” chiese il Capitano alla donna che nel cerchio era finita proprio accanto a lui. O forse non era per niente un caso, forse continuavano ad essere due calamite, nonostante tutto il tempo trascorso.
“Taci.” lo zittì lei, tenendo ferma la sua spada davanti, pronta all’attacco. Gliel’aveva insegnato lui come maneggiarla. Avevano fatto lezioni di combattimento ogni giorno per due mesi e lei aveva imparato a destreggiarsi egregiamente con essa. Avevano litigato tantissimo, ma anche riso così tanto da ricordarsi il dolore agli angoli della bocca. Iracebeth guardò l’arma che impugnava, la quale rifletteva la sua immagine e quella di Uncino. Non erano così vicino da tanto, troppo tempo e per un attimo le sembrò giusto perdersi in mille ricordi, in silenzio accanto a lui. Ma avevano una missione da compiere e non poteva distrarsi per nulla al mondo.
Da dietro gli alberi si iniziavano ad intravedere delle figure sfocate, rese oscure dalla luce praticamente inesistente della radura. Harry, da dietro tutta la barriera, cercava di vedere di che cosa si trattasse. Dovette alzarsi un punta di piedi, poiché i grossi pirati gli ostacolavano la vista, ma poteva immaginare comunque quale fosse l’esercito di Wendy. Gliel’aveva detto Iracebeth, il giorno prima, che Wendy aveva preso sia il castello che il suo esercito. E nell’ipotesi in cui ricordasse bene la fiaba di Alice nel paese delle meraviglie non poteva che trattarsi delle carte da gioco. E non sbagliò infatti. Da dietro gli alberi iniziarono ad uscire tantissime carte, della loro altezza su per giù, con il corpo fatto letteralmente di carta bianca con disegnato sopra un numero e dei cuori. Dal corpo uscivano delle gambe, delle braccia e persino una testa, con tanto di bocca, occhi, naso e tutto il resto. Si disposero in file ordinate velocemente, circondando il gruppo. Impugnavano delle lance appuntite, rigorosamente rosse, che avrebbero potuto uccidere con un solo colpo ben assestato. Le carte andavano dal numero 2 al 10, ma tra esse si fece spazio l’Asso e il Cavallo, i quali avanzarono di un passo rispetto alla fila delle altre. Mancava il Re, pensò Harry, riflettendo sul fatto che la Regina invece era dalla sua parte. Per fortuna in forma umana.
L’Asso portò alla bocca una tromba rossa che iniziò a suonare. Probabilmente era un inno di battaglia, non avrebbero saputo dirlo i poveri pirati, ai quali invece prudevano le mani dalla voglia di combattere e stracciare tutte quelle stupide carte. Non appena l’Asso finì, il Cavallo di Cuori aprì una pergamena iniziandola a leggere a voce alta.

Editto Primo del regno della Regina Wendy:
Chiunque contesterà questi editti sarà sottoposto al taglio della testa.

Editto Secondo del regno della Regina Wendy:
Chiunque si dichiari nemico del regno sarà sottoposto al taglio della testa.

Editto Terzo del regno della Regina Wendy:
Un’eventuale fuga dal regno sarà punibile col taglio della testa.

Editto Quarto del regno della Regina Wendy:
Chiunque si unisca al Cappellaio Matto, Alice e ex Regina dei Cuori detta Iracebeth sarà sottoposto al taglio della testa.

Editto Quinto del regno della Regina Wendy:
Chiunque riesca a trovare il famigerato Peter Pan, sarà premiato con una lauta somma di denaro.

“Ok basta cavallino.” lo interruppe uncino, alzando la spada contro di lui. “Abbiamo capito.”
“Sono costretto a leggere tutti i 250 editti proclamati dalla Regina Wendy prima di eseguire il taglio della testa. E’ scritto nell’editto numero cinquanta.” rispose il Cavallo di Cuori, non facendo caso all’arma puntata contro di lui e continuando a leggere.
“Oh andiamo!” esclamò la donna, abbassandosi il cappuccio e mostrando il suo volto e i suoi lunghi capelli rossi. “Sono la vostra regina.”
Il Cavallo sembrò fermarsi un attimo, alzando gli occhi dalla pergamena e osservando la donna, solo per un istante. Poi tornò a leggere, dicendo: “Editto sedicesimo del regno di Regina Wendy. Tutte le carte da gioco sono costrette ad obbedire alla nuova regina, altrimenti saranno sottoposte al taglio della testa.”
Iracebeth sospirò. Quello un tempo era stato il suo esercito, mentre adesso invece la stavano condannando a morte.  “Cercherò di non farvi troppo male allora.” sorrise, facendo spallucce. Porse la sua spada ad Uncino, dicendogli di reggergliela. Chiuse gli occhi e portò le mani al petto, in silenzio assoluto. Harry la guardava da dietro. Non capiva se stesse pregando o se stesse facendo qualcos’altro, la sua visuale era limitata.
Ma improvvisamente sentì il terreno sotto i suoi piedi iniziare a tremare, così tanto che Harry temette di perdere l’equilibrio. Si guardò intorno, ma non capiva proprio che cosa succedeva. Nel cielo, le nuvole iniziarono a muoversi velocemente, come se fossero in fermento anche loro per la guerra. Il riccio si sentì toccare la gamba e spaventato fece un passo indietro, toccando la schiena di Louis. Guardò in basso, era un piccolo scoiattolo che sembrava avere dei denti da castoro. E sembrava anche sorridergli.
Un leggero canto in lontananza raggiunse le orecchie del riccio, che tendendole si accorse di averlo già sentito quel canto. Erano i fiori che si risvegliavano, che si muovevano verso il confine pronti a combattere dalla loro parte. Tutta la natura era in movimento per raggiungerli e Harry guardandosi intorno, pensava a quanto fosse meravigliosa. A Londra non vi era tutta quella natura ovviamente. Gli uomini l’avevano spazzata via per far spazio a case, carrozze, le prime automobili, industrie, smog e così via. L’unico posto in cui si poteva stare un po’ al contatto con la natura era l’Hyde Park, ma Harry preferiva non andarci poiché lì vi era la statua di Peter Pan e la situazione era già abbastanza imbarazzante in giro per strada, figurarsi quando le persone lo riconoscevano davanti la sua stessa statua.
Il riccio lasciò da parte quei pensieri, concentrandosi sullo spettacolo che aveva davanti. Erano arrivati anche gli alberi cangianti, che sembravano camminare passo dopo passo, o radice dopo radice, portando folate di vento che facevano volare via le carte. Stormi di uccelli di vario tipo riempirono il cielo, planando bassi per colpire i soldati di carta, per poi rialzarsi in volo in piroette eleganti. Gli scoiattoli-castori, invece, preferivano semplicemente mordere le gambe e farli cadere rovinosamente per terra.
La guerra era iniziata, e anche se quello poteva passare come uno spettacolo meraviglioso, in realtà sarebbe stato solo un massacro.
Iracebeth aprì gli occhi. Era stata lei a chiamare la natura. Si voltò velocemente verso Louis, sussurrandogli qualcosa all‘orecchio, per poi riprendere la spada in mano togliendola ad Uncino.
“Prevedibile.” commentò quest’ultimo su tutta la situazione. Iracebeth non poté fare a meno di sorridere, buttandosi nella mischia per combattere, insieme a lui.
Harry notò che anche loro avevano dei demoni nel cuore, ma piano piano stavano allentando la presa. Poi fu trascinato via da Louis, correndo il più lontano possibile.

***

Avevano corso per un tempo che ad Harry era parso infinito. Dovevano evitare i soldati di carta, per cui ogni tanto dovevano fermarsi dietro gli alberi o i cespugli per nascondersi. Si stavano dirigendo verso il castello, perché Harry aveva la sua missione da compiere. Doveva volare con la polvere di fata, e riuscire ad entrare quindi dentro la fortezza per poter aprire il grande ponte di legno posto all’entrata. Non si erano fermati un attimo e la stanchezza aveva iniziato a farsi sentire. Le gambe di Harry iniziarono a cedere e il cuore gli batteva fortissimo, ma per fortuna erano ormai prossimi al castello. Si fermarono dietro un albero quasi morto, privo di foglie e dal tronco piegato all’ingiù, come se dietro stesse trasportando un fardello enorme. Come gli aveva detto Louis, il castello della regina era circondato da un fiume probabilmente abitato dalle peggiori creature del Paese. Ma fortunatamente le guardie davanti il perimetro erano poche, facilmente evitabili. Probabilmente tutte le altre erano già immerse nella battaglia. O almeno così sperava Harry, cercando di non pensare alla possibilità che fossero dentro ad aspettarli.
“Ok, sei pronto?” chiese Louis col respiro affannato, poggiando le mani sulle spalle di Harry.
No, non lo sono. Ma annuì comunque.
Purtroppo la polvere di fata funzionava solamente con personaggi provenienti da Le avventure di Peter Pan.
Grazie tante, Barrie.
“Devi arrivare nella torre più alta del castello. Da lì cerca di scendere giù, senza farti beccare dalle guardie. Nel corridoio principale troverai la grande manovella per tirare giù il ponte di legno.” spiegò Louis. “Hai capito?”
Harry annuì nuovamente. Non sapeva come sarebbe andata a finire tutta quella storia, ma il pensiero che se fosse morto si sarebbe svegliato nel suo mondo, un po’ lo rincuorava. Il non vedere Louis mai più un po’ meno.
Il ragazzo dagli occhi azzurri gli carezzò una guancia. Fece anche per sporgersi, ma Harry si scostò subito, guardando per terra. Non poteva baciarlo, non poteva proprio. Se qualcosa fosse andato storto, come avrebbe potuto convivere con il ricordo del bacio probabilmente più bello della sua vita? La risposta era semplice: non poteva e basta. Il sapore delle labbra di Louis gli sarebbe rimasto impresso sulla bocca per sempre, come un marchio indelebile pronto a bruciare in ogni istante.
Chiuse gli occhi, appoggiando la sua fronte contro quella di Louis, per scusarsi per il bacio mancato. Respirò a fondo, intersecando le loro dita in modo perfetto, completandosi a vicenda i vuoti delle mani e delle anime.
Peter e Alice.
Harry lo aveva capito fin dall’inizio che le loro erano anime frammentate, che avevano bisogno di essere completate, come puzzle con pezzi mancanti. Aveva cercato a lungo qualcuno che completasse quel gioco che era la sua anima, ma nessuno aveva i pezzi congruenti. E più passava il tempo più i bordi del suo puzzle andavano deteriorandosi, deformandosi e cambiando confini. Ma nonostante quello, aveva trovato i pezzi mancanti, in Louis. Nessuno lo aveva mai fatto sentire così bene, dopo tanto tempo. Dietro il sorriso e gli occhi di Louis, Harry poté finalmente trovare quella felicità così agognata da anni. Ma no, non poteva baciarlo, perché in quel gesto la felicità sarebbe stata semplicemente effimera, come la vita di una farfalla. Harry si chiese se anche le pan farfalle fossero così, come nel suo mondo. Un’esistenza breve, fugace, ma comunque intensa. Avrebbe preferito ventiquattro’ore da farfalla piuttosto che una vita da Harry Davies Styles.
Respirò per l’ultima volta il profumo intenso di Louis, circondandogli il collo con le braccia e stringendolo a sé, solo per un istante, per poi staccarsi e guardare in alto. Nascondeva quelle piccole lacrime che come la sera precedente volevano uscire a fiotti continui, ma non poteva piangere in quel momento.
La sua felicità era effimera, ma voleva che quella di Louis durasse per sempre, per cui decise di concentrarsi sulla sua missione.
L’altro ragazzo aprì il sacchettino bianco, sospirando. “Dovrebbe bastare.” commentò, portandolo sopra la testa di Harry, per poi riversargli tutto il contenuto addosso.
Il riccio si ricordò della polvere che regnava sovrana nella libreria da cui era partito. La polvere di fata era molto simile, con le stesse dimensioni, ma invece di essere grigia e cupa essa era dorata e luccicante, tanti piccoli granellini che si cospargevano sui suoi capelli e sulle spalle.
In un primo momento, sembrò non esser cambiato nulla. Fece spallucce, guardando Louis. “Quindi?” domandò spazientito, aspettando che succedesse qualcosa.
Ma Louis scoppiò in una tenera risata che riempì il puzzle di Harry. Il ragazzo indicò per terra, costringendo il riccio ad abbassare lo sguardo. Non era più per terra.
Harry stava volando.
Si era sollevato dal terreno arido ricoperto di erba secca. Vi erano circa dieci centimetri di differenza e piano piano l’altezza aumentava. Harry spalancò la bocca spaventato. Stava davvero volando! La sensazione era unica e indescrivibile. Non avrebbe saputo spiegare a parole ciò che stava provando, mentre saliva sempre più in alto. Distese le braccia per paura di perdere l’equilibrio, ma notò subito dopo che non ce n’era bisogno. La polvere di fata stava facendo tutto da sola. Harry aveva un groppo in gola per l’emozione e gli doleva il petto per l’ansia, ma tutto quello era una sensazione dolce e piacevole. Non fece caso nemmeno ai demoni, che probabilmente stavano iniziando a cadere giù da lui, incapaci di aggrapparsi ad un cuore che iniziava a riempirsi di felicità.
Era salito abbastanza da superare l’altezza dell’albero che li nascondeva, ma a quanto pareva le guardie non avrebbero mai pensato di guardare in alto per controllare se qualcuno arrivasse dal cielo. Louis, dal basso, iniziò a salutare il suo compagno. “Ti aspetto qui.” mimò con le labbra.
I muscoli di Harry erano ancora immobili, mentre la polvere lo portava sempre più in alto, su nel cielo scuro. Avrebbero dovuto fargli paura quelle nuvole cupe che fungevano da cappa per quel mondo, oscurandone qualsiasi forma di vita. Ma alla base della polvere di fata doveva esserci proprio la felicità, perché era proprio quello che sentiva all’altezza del cuore. Nessun’altra sensazione. Provò a volteggiare, ruotando il torso di colpo, ma per il movimento troppo veloce perse circa mezzo metro di quota. Così decise di non provare a fare l’acrobata. Ma anche con le braccia ferme attaccate al corpo e le gambe dritte, quella sensazione era piacevolissima e la vista ancora di più. Vedeva tutto il castello da una parte, grande con diverse torri e un giardino immenso, che però aveva perso ogni colore. Dall’altra parte invece poteva vedere la battaglia in cui i suoi altri compagni erano mischiati. Aguzzò la vista, ma non riusciva a distinguere più di tanto. Solo qualche macchia bianca che probabilmente erano le carte, qualche albero gigante in movimento che soffiava sbarazzandosi dei nemici e gli animali più grossi. Gli parse addirittura di intravedere un orso e si chiese quale fosse la sua caratteristica stramba.
Il tetto del castello era vuoto. Ad Harry parve chiaro che tutto quello era una trappola, ma anche se avesse voluto scendere da Louis, non avrebbe saputo come fare. Così si rassegnò a raggiungere la torre più alta, che sembrava toccare le nuvole. Si aggrappò alla piccola finestrella di essa, controllando prima se vi era qualcuno dentro. Il campo sembrava libero, così entrò dentro, mentre la magia della polvere di fata terminava e Harry tornava con i piedi per terra.

***

Nel frattempo la battaglia proseguiva, tra feriti e feritori, tra vincenti e perdenti. Nonostante l’arrivo della Natura, l’esercito della regina Wendy se la cavava piuttosto bene, dando filo da torcere ai pirati e agli animali. Le loro lance acuminate erano letali o comunque lasciavano danni immensi nei corpi. Gli alberi erano il punto forte della squadra di Iracebeth. Se con i rami riuscivano a spazzare via una dozzina di carte alla volta, le loro radici si insinuavano viscide tra i combattenti, aggrappandosi ai loro piedi e buttandoli per terra.
Nemmeno Uncino e la stessa Iracebeth se la cavavano male. Le loro spade si muovevano veloci in aria, eleganti e soprattutto precise, pronte ad affondare colpi che strappavano le carte a metà, ponendo fine alle loro vite.
“Dobbiamo avanzare verso il castello!” urlò Uncino alla donna, dando un calcio ad una carta che aveva tentato di attaccarlo, facendola cadere rovinosamente. Iracebeth ordinò a tutti di avanzare, in un grido pieno di grinta. Gli alberi obbedirono, iniziando a muovere le loro radici verso il castello. Ma l’avanzata era comunque difficoltosa, perché più carte eliminavano, più sembravano arrivarne. Iracebeth si pentì di aver formato un esercito così Uncino, quando poteva, la guardava destreggiarsi tra i soldati, facendo dondolare i suoi capelli lunghi. Osservava i suoi movimenti fluidi: era magra e agile, l’arte del combattimento era più facile per qualcuno con una corporatura del genere. Si avvicinò a lei, conficcando la sua spada in una carta che voleva cogliere la donna di sorpresa.
“Devo dirti una cosa.” annunciò il Capitano, continuando a scaraventare la sua grinta sulle carte.
“Ti sembra il momento?” domandò la rossa, tagliando la testa ad un altro soldato.
Combattevano schiena contro schiena, difendendosi implicitamente a vicenda. Erano abituati a farlo, quando stavano insieme. E anche in quel momento, difendersi era la loro preoccupazione più grande. Stavano combattendo l’uno per l’altra e viceversa, non per se stessi.
“Sì.” la liquidò il Capitano, non ammettendo altre obiezioni. “Ciò che ho fatto tempo fa, l’ho fatto per salvarti la vita.”
Iracebeth non disse niente. Restò in silenzio, mentre affondava la spada tra un corpo bianco di carta e un altro. Solo dopo molte carte sconfitte, con tono flebile rispose. “Lo so.”
Uncino rimase talmente sorpreso da fermarsi nel bel mezzo della battaglia. Come faceva a saperlo? Non aveva detto a nessuno del ricatto di Wendy, escluso il Cappellaio il pomeriggio prima. Ma proprio il Matto gli aveva detto che non avrebbe rivelato il suo segreto a nessuno, e anche se era la persona più pazza del Paese, poteva comunque fidarsi delle sue parole.
“Come fai a saperlo?” chiese aprendo le braccia sconvolto. Iracebeth si girò verso di lui e aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo, alzando la spada in aria e affondando un colpo proprio vicino il volto del Capitano, che non si scompose. Dietro di lui, una carta si accasciava a terra per la ferita della spada della donna.
“Lo so e basta.” cercò di concludere il discorso quest’ultima, voltandosi nuovamente per evitare che altri nemici la colpissero alle spalle.
Uncino riprese a combattere, sebbene i suoi gesti fossero qualcosa di automatico. I suoi pensieri erano rivolti alle parole di Iracebeth, che gli tormentavano il cuore e la mente. Di certo le carte erano l’ultimo dei suoi problemi.
“Perché non sei venuta a cercarmi allora?” chiese dopo un po’, mentre l’avanzata proseguiva. Iracebeth si voltò di scatto arrabbiata, puntando la spada contro lo stesso Uncino. Sentiva la lama sul collo, ma non aveva paura di quella. Aveva paura del dolore che vedeva dipinto sul volto della donna, delle lacrime che le bagnavano il volto. Era scoppiata a piangere, per l’ennesima volta, per lui.
“Perché non dovevi farmi questo. L’avremmo combattuta insieme, stupido idiota che non sei altro!” urlò, attirando l’attenzione di tutti. Persino i pirati che capivano una situazione su dieci in quel momento realizzarono che c’era qualcosa che non andava, così si disposero intorno ad Uncino per proteggerlo dai soldati. Se il loro Capitano si era fermato, voleva dire che aveva bisogno d’aiuto.
Uncino deglutì, sentendo il suo pomo d’Adamo sempre più a contatto con la punta della spada. “Dovevo farlo per proteggerti.” sussurrò con voce rauca.
“E non hai pensato che anche io avevo voglia di proteggerti?”
L’uomo restò, per l’ennesima volta, spiazzato. Scostò la spada dal suo collo, ferendosi il palmo della mano, ma non gli importava. Si avvicinò cauto alla donna che irrefrenabile continuava a piangere. Vedeva solo lei. Si trovava nel bel mezzo di una battaglia ma l’unica cosa che vedeva era lei e le sue lacrime. Tutto il resto era sfocato e confuso, fuori dalla sua vista. Le accarezzò una guancia con la mano ferita, mischiando le lacrime con il suo sangue. Non si dissero nulla, ma dopo anni si erano sfiorati e questo bastò ad Iracebeth per calmarsi e concentrarsi sugli occhi neri come la pece dell’altro. Ci si poteva specchiare in quel mar nero di dolore. Era sempre stata abituata a farlo, e anche quella volta lo fece, molto più intensamente. Poggiò la sua mano sopra quello di Uncino, carezzandone il dorso. Ma un boato catturò la loro attenzione e la prima cosa che videro furono i pirati che li avevano protetti stesi per terra, privi di sensi.
L’uomo in bianco sorrideva. Era quella l’ultima immagine che Iracebeth e Uncino videro, prima di perdere i sensi.

***

Il castello era talmente buio che Harry dovette accendersi una candela per vedere qualcosa. Si era ritrovato nella stanza più in alto, ma oltre ad un comodino con la suddetta candela e ad un letto di legno marcio senza nemmeno il materasso, non vi era nient’altro. Eccetto la polvere s’intende. Miliardi e miliardi di granelli grigi si depositavano tra le mura di quella stanza e probabilmente di tutto il castello. Vi erano ragnatele enormi tessute da ragni che ormai avevano perso i colori nelle loro zampette colorate, e che tristi se ne stavano immobili sugli angoli delle pareti a vegliare su quella stanza. Harry portò in alto la candela che teneva in mano su un piattino, per poterli osservare meglio. I loro occhietti trapelavano solo angoscia e malinconia. Gli somigliavano un po’.
Decise di proseguire il cammino, aprendo piano la porta per controllare se ci fosse qualcuno. Ma anche quella volta, la strada era libera. Era la trappola più palese che Harry avesse mai visto e di thriller, fantasy e gialli ne aveva letti davvero tanti. Gli tremavano le mani, tanto che il piattino con la candela rischiava quasi di cadere. Ma trappola o no, doveva scendere, o almeno doveva provarci.
Si chiuse la porta alle spalle, e si ritrovò a scendere una lunga scalinata a chiocciola. I gradini scricchiolavano ad ogni suo passò, così cercò di misurare la forza che poneva ad ogni passo, per evitare di fare troppo rumore. Le pareti del castello erano grigie, ma erano comunque decorate da cornici e quadri, se così si potevano chiamare. Harry immaginò che quelli dovevano essere i quadri che una volta Iracebeth possedeva, ma erano sgualciti, rovinati e strappati. Alcuni rappresentavano una donna con i capelli rossi, altri un uomo con un Cappello verde, altri ancora un ragazzo dai vestiti azzurri. Ma erano tutti rovinati, come se fossero stati stracciati dalla lama di un coltello furioso che non voleva vederli.
Harry proseguì la sua discesa, appiattendosi alla parete e camminando piano per controllare costantemente l’arrivo di qualcuno. Ma il castello era completamente desolato. La scalinata era davvero lunghissima, e Harry ci mise davvero tanto a scendere. Chissà se Louis lo stava aspettando là fuori, chissà se stava bene o se l’avevano preso. Cercò di non pensarci troppo e di fare più in fretta possibile. Non appena le scale terminarono, Harry si ritrovò in un grande corridoio, probabilmente era quello principale. In quello non vi erano decorazioni, ma vi erano grandi finestre da cui si poteva vedere il giardino reale. Harry si affacciò per pochi istanti, ma neanche là vi era alcuna anima viva.
Tanto valeva correre e sbrigarsi.
Corse dritto davanti a sé, sperando che quella fosse la strada giusta per il ponte levatoio. Mentre correva, sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene, facendogli palpitare il cuore velocemente. Non era stanco, perché la voglia di rivedere Louis sano e salvo lo spingevano a correre sempre più veloce. Non aveva mai provato quella sensazione, in quella giornata stava provando davvero di tutto. Harry non era mai stato uno spirito avventuriero, soprattutto dopo aver smesso di credere nelle fiabe.
Ogni qualvolta gli si era presentata una nuova esperienza, lui aveva declinato l’offerta, preferendo rifugiarsi nella sua solita vita monotona, una routine fatta solo di lavoro. Però la tediosità gli dava sicurezza, non voleva rischiare niente in nuove esperienze.
Eppure era là a correre a più non posso, verso la porta di entrata che finalmente intravedeva. Sorrise tra sé e sé, raggiungendo la manovella che la faceva scendere giù, unendo il castello con la terra ferma, creando un passaggio sopra le acque temibili piene di coccodrilli. Mise tutte le sue forze in quell’aggeggio, cercando di sposare la grande manopola che muoveva il marchingegno. Da fuori sentiva i suoni della battaglia, probabilmente la Natura, Iracebeth e Uncino si stavano avvicinando al castello. Il piano stava riuscendo meravigliosamente, ma nella testa di Harry suonava un campanello di allarme.
Non c’erano carte.
Ma quella divenne l’ultima delle sue preoccupazioni, quando con uno spinta più forte e uno scricchiolio sonoro, il meccanismo si attivò, facendo scendere giù la porta che fungeva da ponte, in un forte tonfo. Il castello vibrò per quel forte spostamento d’aria, e così fece Harry. Ma i brividi che gli pervasero il corpo erano dovuti alla vista di Louis, che dall’altra parte del ponte lo aspettava con le mani congiunte.
Non ebbero bisogno di pensarci su, la corsa divenne automatica. Correvano l’uno verso l’altro, più veloci che potevano, attraversando quel ponte che Harry era riuscito a buttare giù, eliminando l’ultimo ostacolo che li divideva. Le membra del ragazzo riccio erano in fermento, coordinate si muovevano velocemente per raggiungere il loro obiettivo, mentre tutto il resto svaniva. Non c’erano coccodrilli che spuntavano fuori dall’acqua, né il suono lontano degli alberi che muovevano le loro fronde e delle carte che urlavano per la loro regina. Louis aprì le braccia in un chiaro invito a stringerlo a sé, ma Harry fu più veloce e gli prese il viso tra le mani, facendo scontrare le loro labbra in un tenero bacio.
Quando si resero conto che finalmente erano insieme, a contatto, Louis si aggrappò al collo di Harry, immergendo le mani nei suoi ricci scomposti. Si assaggiarono, come si fa col piatto più delizioso. Si ubriacarono, come si fa col più pregiato dei vini. Modellarono le loro bocche a seconda delle labbra dell’altro, giocherellarono con le loro mani, cercando di stringersi ancora di più e fare sfiorare più porzioni di pelle possibile. Si persero in quel bacio, approfondendolo piano piano, cercando le loro lingue e iniziando ancora una volta la loro danza. Non c’erano lucciole, perché la luce la sentivano dentro. I loro cuori battevano forte, liberi da tutti i demoni che avevano sempre governato lì. Ma il loro regno era terminato, erano caduti tutti perché non avevano più posti dove stare. Le loro anime erano ormai complete, i pezzi di puzzle erano stati trovati, quindi non vi erano buchi a disposizione per i demoni. Harry sentiva crescere la felicità dentro. Era come volare con la polvere di fata, forse anche più bello. Perché in quel bacio c’era l’amore di due persone che iniziavano a scoprirsi piano piano, che combattevano i loro demoni difendendosi a vicenda, che avevano affrontato tutto quello insieme. Si staccarono per prendere fiato, unendo ancora una volta le loro fronti. I loro occhi erano lucidi di felicità e malizia, mentre sorridevano.
Ma i loro respiri purtroppo non erano l’unica cosa che sentivano. Mischiati ad essi una melodia penetrò dentro loro, immobilizzandoli del tutto. Louis spalancò gli occhi adesso attraversati da un barlume di paura. Harry non capiva, ma tese l’orecchio per ascoltare meglio, in quella stessa posizione.
Era quello il canto di una sirena?
Poi il nulla.

***

“Questo non sarebbe successo se non ti fossi distratto e se non mi avessi posto quella stupida domanda!”
“Oh certo, adesso è colpa mia!”
“Sì, spaccone.”
“Egocentrica.”
Harry venne risvegliato da quelle voci, mentre il sonno svaniva via piano piano, lasciando il suo corpo. Ma quando aprì gli occhi, non si ritrovò né nel boschetto davanti ai Bimbi Sperduti, né sotto la tana del coniglio. Era in un luogo buio, sdraiato per terra. Fece per alzarsi, ma notò che le sue mani erano bloccate dietro la schiena da un paio di manette che gli stringevano i polsi dolorosamente. Non appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, cercò di mettersi sulle ginocchia, analizzando la stanza in cui si trovava. Sembravano proprio le segrete del castello. Accanto a lui, c’era Louis, seduto a gambe incrociato, anche lui con le manette ai polsi, che gli fece un mezzo sorriso per rincuorarlo. Ma c’era ben poco da rincuorare in quella situazione. Appoggiato al muro con le gambe piegate, c’era il Capitano. Le sue manette erano diverse per via dell’uncino che portava. Erano delle catene incastrate sugli avambracci, anziché sui polsi come tutte le altre. In piedi invece, che camminava su e giù per la stanza con le mani unite c’era Iracebeth. Cercava un modo per liberarsi delle manette, mentre discuteva con Uncino, ma proprio non riusciva e questo la faceva sbuffare come un treno.
“Che è successo?” chiese Harry, ricordandosi piano piano del bacio con Louis, arrossendo. Per fortuna era buio in quella stanza.
“Era una trappola.” affermò il Capitano, interrompendo qualsiasi dibattito con la donna. “E noi ci siamo cascati in pieno.”
“Come siamo finiti qua?” domandò ancora Harry, strascicandosi verso Louis.
“Wendy ha usato il canto della sirena per farci svenire e portarci qua. Mentre Iracebeth e il Capitano sono stati presi dal Bianconiglio.”
“Lo farò a fettine quel conigliastro.” commentò Uncino, ma qualsiasi altro insulto venne interrotto dal rumore della porta che si spalancava. Harry socchiuse gli occhi, la luce che proveniva da quella entrata gli dava fastidio. Intravedeva una figura femminile, ma dovette sbattere un paio di volte le palpebre per focalizzare meglio l’immagine.
Era una donna dai lunghi capelli biondi, sistemati in boccoli perfetti che cadevano sulle spalle quasi nude. Con le mani esili teneva la sua gonna ampia, per evitare di sporcarla. Era azzurra e piena di piccole decorazioni bianche.
Wendy sorrideva mentre entrava nella cella.
Al suo seguito, col suo fidato bastone e la bombetta bianca, c’era quello che Harry suppose fosse il Bianconiglio. Il panciotto, gli occhiali e l’orologio da tasca lo tradirono.
“Ben arrivati!” esclamò gioiosa Wendy, con voce squittante. “Spero che la stanza sia di vostro gradimento.”
Ma poi la sua attenzione si focalizzò proprio su di Harry. Si avvicinò in punta di piedi al ragazzo, piegandosi verso il basso per raggiungere il suo viso. Schiuse le labbra, mentre molto attentamente analizzava il viso del ragazzo. Harry non si ritrasse, restò fermo a farsi guardare da quella donna dagli occhi azzurri. Ma non era lo stesso azzurro caloroso di Louis, né quello degli occhi del Cappellaio. Era un azzurro più denso, dalle sfumature quasi scure. Erano occhi pieni di rabbia, ma il sorriso che caratterizzava il volto cercava di nascondere quel sentimento. Wendy si alzò in piedi senza dire nulla ad Harry. Uscì dalla porta delle segrete, ordinando ad alcune carte di fare muovere i prigionieri.
I quattro si ritrovarono a camminare nel grande corridoio del castello con le lance puntate sulla schiena dalle guardie e con davanti Wendy e il Bianconiglio che camminavano mano nella mano. Harry si volto verso il Capitano, accanto a lui, che aveva la faccia disgustata da tutto quello. “Dove ci stanno portando?” gli chiese sussurrando, ma Uncino scosse la testa. Non lo sapeva neanche lui.
“A vedere una cosa meravigliosa, mio caro Peter Pan!” esclamò Wendy, senza nemmeno voltarsi. Si avvicinò alle vetrate del corridoio, poggiando una mano sul vetro. “Avvicinatevi!” Le guardie spinsero i prigionieri verso le finestre, premendo le lance sempre più forte sulle loro schiene.
“Guardate quanto è bello il mio regno.” disse l’attuale Regina, senza staccare gli occhi dalla finestra. Ma ciò che vedeva Harry era solo l’oscurità. Le carte da gioco stavano avendo la meglio sulla natura, nonostante gli alberi cercavano con tutte le loro forze di lottare. Il cielo era sempre più cupo, sembrava quasi che una tempesta fosse in arrivo. Il riccio rabbrividì a quella vista, come poteva essere Wendy felice di ciò?
“Piano ingegnoso, il vostro.” commentò proprio quest’ultima. “Ma sfortunatamente per voi ho richiuso il ponte e a quanto pare senza voi imbecilli la guerra laggiù sembra essere arrivata alla deriva.”
Si staccò dalla finestra, continuando il suo cammino nel corridoio. “Ma venite, dalla sala del trono si vede tutto meglio.”
“Stupida ragazzina.” esclamò Uncino, abbastanza forte da farsi sentire dalla diretta interessata, che si scostò i capelli biondi dal volto, ma non disse nulla. Salirono di tre piani e arrivarono davanti ad una grande porta di legno, con due grandi maniglie a forma di cerchio, che Wendy prese in mano per spingere e aprire l’entrata. La prima cosa che Harry vide fu una grande vetrata alta quanto le pareti, da cui si intravedeva il cielo nero. Era una sala enorme, al cui centro vi era un trono d’oro intarsiato, che un tempo era appartenuto ad Iracebeth. Ma nonostante quel posto fosse di Wendy adesso, vi era sopra qualcun altro.
Una tazzina retta da dita affusolate in un modo prettamente inglese. Una bottiglia di rum nell’altra mano, il cui vetro brillava con la controluce della vetrata. Un maglioncino nero che contrastava con l’oro della poltrona e delle gambe svaccate sul bracciolo di essa, in una posizione tutt’altro che regale. Capelli color cenere nascosti da un grande cappello verde e una sciarpa arancione che penzolava scomposta fino a strisciare per terra.
Due occhi color ghiaccio che fecero rabbrividire sia il Bianconiglio che Wendy.
“E’ qui la festa? Ho portato l’alcol!”

***

Erano rimasti tutti a bocca aperta, non appena videro il Cappellaio Matto seduto scompostamente sul trono. Iracebeth aveva iniziato ad inveirgli contro, ma in realtà era felice di vederlo.
“Che cosa ci fai tu qui?” domandò Wendy tra i denti, visibilmente arrabbiata. Il Bianconiglio le si parò subito davanti, per difenderla da eventuali attacchi dal nuovo entrato in scena.
“Non mi avete invitato, siete dei maleducati!” rispose il Matto, alzandosi dal trono e camminando verso gli altri, barcollando e saltellando di qua e di là.
Wendy schioccò le dita, ordinando implicitamente alle carte di prenderlo, ma il Cappellaio urlò “Alt” per fermarli. “Prima che mi uccidiate ho bisogno di fare un discorso, se vostra maestà permette.”
Wendy sembrò titubante, ma poi annuì. In fondo cosa poteva fare un solo uomo contro tutti loro? Ordinò alle carte di fermarsi, e pose tutta la sua attenzione sul cappellaio.
L’uomo si versò un bicchiere di rum, iniziando a sorseggiare dalla tazzina.
“Fin da quando il nostro caro Peter Pan ha fatto nuovamente comparsa in questo mondo, avevamo escogitato un piano perfetto.” iniziò il Cappellaio, guardando tutti negli occhi. “Doveva volare e entrare qua per aprirci la porta d’entrata. Ma ahimè, purtroppo Wendy tu sei così intelligente e furba che non siamo riusciti a farla franca.”
In quelle parole c’era così tanto sarcasmo che Wendy assottigliò gli occhi per la rabbia.
“Tuttavia,” continuò l’uomo, girando su se stesso euforico. “nessuno di noi aveva preso in considerazione una remota possibilità che avrebbe potuto cambiare il destino di tutti noi.”
“Quale sarebbe?” chiese Wendy, troppo presa da quelle parole per far caso a quanto il Cappellaio fosse fuori di testa, con i suoi movimenti scostanti e i suoi giri da ubriaco. Non poteva permettersi una falla sul suo piano, e se c’era, aveva bisogno di sapere qual era.
“L’amore.” sussurrò il Cappellaio, fermando la sua danza senza senso e fissando i suoi amici. Prima Iracebeth e Uncino, che si guardarono di sottecchi, poi Louis e Harry che invece erano palesemente persi l’uno negli occhi dell’altro. Il Matto li guardò orgoglioso, lasciando cadere la bottiglia di rum per terra e portandosi la mano al petto per la gioia. “Ah! Quanto sono felice per voi!” esclamò. Poi si accorse del macello che aveva combinato col rum, guardandolo colpevole. “Ops! Pazienza, alla prossima festa lo portate voi l’alcol.”
Wendy non capiva. Perché l’amore avrebbe dovuto essere di ostacolo alla sua vendetta?
“Vedi Wendy. Nessuno di noi aveva previsto che Peter Pan si sarebbe innamorato di Alice nel Paese delle Meraviglie. Guardali.” disse il Cappellaio, indicandoli. I diretti interessati arrossirono un po’, ma non staccarono le catene dei loro sguardi. “Abbiamo avuto la sfortuna di incontrare un Peter Pan che non crede nelle fiabe, però la forza dell’amore è più potente di qualsiasi altra fiaba.” Il Cappellaio si avvicinò a Wendy, affrontandola da vicino. Le sorrise, con gli occhi color ghiaccio che luccicavano sia per l’alcol che per la gioia.
“Harry, cosa mi hai detto ieri sera prima che me ne andassi?”
Il riccio cercò di ricordarsi la conversazione avuta con il Cappellaio la sera prima. Si erano detti tante cose, ma l’ultima frase che aveva pronunciato prima che l’uomo lasciasse la stanza era stata “Io credo in Louis.” E lo ripetè ad alta voce, davanti a tutti i presenti.
Louis gli regalò il sorriso più bello del mondo, ma le manette e le lance puntate contro impedivano loro di abbracciarsi. Iracebeth urlò, era un grido di liberazione di gioia e di felicità. Persino Uncino si concesse un mezzo sorriso, capendo la situazione.
Solo Wendy era rimasta con gli occhi sgranati, davanti al Cappellaio che le si era avvicinato all’orecchio, poggiandovi sopra le sue labbra morbide.
“E se Peter Pan crede in Louis, o anche solamente in una singola cosa di questo mondo, vuol dire che crede anche nelle fate. Te lo può giurare.”
Un grosso boato riempì la stanza, costringendo tutti i presenti a coprirsi le orecchie, o almeno quelli che non erano ammanettati. Un forte vento entrò dalla grande finestra che era andata in pezzi. Harry si sforzò di aprire gli occhi e vedere cosa stava accadendo. Il vetro si era frantumato in mille pezzi che ora erano sparsi sul grande pavimento della sala. Piccole luci argentate venivano riflesse in quei cocci rotti. Harry spalancò la bocca davanti a quello spettacolo.
Erano fate.
Piccole creature minute, dalle ali argentate svolazzavano dentro la grande sala. Sembravano delle minuscole donnine che al loro passaggio lasciavano strisce di luce dorata che illuminava la stanza. Erano di tutti i tipi, ce n’erano alcune con i capelli rossi e corti, altre castane con gli occhi verdi e così via. Indossavano abitini così sottili che Harry avrebbe potuto paragonare alla grandezza del suo dito. Veloci, le fatine liberarono i prigionieri dalle manette e crearono delle gabbie fatte di luce per le carte, Wendy e il Bianconiglio. Erano delle vere e proprie prigioni, più o meno della forma delle gabbie per uccelli. L’uomo in bianco provò a toccare una sbarra di luce, ma una scossa elettrica lo percorse, ferendogli la mano.
Erano davvero tantissime, le fatine. Alcune di loro lasciarono la sala, sicuramente per raggiungere il centro della battaglia e porre fine alla guerra. Il cielo iniziava a schiarirsi al loro passaggio, mentre le nuvole iniziavano ad abbandonare la loro casa. Harry si chiese quale di quelle piccole donne fosse Campanellino, ma la riconobbe subito, a pelle. Volteggiava nella sala più in alto delle altre, in modo più veloce ed euforico. Aveva i capelli biondi e corti e indossava un abitino verde. Planò verso Harry, fermandosi proprio davanti al suo volto. Il riccio non poté fare a meno di sorridere. “Ciao.” la salutò caloroso. La fatina rispose qualcosa nella sua lingua ed ovviamente Harry la capì. Era pur sempre Peter Pan, e il linguaggio delle fate era comprensibile alle sue orecchie. L’aveva salutato di rimando.
Wendy era rimasta immobile con la bocca spalancata. Tutto il suo regno stava cadendo a pezzi e il suo corpo non si era mosso di un millimetro. Tutto ciò che aveva guadagnato in quegli anni, stava svanendo davanti i suoi occhi. La rabbia s’impossessò di lei, il suo volto divenne più cupo del solito, mentre un’aurea scura le avvolgeva il corpo.
“Oh no.” sussurrò il Cappellaio guardandola “Tappatevi le orecchie!”
Wendy emanava una potenza devastante, tanto da riuscire a distruggere la gabbia di luce creata dalle fate. E poi un dolce canto riempì tutta la sala.
Uncino e Iracebeth riuscirono a coprirsi le orecchie prima che il canto li prendesse, così come Harry e Campanellino. Ma Louis si era allontanato troppo dal Cappellaio e non aveva sentito l’ordine dell’uomo. Voleva guardare cosa stava succedendo fuori, così si era avvicinato al grande varco lasciato dal vetro ormai in frantumi. Ed era rimasto immobile, con gli occhi pieni di paura e il volto verso gli altri. Il Canto della Sirena lo aveva preso.
Tutto quello che successe dopo fu talmente veloce che nessuno di loro realizzò a pieno la situazione. Wendy si avvicinò ad Harry, prendendolo per il collo e sollevandolo con grande forza dal pavimento.
“Sei tu ad aver causato tutto questo dolore.” disse, piena di rabbia, digrignando i denti. I suoi occhi erano neri, l’azzurro era scomparso per lasciar spazio al puro odio. Wendy era diventata un mostro, da quando aveva assorbito l’energia della sirena. Aveva aumentato la sua potenza, quadruplicandola e aveva anche imparato il Canto della Sirena. Ma aveva anche perso tutta la sua umanità. La persona che Harry aveva davanti non era più la dolce Wendy di J.M. Barrie. “Adesso sarai tu a soffrire per amore, esattamente come ho sofferto io.”
Lo lasciò andare, facendolo cadere rovinosamente a terra. Harry si toccò il collo ferito, cercando di ritrovare l’aria per respirare. Ma ciò che vide non solo gli tolse il fiato, ma fece fermare il suo cuore. Wendy si era diretta verso Louis, immobile per via del canto e con un grosso pezzo di vetro preso da terra, lo trafisse dritto nel petto. Louis rimase fermo, mentre il sangue si cospargeva sul coccio e sulla mano della donna, che assetata di vendetta continuava a ruotare il vetro per fargli più male. Poi lo spinse indietro, fuori dalla finestra.
L’ultima cosa che vide Harry furono le lacrime sul volto del suo amato, prima di iniziare a correre più veloce che poteva.
Pensieri felici.
Louis tra i libri del retrobottega, tra la Medea e l’Antigone, tra Cime tempestose e Orgoglio e pregiudizio, guance arrossate e occhi brillanti.
Pensieri felici.
La mano di Louis sulla sua coscia, per dargli coraggio.
Pensieri felici.
La danza sotto le lucciole e il palpitare dei loro cuori.
Pensieri felici.
I loro puzzle che si completavano.
Pensieri felici.
Il loro bacio dolce dal sapore di speranza.

Sorpassò Wendy e spiccò il volo.

La bionda ebbe a malapena il tempo di voltarsi che si ritrovò con una spada conficcata nella pancia. Era stata Iracebeth a vendicare Peter Pan. A sangue freddo e con un’espressione durissima in volto aveva colpito la donna, guardandola piegarsi per il dolore sotto i suoi piedi. Le labbra di Wendy tremavano, gli occhi neri iniziarono a tornare come prima, azzurri. Era stata una donna cresciuta troppo in fretta, e adesso stava tornando la bambina che era un tempo, prima di assorbire l’energia della sirena. Ma ormai era troppo tardi perché la spada di Iracebeth si era tinta di rosso. Provò pietà per lei, ma non rimpianto. Non si era pentita di averla uccisa, bisognava porre fine a tutto per tornare alla pace del regno. Il cielo era ormai schiarito e gli alberi e la natura del giardino reale stavano tornando al vecchio vigore, colorandosi di una nuova veste e abbandonando gli abiti grigi che l’oscurità di Wendy aveva portato. Quando quest’ultima si accasciò a terra priva di forze, Iracebeth estrasse la spada insanguinata e la lanciò lì accanto. Si piegò verso di lei e le chiuse le palpebre in un ultimo gesto di pietà. Poi guardò sotto, nel giardino, per vedere cosa stesse succedendo.

Non appena Harry si era lanciato dalla finestra, aveva visto Louis, ancora nella stessa posizione che precipitava. Aveva teso le braccia verso di lui, cercando di non farsi offuscare la mente da quell’immagine dolorosa. Doveva tenersi stretti i pensieri felici, per volare e salvarlo. Aumentò la velocità, chiudendo gli occhi e sfiorando la mano di Louis fredda come il ghiaccio, per poi riuscire a catturarlo tra le sue braccia. Era durato tutto un secondo, ma quando Harry se lo ritrovò tra le braccia, gli sembrò un’eternità. Era lì, con lui, pronto a proteggerlo con i suoi pensieri felici. Non ne aveva mai avuti, ma da quando era finito nel Paese delle Meraviglie, era sempre stato Louis la sua fonte di felicità. Aveva messo da parte tutti i demoni, li aveva scacciati via e per salvarlo aveva pensato a tutti i ricordi impregnati di gioia. Ed aveva volato, per Louis. E lo aveva salvato dallo schianto col terreno. Ma non poteva salvarlo dal vetro conficcato nel petto. Atterrò sul giardino cadendo sulle ginocchia per il troppo sforzo. Continuava a tenerlo tra le braccia, stringendoselo al petto. Louis mosse la bocca, la magia di Wendy era ormai terminata, ma il ragazzo non aveva comunque la forza di muoversi. “Ti prego resisti.” gli sussurrò Harry scoppiando a piangere. Gli carezzò le guance, scostandogli i capelli del viso. Gli occhi di Louis stavano diventando sempre più spenti, mentre la luce della vita si affievoliva sempre di più. “Harry..” sussurrò con le poche forze che gli erano rimaste. Provò persino a sorridergli, mentre Harry gli poggiava la testa sull’erba ormai fresca e rinnovata, sotto il sole splendente. E mentre il Paese tornava alla vita, Alice la perse, chiudendo gli occhi. “Ti prego!” urlò più forte Harry, piegandosi sul suo volto, bagnandoglielo con le sue lacrime. Ma ormai il battito si era fermato e i loro respiri non si mescolavano più tra loro. Appoggiò la fronte su quella di Louis, ma era fredda e il puzzle iniziava a dividersi di nuovo, rompendosi irrimediabilmente.

Tic Toc l’orologio canta
e il Matto di paura ne ha tanta.
Qualcuno domani cadrà
e tra le braccia di un altro morirà.

Uncino abbracciò Iracebeth da dietro, mentre la donna piangeva guardando quella scena dalla finestra. Louis era sempre stato il suo migliore amico insieme al Cappellaio e perderlo era devastante per lei.  Poggiò la testa sul petto del suo Capitano abbandonandosi alla disperazione.  
Il Cappellaio li guardò. E guardò anche giù, nel giardino, mentre Harry urlava preghiere inutili. Deglutì, mentre con le mani in tasca si dirigeva verso il centro della sala. Campanellino lo raggiunse e l’uomo le sussurrò qualcosa all’orecchio.
“E’ questo che vuoi gattaccio?” urlò, guardando in alto e attirando l’attenzione del pirata e della rossa. “Una vita per una vita. Mi sembra lecito.” sussurrò.
Iracebeth si staccò dal Capitano, avanzando qualche passo sconnesso verso il Cappellaio, con le mani giunte al petto. “Non farlo, ti prego.”
Il Cappellaio le sorrise, come forse non aveva mai fatto. I suoi erano sempre stati ghigni di scherno, ma con le lacrime agli occhi le sorrise sinceramente. Però nessuna di quelle lacrime scese sul suo volto, rimasero incastrate in quei ghiacciai. Guardò la sua amica in modo orgoglioso, come anche aveva fatto prima.
In fondo il gatto gliel’aveva predetto, quello doveva succedere e quello aveva deciso di fare. Avrebbe sacrificato la sua vita, pur di salvare Louis. Perché l’amore meritava di vivere. Il Cappellaio invece era sempre stato solo. Non aveva nessuno con cui condividere quel sentimento, se non i suoi più cari amici. Ed era questo che voleva per loro: la felicità. Rossa l’avrebbe trovata con Uncino e Louis con Harry. Avrebbe preso quella scelta anche un milione di volte, senza pentirsene neanche una volta.
Iracebeth lo raggiunse piano, ma ormai il Cappellaio aveva deciso. Si sporse verso di lei, carezzandole una guancia bagnata. “Stammi bene.” le sussurrò, ma la donna non riuscì a replicare per le troppe lacrime e i singhiozzi. Gli prese la mano che le aveva accarezzato la guancia e la baciò, poggiando le sue labbra morbide sulla pelle chiara del Cappellaio, lasciandogli anche la traccia di rossetto. Poi la lasciò andare, mentre le gambe le cedevano facendola cadere per terra disperata.
Il Cappellaio fece un passo indietro, mentre con lo sguardo cercava il Capitano. “Prenditene cura.” gli disse, riferendosi alla sua amica. Poi guardò in alto, chiuse gli occhi e Campanellino gli volò accanto, baciandogli la fronte per dirgli addio. Il resto delle fate lo avvolse in un cerchio, iniziando a ruotare velocemente per creare un fascio di luce che lo copriva del tutto. Era stato il Cappellaio a chiamarle, le fate. Dopo che Harry aveva detto ad alta voce di credere in Louis, il Cappellaio aveva realizzato che le fate erano vive e le aveva trovate, una per una. Adesso proprio quei piccoli esseri gli stavano togliendo l’energia vitale, girandogli intorno. Era una morte dolce, pensò Uncino. In tutti quegli anni, non aveva visto niente di più eroico. Il giro delle fate terminò con un grande sprazzo di colori, un grande raggio iridato che costrinse sia Iracebeth che il Capitano a chiudere gli occhi.
L’attimo dopo, le fate erano volate attraverso la finestra e il Cappellaio era rimasto al centro della sala, accasciato per terra e privo di vita. L’urlo disumano che lanciò Iracebeth fece tremare tutto il Paese. Gattonò verso di lui, poggiando la testa sul suo maglioncino nero e piangendo tutte le lacrime che aveva in corpo. Uncino le andò dietro, abbracciandola e lasciandola sfogare, mentre insieme commemoravano con le lacrime l’unico vero eroe delle fiabe, che non avrebbe più ordinato al popolo del Paese di prendere il tè delle cinque, né avrebbe più raccontato storie strambe ai Bimbi Sperduti. Ma il ricordo di quell’uomo, sarebbe rimasto impresso nelle menti di tutti, grandi e piccini, umani e non, in tutti i luoghi del Paese, dell’Isola che non c’è e anche della vera realtà.

Tic Toc, le lancette della vita schioccano
ma quelle del Matto si incantano
in un attimo immobili e silenziose
nel giorno dalle nuvole piovose.


Le fate raggiunsero Harry e da quel gruppo fu Campanellino ad avvicinarsi a lui. Il riccio era così disperato che non aveva nemmeno sentito Iracebeth urlare. Stava ancora piangendo la morte del suo amato, quando la fatina minuta lo costrinse ad allontanare il volto da quello di Louis. Harry si strofinò gli occhi bagnati e stanchi, non capendo cosa voleva fare Campanellino, la quale si mise in piedi sul petto squarciato di Louis. Appoggiò le sue piccole manine su di esso, dalle quali uscì la polvere magica che in poco tempo risanarono la brutta ferita. Harry si asciugò le lacrime, mentre il cuore iniziava a battergli forte e la speranza ritornava. Campanellino mosse le ali argentate e volò di qualche centimetro, raggiungendo la fronte di Louis. Poggiò anche lì le sue mani e il ragazzo fu avvolto da una luce colorata. Sembrava un arcobaleno.
Louis aprì gli occhi l’istante dopo e incontrò la faccia sconvolta del povero Harry che non riusciva a dire nulla. I suoi occhi erano tornati azzurrissimi e vivaci, mentre il respiro era tornato regolare. La sua pelle prendeva nuovamente colore e il battito del cuore riprese. Quello di Harry invece si era quasi fermato per la troppa gioia.
Louis era lì vivo tra le sue braccia e non gli importava più di nulla.
Non sapeva che il Cappellaio aveva sacrificato la sua vita per ridarla a Louis, né che al Castello Iracebeth e il Capitano erano distrutti dal dolore. Non sapeva che Wendy era morta e che la guerra era finita, perché tutto ciò che importava lo teneva stretto tra le braccia.
“Harry..” sussurrò Louis, sorridendogli.

Harry..

Harry..

“Harry!”
Il riccio venne svegliato dalla voce stridula di una donna che non conosceva. Aprì gli occhi e le immagini davanti a lui erano sfocate. Capì di essere sdraiato, ma non capiva dove si trovasse. La luce era troppo forte e dovette sbattere diverse volte le palpebre per focalizzare il tutto. “Signor Styles!” ripeté la donna davanti a lui. Aveva i capelli rossi e assomigliava leggermente ad Iracebeth, notò Harry. Indossava un abito grigio, un vestito che aveva visto diverse volte nelle vetrine dei negozi di Londra.
Il riccio cercò di sollevarsi con le braccia, aiutato da altre persone. Davanti a lui, c’era un uomo abbastanza anziano, con degli occhiali più grandi della sua faccia, che sembrava una tartaruga del Paese.
Era il proprietario della libreria. Era tornato indietro nella sua realtà.
La testa gli vorticava e sentiva tutti i muscoli indolenziti. “Che è successo?” chiese.
“E’ svenuto Signor Styles! Sarà stato sicuramente un abbassamento di pressione.”
Si guardò intorno. Era circondato da molte facce e dietro esse poteva intravedere delle sedie vuote. Era nella sala conferenze della libreria, dove prima di entrare nel Paese delle Meraviglie si era tenuta la mostra delle fiabe.
Harry spalancò gli occhi, alzandosi in piedi di scatto. Un capogiro lo travolse, impedendogli di camminare e facendolo cadere di nuovo a terra. “Datemi uno specchio!” urlò. La signora con i capelli rossi leggermente sbigottita ne tirò fuori uno dalla borsa, uno piccolo e maneggevole, porgendolo ad Harry.
Ciò che vide non gli piacque. Le rughe nel suo volto erano tornate, i segni del tempo erano di nuovo visibili. Aveva di nuovo trent’anni. Provò di nuovo ad alzarsi, questa volta con più successo e allontanandosi dal gruppo si diresse verso il retrobottega. Ma non c’era nessun Louis ad aspettarlo, nessun demone da schiacciare. Le avventure di Peter Pan erano lì al loro posto e niente di tutto ciò che Harry aveva visto o fatto era stato reale.
Era solo frutto della sua immaginazione. Si appoggiò allo scaffale dei libri per bambini, cercando di respirare a fondo. Era ancora tutto lì, nella sua testa. Il ricordo del Paese delle Meraviglie era così vivido da riuscire a ricordarsi ogni minimo dettaglio.
Harry non poté fare a meno di scoppiare a piangere.

Una settimana dopo.

Erano passati giorni da quando era svenuto durante la mostra. Gli avevano spiegato che mentre il proprietario faceva il suo discorso, lui era caduto sulla sedia sudato, accasciandosi per terra privo di sensi. Il calore della stanza, l’abbassamento di pressione e la tensione dovuta a quel momento avevano contribuito allo svenimento del povero Harry.
Ma da quel giorno, ogni suo pensiero andava al Paese delle Meraviglie e soprattutto a Louis. Camminava per strada e immaginava di essere dentro quel mix di fiabe, ancora una volta, accanto a Louis. Avrebbe rifatto tutto da capo, pur di assaggiare un’ultima volta le sue labbra. Non gli aveva detto nemmeno addio.
Si dette mentalmente dello stupido, in fondo Louis non era mai esistito. Però qualcosa in lui era cambiato. Il sogno l’aveva illuso ancora una volta, era vero. Però le sensazioni che aveva provato erano state così piacevoli che ne era comunque valsa la pena. Era tornato bambino in quel sogno. Si era ricordato di quando sua madre lo stringeva a sé, raccontandogli Cappuccetto Rosso o Biancaneve e i Sette Nani. Stare con lei era la cosa più bella del mondo, mentre ascoltava parole in cui aveva smesso di credere quando era arrivato il dolore. Quando era cresciuto.
Era passato dal fioraio, comprando quattro girasoli lucenti. Ne aveva lasciato uno nel suo monolocale al centro di Londra, sopra il cuscino. Una altro lo aveva lasciato alla sua casa editrice, dove in un biglietto aveva scritto che la prossima pubblicazione sarebbe stata un libro di fiabe. Per lui non c’era più speranza, la vita lo aveva fatto soffrire così tanto che non sarebbe mai guarito. Ma per tutti i bambini del mondo che avrebbero letto le fiabe sì.
Tutti prima o poi crescono. Harry aveva fatto l’errore di crescere troppo in fretta, smettendo di credere nelle fiabe. Ma gli altri bambini non dovevano farlo. Dovevano aggrapparsi alle fiabe più forte che potevano, dovevano sognare mondi sconosciuti e personaggi eroici.
Passò da Hyde Park, con i due girasoli rimasti. La statua di Peter Pan si ergeva lucente sotto il sole. La osservò dal basso, sorridendo. Un tempo anche lui era stato davvero Peter Pan. Ma non perché era stato scelto come modello da J.M. Barrie, ma perché aveva combattuto accanto al Capitano Uncino e alla Regina di Cuori. Detta così probabilmente nessuno gli avrebbe creduto, ma non ci fece caso, ne andava orgoglioso lo stesso. Lasciò un girasole sotto la statua e camminò ancora.
Voleva far visita ad una persona, prima di fare ciò che aveva programmato. Abitava in uno dei quartieri più belli di Londra. Le villette erano grandi con dei giardini ben curati, le persone erano amichevoli e tutti sorridevano. Si diresse al numero 50 di quella via che stava percorrendo e si fermò davanti alla staccionata di legno bianco.
Nel giardino davanti la casa vi era un’anziana signora che piegata in basso stava aggiustando le aiuole. Si sistemò il cerchietto nero tra i capelli ormai grigi, mentre con l’altra mano coperta dal guanto sistemava il terreno per piantare dei piccoli fiori. Non appena alzò lo sguardo verso Harry, il sole illuminò un volto rugoso di una donna che ormai aveva superato gli ottant’anni. Harry gli sorrise, lasciando il fiore sul marciapiede, davanti la staccionata bianca e andandosene via.
La signora non capì, ma probabilmente lo avrebbe fatto il giorno dopo, leggendo il quotidiano. Perché, in fondo, chi poteva capire Harry Davies Styles meglio di Alice Liddell?
E poi Harry giunse a destinazione. Aveva attraversato Sloane Square con calma, godendosi i raggi di sole che gli baciavano il volto e osservando le persone che fugaci gli passavano accanto. Entrò dentro la stazione. Non c’era molta confusione, Harry non aveva scelto un orario di punta. Raggiunse la linea gialla di avvertimento, per evitare che qualcuno si sporgesse troppo. Harry la superò, con un sorriso in volto e una gamba verso il vuoto.
Per lui non c’era più speranza, ma Peter e Alice avrebbero comunque alimentato quella di tutti i bambini del mondo.

Questa non è una fiaba.
Ma mi piace pensare che lo sia.


Peter Llewelyn Davies (1897-1960)
Alice Liddell (1852-1934)










*Citazione di John Logan, autore della commedia Peter & Alice.

In realtà non ho molto da dire in queste note, credo che il finale e la pagina di Wikipedia di Peter Davies si spieghino da soli. Ho voluto raccontare la sua storia in chiave fantasy, basandomi sulle disgrazie di quel povero uomo che per anni ha dovuto convivere all’ombra del personaggio di Peter Pan. Personalmente avrei voluto farla finire bene, ma Wikipedia per fortuna mi ha illuminato il cammino e sono tornata al buon sano e vecchio angst. In realtà Davies si suicida all’età di 60anni, ma ci tenevo a fargli incontrare almeno una volta Alice Liddell, e dato che lei muore nel ‘34 dovevo affrettare i tempi. Non credo ci siano molte spiegazioni da dare: i nomi che ho scelto sono tutti della versione italiana delle fiabe. Il nome Iracebeth è stato gentilmente preso in prestito dal film di Tim Burton, così come quelli dei Bimbi Sperduti sono stati presi dalle varie rappresentazioni cinematografiche (tra cui Hook Capitano Uncino) e da Kingdom Hearts. Proprio da quest’ultimo ho preso l’immagine dei demoni. Dovete immaginarli, parlo con voi nerd, come gli Heartless. Piccoli e viscidi e neri e blah.
I luoghi descritti del Paese delle Meraviglie sono quelli che Carroll ci presenta, compresi il castello della Duchessa Brutta e il mare della Falsa tartaruga ecc.. Ho voluto sorvolare invece sulle implicazioni sessuali e di pedofilia che svolazzano intorno alle figure di J.M. Barrie e di Lewis carroll. Immagino sappiate tutti la storiella che c’è dietro, ma a parte leggeri riferimenti in corsivo non ho voluto assolutamente approfondire il discorso, limitandomi a circoscrivere il dolore di Harry intorno alla perdita della sua famiglia. Ma sì, c’è da considerare anche il male fisico provocatogli da J.M. Barrie. Dalla commedia di Logan ho preso solo l’input, ovvero la mostra di fiabe. In realtà la rappresentazione del commediografo ruota tutta intorno alla figura di Alice Liddell ormai ottant’enne che riflette sulla sua vita e fa un’introspezione di sé aiutata da Peter. Non so perché io abbia scelto Louis come Alice e Harry come Peter. Probabilmente perché il colore dei loro occhi era uguale. So che vi lamenterete del fatto che Louis era un Peter Pan migliore, ma cazzi miei!
Ho iniziato a scrivere questa cosa a Marzo e finalmente l’ho finita e un po’ sono contenta. Anche se è la storia più sconclusionata che io abbia mai scritto, mi sono affezionata ai miei personaggi.
A proposito di questo, per descriverli ho utilizzato degli attori veri, ispirandomi a loro. Ovviamente ognuno se li immagina come vuole, ma se volete saperlo per il Cappellaio ho pensato a Dane Dehaan (ovviamente), per Iracebeth ho pensato a quel fiore di Karen Gillan, per il Capitano ho scelto Pedro Pascal e per la Leprotta Marzolina (anche se si vede poco) ho scelto Gemma Artenton.
Non so più che dirvi, spero vi sia piaciuta.
Un bacio,
Cristina.
   
 
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