Anche
se siamo diversi voglio contemplare
questa luna con te
They
thought I was too
young to rule the land
Just as they failed to understand how to rule
My time has come
C’era
una volta -
c’era stata quando gli altri non c’erano, e adesso
c’era ancora, una volta dopo
l’altra dopo l’altra.
Alcuni,
che sapevano
che lei c’era da prima ma per cui il prima
era un concetto ancora troppo piccolo e acerbo, dicevano fosse nata
dalla terra
battuta e spianata dai carri di Freyr, fertile e scura, benedetta dagli
dei.
Altri, vecchi saggi che ancora non si avvicinavano abbastanza alla
verità,
dicevano fosse nata col mondo, dal fuoco e dal ghiaccio, nel sangue e
nella
carne, quando gli uomini mortali avevano ancora corteccia ruvida per
pelle e
resina nelle vene.
Lei aveva
capelli
come oro pallido e occhi duri e brillanti come ghiaccio colpito dal
sole, e
parlava poco o non parlava per nulla e, in ogni caso, non diede mai
risposta
alla domanda della sua origine. Non lo disse agli uomini devoti che la
vedevano
eternamente giovane e fresca e la chiamavano Madre della loro terra -
benché
madre non fosse mai stata - e non lo disse al re che sentì
le voci reverenti di
quegli uomini arrivare fino a sud e così la volle al suo
fianco in Uppsala tra
le sale e i templi.
Lei
accettava le lodi
e le preghiere con un sorriso che non era in realtà
così freddo come poteva
apparire, e forse era perfino divertito, perché non era la
Madre della terra ma
la terra. E
anche quando ebbe il suo
seggio alla corte del re, continuò a viaggiare nel resto del
regno, perché la
sua anima non era mai in un solo luogo.
Lei - che
chiamava se
stessa Svea Rike, poiché era Svealand e Norrland e
Götaland e i cuori di tutti
gli Svear che abitavano in quelle terre - non era una donna come le
altre.
Era alta
e forte,
orgogliosa e ostinata e coraggiosa, e queste erano le
qualità che la gente che
aveva intorno apprezzava, talvolta perfino amava. Ma non aveva mai
imparato
l’arte del fuso e del telaio, non sapeva intrecciare rune tra
i fili di lana di
una camicia per proteggere né chiamare gli spiriti con una
canzone per
indovinare il futuro. E se perfino Hervor figlia di Angantyr si era
infine
stancata delle sue avventure di sangue e di mare, se anche Lagertha e
Brynhildr
si struggevano per amore di splendidi eroi, Svea indossava unicamente
abiti
maschili e non sembrava amare nessuno degli uomini del popolo.
Per la
sua gente,
Svea era una donna-non-donna, così come i sacerdoti di Freyr
con le loro gonne
e le campanelle erano uomini-non-uomini. Per i superstiziosi era una
Valchiria,
per i maligni che avevano abbastanza coraggio da parlare alle sue
spalle una
donna-troll, ma per tutti era diversa,
inumana - e almeno questa parte, dopotutto, era vera.
Svea non
si
preoccupava delle opinioni del popolo, però,
perché il suo sguardo gelido era
lontano, rivolto alle onde salate, e le sue orecchie erano
già piene del quieto
respiro della marea.
- Non ti
seguiranno -
le disse suo fratello un giorno, le mani grandi e forti che si
muovevano agili
sulla scacchiera del tafl.
Suo
fratello era Danmǫrk
e veniva dal sud, da una terra piatta e
piena di mare. Aveva il sorriso di un bambino e occhi grandi in cui
troppo
spesso lampeggiava una luce affamata, avida.
Benché si fossero già
trovati molte volte ad essere in conflitto e a nessuno dei due piacesse
arrendersi all’altro, Svea gli voleva bene perché
lui era brillante e ardente -
bruciante, pensava
a volte - come il sole.
- Non ti
seguiranno
oltre il mare - disse ancora, sicuro e sfacciato come sempre: - Non una
donna -.
Ovviamente, essendo suo fratello lui condivideva la sua stessa natura e
non era
un uomo così
come lei non era una
donna, ma provava comunque un
piacere immenso nello sbeffeggiarla.
Svea era
paziente,
sapeva dominare l’irritazione e il fastidio e rendere il suo
volto una maschera
dura e vuota. Continuò a giocare in silenzio, concentrata,
mentre Danmǫrk rideva,
e alla fine vinse e suo fratello non rise più.
- Va pure
oltre il
mare, se proprio vuoi - disse l’altro fratello di Svea, che
veniva da una terra
di alti monti e di fiordi ripidi ad ovest: - Ma non andare ad est.
Come la
terra di Nόregr
era più vicina a quella di Svea, così lui era
più simile a lei di quanto lo
fosse Danmǫrk. Entrambi avevano visi bianchi di neve, ed entrambi
parlavano
poco ma in modo schietto.
Svea
sapeva che Nόregr
conosceva molte canzoni note solo ai saggi, e che i suoi occhi acuti
potevano
vedere cose la cui vista era negata agli altri: spiriti e creature,
abitanti
del sottosuolo e del bosco e vӕttir della terra. Ma sapeva anche che
c’era qualcosa
ad est, qualcosa che lei era
destinata a trovare - e se anche fosse stata la magia terribile che
Nόregr
temeva, lei l’avrebbe trovata comunque. Se fosse stata
necessario, avrebbe
ucciso tutti i troll e gli jotnar che le fossero apparsi davanti,
avrebbe
spezzato i bastoni delle streghe e rotto gli incanti degli sciamani.
Glielo
disse, l’espressione algida sul suo volto immutata e gli
occhi che brillavano.
- Sei una
stupida, dolce
sorella - rispose Nόregr, ma Svea poté quasi giurare di aver
visto l’ombra di
un sorriso sulle sue labbra pallide.
With
the Lord my
protector
Make them bow to my will
To the sky!
See
Carolus rise
E
così promise
ricchezza alla sua gente, oro rosso e stagno e pelli, commercio e
saccheggio, e
trovò uomini che furono disposti ad ascoltarla.
Infiammò i loro spiriti con
parole di luce fulgida e di ferro tagliente, risvegliò nei
loro cuori il
desiderio d’avventura e fece sì che sentissero
ancora una volta il richiamo del
mare, e finalmente trovò uomini pronti a seguirla.
E
così partì, e anche
quando il vento si alzò e le onde si ingrossarono, quando il
cielo fu scosso
dal tuono e squarciato dal lampo e certi uomini nel suo equipaggio
parlarono di
malefici e di rune di morte, Svea non ebbe paura. La sua
volontà ostinata sfidò
quella delle crudeli figlie di Aegir, e il suo sguardo di ghiaccio
continuò a
cercare la meta oltre la tempesta - e, infine, la trovò.
Approdarono
in una
terra senza re, libera e selvaggia, una landa di piccoli villaggi
sparsi, di
boschi fitti e scuri, di paludi e di laghi profondi. A Svea piacque, e
in un
certo modo le ricordò la sua casa, poiché le
diede la stessa sensazione di
quiete e di ospitalità.
Ma quella
terra apparteneva già a qualcun altro, lo sentiva
nell’aria fresca e frizzante,
nel suolo ricco e fertile sotto i suoi piedi, nel sussurro delle
vecchie
foreste.
Svea e il
suo
equipaggio incontrarono presto gli uomini dell’est, e si
sforzarono per
riuscire a comunicare con loro in qualche modo. Erano gente semplice e
silenziosa, non dissimile dagli Svear nell’aspetto, ma i loro
abiti erano tagliati
secondo una foggia straniera e la loro lingua era completamente diversa
da
quella di Svea e di entrambi i suoi fratelli: lettere allungate e
parole
complesse che riempivano la bocca e scorrevano lente e dolci come fiumi
antichi, consonanti dure e frequenti a dare ritmo a frasi piatte che
erano
quasi cantilene magiche, un’alternanza di suoni delicati e
ruvidi come per emulare
il linguaggio dei ruscelli e del vento tra i rami.
Nonostante
le sue
sensazioni all’arrivo in quel luogo, tra quegli uomini
d’oriente sembrava non
esserci nessuno simile a Svea. Non riusciva a vedere niente che li
accomunasse
nei loro occhi troppo giovani, non riusciva a percepire nulla che
potesse
ricondurre a se stessa nei loro fragili corpi di mortali.
Ma
qualcuno c’era. Ci
doveva
essere, pensò Svea, e allora
lasciò per un po’ il comando della spedizione a
uomini di cui si fidava e si
mise a cercarlo.
La prima
volta, fu solo
un fruscio tra le foglie, e Svea riuscì appena ad
accorgersene e subito dopo
era già sparito, così che per un attimo quasi si
convinse che fosse stato solo uno
scherzo della sua immaginazione - e c’era qualcosa in lei, in
effetti, che
mormorava lascia
perdere e non c’è nulla,
ma Svea sapeva e quindi
ignorò quella voce che non era esattamente
quella dei suoi pensieri. Poi ci fu solo il silenzio, mentre lei
cercava tra i
cespugli pieni di bacche, il cuore che le batteva rapido nel petto e le
mani
che si muovevano determinate e minuziose.
E mentre
Svea cercava
tra i cespugli nel folto del bosco, nei suoi uomini si risvegliava il
ricordo
di quelle promesse che avevano infiammato i loro cuori e che li avevano
spinti
a partire. Allora, gli Svear impararono a trattare con il popolo
d’oriente, per
saziare la fame di ricchezze che li aveva guidati oltre il mare cupo e
profondo
fino a giungere in quella terra.
La
seconda volta fu
un’ombra agile tra gli alberi, e lei subito corse per
inseguirla. Era veloce e
resistente, eppure corse e corse senza mai raggiungere la meta. Corse
finché i
muscoli delle gambe bruciarono e il solo respirare le fece dolere il
petto,
corse finché riuscì quasi ad afferrare
l’ombra del bosco e si ritrovò con un
lembo della sua veste strappata nella mano. E poi inciampò -
anche in seguito non
riuscì mai a capire cosa
l’avesse
fatta inciampare - e cadde. Rimase per un po’ distesa per
terra, ansando nella
polvere, e poi fu come se un velo fosse strappato da sopra i suoi
occhi: si
accorse di aver girato in tondo e di essere tornata al punto di
partenza, e
vide che la stoffa stretta nel suo pugno era svanita.
E mentre
Svea cercava
tra gli alberi della foresta, i suoi uomini videro che talvolta le
trattative
erano troppo difficili, per via delle differenze nella lingua o per
colpa della
diffidenza dei locali verso gli stranieri venuti dal mare. E allora gli
Svear
si stancarono dei loro goffi tentativi di usare le parole, e risposero
con il
ferro - prendendo, rubando, e bruciando.
La terza
volta, le
parve per un attimo solo di scorgere un viso pallido e lontano, come
qualcosa
che avrebbe potuto vedere in un sogno, e il riflesso del sole tra
capelli come
fili d’argento. Ma, questa volta, non cercò e non
inseguì. Rimase ferma, dritta
e salda come una quercia antica.
- Fatti
vedere -
comandò, e solo dopo averlo detto si ricordò del
modo in cui perfino la sua
gente si faceva impaurita e tremante ogni volta che la sua espressione
si
rabbuiava e il suo tono si faceva severo. - Non voglio farti alcun male
- provò
ancora, e questa volta cercò d’essere gentile.
Le sue
parole erano
sincere, ma nessuno le rispose comunque.
Quando
Svea smetteva
- solo per un po’, mai troppo a lungo - di cercare, e quando
i suoi uomini si
ritenevano soddisfatti di quanto erano già riusciti a
prendere, allora
tornavano alla nave. Continuavano ad avanzare lungo coste basse e
frastagliate,
e poi si addentravano di nuovo nei luoghi inesplorati di quella terra,
e
trovavano nuovi villaggi e nuove genti. Svea taceva e osservava quei
territori,
e nella sua mente cominciavano a formarsi sogni di altre navi e altri
uomini, e
idee di basi dove per loro fosse sicuro attraccare, e progetti di
fortezze di
pietra.
All
this might shall be
mine, there's no stopping me
All over Europe, my rule shall be questioned by none
All I see, give to me - that is my decree
My will be done!
Lo
trovò su nel nord,
là dove il sole scintillava sulle distese sconfinate di neve
e i monti si
facevano più frequenti e i villaggi ancora più
radi, mentre le genti del popolo
dell’est diventavano più inclini a non rimanere
sempre nello stesso luogo e la
loro lingua ancora più bizzarra.
Accadde
nel cuore di
una notte illuminata dai fuochi di un cielo come un panno nero e blu,
una di
quelle notti in cui alcuni benedicevano i doni degli dei agli uomini e
altri si
chiudevano in casa, serrando le porte per tener fuori gli spiriti.
Svea non
credeva a
quelle storie, ma sapeva bene che sarebbe stato comunque più
sicuro rimanere al
campo, con i suoi uomini tutto attorno a lei. Eppure, sapeva anche che
quella
notte non avrebbe potuto semplicemente sdraiarsi e dormire come gli
altri,
sapeva che qualcosa
sarebbe successo:
era lo stesso istinto che le aveva sussurrato all’orecchio
mentre scrutava il
mare dalle spiagge della sua terra, e ora le diceva con voce suadente
di avanzare
nella neve e nel buio.
Svea
ancora una volta
guardò in alto, dove le luci del nord splendevano
avvolgendosi in vortici di
smeraldo e di porpora, e poi iniziò a camminare, sempre
dritta davanti a sé.
Furono
quelle
sensazioni a spingerla ad inoltrarsi nel bosco, ma in realtà
fu tutto il resto
a condurla nella giusta direzione, guidandola come una mano gentile
sulla
spalla mentre cercava di non inciampare su sassi e radici. Fu una
melodia dolce
e triste a un tempo, simile a quella di un liuto, e una voce talmente
limpida e
chiara che lei quasi credette di poter distinguere le sue parole anche
nella
distanza, e poi l’inconfondibile sensazione che un essere
della sua stessa
natura si facesse sempre più vicino.
Si
incontrarono
infine in un punto in cui gli alberi erano meno fitti, e Svea seppe
immediatamente che era quella, dopo tanto tempo, la fine della sua
lunga
ricerca. Lui era seduto in cima ad una grossa roccia, e portava una
veste
bianca e rossa e gettato sulle spalle quello che a Svea parve un
mantello di
pelliccia d’orso. Sulle sue ginocchia era appoggiato una
specie di triangolo di
legno chiaro, lungo e snello, e lui ne pizzicava le corde con dita
lunghe e
svelte. Cantava piano, con le luci del nord che gli rischiaravano il
viso e le
palpebre abbassate e giocavano a intrecciare mille sfumature lucenti
tra i suoi
capelli d’argento.
Svea
rimase in
silenzio, e guardò e ascoltò, e per un
po’ si perse in quella visione e in quel
canto. Aveva sentito dire degli stregoni che non erano veri uomini, che
nella
loro mollezza e codardia parevano più simili alle donne. E
in effetti l’uomo
seduto sulla roccia aveva un viso bello e delicato, e le parole
straniere e
incomprensibili che sgorgavano dalle sue labbra risuonavano struggenti,
piene
di dolcezza - ma c’era anche una forza quieta e solenne, una
sorta di energia
trattenuta, in quelle parole e in quel viso, e da quanto Svea poteva
vedere il
suo fisico era magro e simile a quello di un ragazzo ma di certo non
femmineo o
emaciato.
Il canto
terminò e
l’uomo posò sulla roccia il suo strumento,
maneggiandolo con reverenza. Poi
balzò giù, le scarpe di pelle che fecero
scricchiolare la neve dove atterrò, e
mosse qualche passo per venirle incontro - ma non le venne vicino,
notò Svea, che nemmeno stendendo il braccio sarebbe
riuscita a sfiorarlo. Fu tentata di colmare la distanza che ancora li
divideva,
ma ebbe paura di spaventarlo.
- Qual
è il tuo nome?
- chiese invece, in quel linguaggio che tutti quelli come lei
conoscevano, e
cercando di impedire alla sua voce di tremare per l’emozione
per sbaglio la
fece diventare brusca e secca. Se ne pentì subito, quando
vide gli occhi
dell’uomo - color
del crepuscolo,
pensò che fossero, e nemmeno il suo orgoglio le
impedì di concedersi quello
sdolcinato paragone da mansöngr - allargarsi dallo stupore per
un momento e poi
diventare più cauti, quasi guardinghi.
- Il mio
nome è
Suomi, figlio della terra e della palude - rispose l’uomo
nella sua stessa
lingua, abbozzando un sorriso cortese, perfino gentile, ma non caldo: -
Ma tu un
giorno mi darai un nuovo nome, Ruotsi.
Svea lo
fissò,
confusa. - Sono contenta di averti trovato, Suomi. Ma quello non
è il mio nome.
Io sono Svea Rike, il regno dei congiunti degli Svear - disse, alzando
appena
un sopracciglio.
Ora
c’era un barlume
di divertimento nel sorriso di Suomi, e Svea lo attribuì al
fatto che per molti
era difficile immaginarla provare felicità o gioia, o in
certi casi anche ogni
altro genere di emozione. Ma lei era davvero
contenta - il suo cuore batteva forte e, se fosse stata tipo da
sorrisi, le sue
labbra si sarebbe potuto piegare all’insù per il
resto della sua vita
immortale.
- Per me
sarai Ruotsi
terra dei rematori, Ruotsi venuta dal mare - ribatté Suomi,
riscuotendola da
quei pensieri, e all’improvviso smise di sorridere: - E
vorrei che tornassi di
nuovo là, oltre il mare.
Se Svea
fosse stata
il tipo di donna che arrossiva, le sue guance si sarebbero tinte di
porpora per
la sorpresa e l’indignazione - lei lo aveva cercato
così a lungo, e lui la
stava cacciando?
Ma poi ci pensò
sopra e le tornarono alla mente i loro quasi-incontri nei pressi dei
villaggi
del sud, e allora la vergogna e la colpa la colpirono dritto allo
stomaco e le
tolsero il respiro. - Non devi avere paura di me. Non voglio farti
alcun male -
gli disse, come gli aveva già detto una volta.
Suomi
scosse la
testa: - L’hai già fatto -. Non c’era
rabbia né dolore nella sua voce
melodiosa, solo consapevolezza e forse rassegnazione. Appena Svea
aprì la bocca
per protestare - perché no,
questo non
era vero - lui aggiunse: - La tua gente
lo ha fatto alla mia.
Allora
Svea rimase in
silenzio, senza sapere precisamente cosa rispondere. Quello
era ciò che avevano fatto solo i suoi uomini, e
ciò che di
certo avrebbero fatto anche quelli di Danmǫrk e di Nόregr se ne
avessero avuto
la possibilità. Lei non avrebbe potuto fermarli,
perché prendere il bottino che
aveva promesso prima di partire era un loro diritto, ma nemmeno li
aveva
appoggiati. - Io
non ho mai fatto
nulla contro di te,
né mai lo farò -
cercò di spiegare, ma anche se la sua voce era ferma
qualcosa da qualche parte
dentro di lei cominciava a tremare.
E, a quel
punto,
Suomi rise. Sarebbe potuta sembrare una risata causata da puro e
semplice
divertimento, ma Svea - Svea che era abituata a scorgere le ombre nei
sorrisi
larghi di Danmǫrk, a discernere i piccoli lampi d’emozione
che animavano i
lineamenti di Nόregr - colse subito la nota amara che la incrinava.
- Davvero
non vuoi
credermi? - domandò lei, ma non suonò esattamente
come una domanda.
- Vorrei
crederti - rispose lui. Aveva di
nuovo quel sorriso gentile, e i suoi occhi erano lontani. - Ma io
l’ho visto
- aggiunse dopo un momento,
tornando a guardarla, come per un pensiero improvviso: - L’ho
visto nel modo in
cui l’anello tremava sul tamburo, l’ho visto
nell’acqua e nella terra e in ciò
che i loro spiriti mi hanno mostrato.
Svea gli
si avvicinò,
allora, con poche falcate rapide. Provò ad alzare una mano
per sfiorargli il
viso, cercando di rassicurarlo, ma Suomi si ritrasse dal suo tocco. - Cosa
hai visto? Dimmelo! - gli ordinò
guardandolo negli occhi, il respiro che si faceva appena più
rapido.
Lui
sostenne il suo
sguardo, ma l’incertezza lampeggiò per un attimo
nei suoi occhi così blu da
essere quasi viola. - Ho visto catene, e non solo le mie. Ho visto
guerre. Ho
visto un impero - mormorò, come se le stesse confidando un
grande segreto.
Svea
aprì e richiuse
la bocca, e arretrò di un passo. - Un impero? - chiese, e
poi si accorse che le
mancavano le parole per chiedere tutto il resto, come
e quando
e e
sarà tutto mio?
Suomi
annuì: - E
catene -. Si voltò e le diede le spalle, e indicò
con un dito la roccia dove era
stato seduto. - Lo vedi, quel kantele? Sarai tu a spezzarlo. E io
dimenticherò
le vecchie canzoni.
Doveva
riferirsi a
quello strano strumento, pensò Svea. Ma perché
mai avrebbe dovuto volerlo
rompere? Perché avrebbe dovuto impedire a Suomi di suonare
della musica tanto
bella, tanto delicata?
- Ѐ per
questo che mi
odi, quindi? - gli chiese, e sentì una morsa gelida
stringersi attorno al suo
cuore.
- Oh,
Ruotsi -
rispose Suomi, senza nemmeno voltarsi di nuovo per guardarla in viso.
La sua
voce era triste e stanca, e l’uomo stavolta non
tentò di mascherare il suo
dolore con toni calmi e sorrisi sereni. - Io non potrò mai
odiarti.
Non era
particolarmente incoraggiante ma, nonostante tutto, la morsa attorno al
cuore
di Svea si allentò appena, e una flebile speranza si
annidò nel suo petto, come
un minuscolo seme gettato in un terreno fertile.
Il giorno
dopo, Svea
pensò molto a quell’incontro, ripercorrendo nella
sua mente ogni suo piccolo
dettaglio, finché il freddo pungente e l’ombra
degli alberi e perfino il
bagliore della norðrljós
alta nel
cielo si fecero nebulosi e indistinti, come il ricordo sbiadito di un
vecchio
sogno. Solo Suomi rimase nitido e vivo nei suoi pensieri: la sua
profezia, la
sua diffidenza, e quel volto fresco e bello.
Svea
tornò nel bosco, quella notte, ma lui non c’era
più. Si sedette
sulla roccia e aspettò sotto la luce chiara delle stelle.
-
Continuerò a tornare
- disse, la voce salda e lo sguardo determinato: - Finché
non ti troverò
ancora. E tu mi spiegherai cosa intendevi. Fino a quel momento, non me
ne
andrò.
Tre notti
di veglia e
di silenzio dopo, lui era lì di nuovo.
Continuarono
a
vedersi, notte dopo notte.
Lui
cantava, lei
ascoltava. E dopo parlavano - dei torti passati, della situazione
presente, del
futuro che ancora li attendeva - ma Svea presto si rese conto che, per
quanto
chiedesse, non avrebbe saputo nulla di più sul suo impero o
sulla sorte delle
loro genti, non da Suomi.
Allora,
Svea smise di
chiedere, e si limitò ad ascoltare. E, in silenzio,
cominciò ad osservare Suomi,
con le sue mani agili e belle e i suoi lineamenti aggraziati.
Continuarono
a
vedersi, notte dopo notte.
Era
un’altra notte di
fuochi nel cielo, quando ricominciarono nuovamente a parlare.
- Sono le
Valchirie -
disse Svea: - Con le loro corazze scintillanti e le lance
d’oro. Forse sono in
cerca dei valorosi caduti nel mondo, o forse seguono Odino nella sua
caccia.
Quella fu
la prima
volta che vide Suomi sorridere davvero,
ed era un sorriso candido e genuino che le fece sobbalzare il cuore nel
petto.
- Potresti essere una di loro, sei forte e intrepida abbastanza - rise,
e poi
le raccontò a sua volta delle revontulet, dei fuochi delle
volpi del cielo,
perché secondo lui una buona storia meritava di essere
ricompensata con
un’altra.
Quella fu
la prima
volta che Svea si accorse che, ogni tanto, anche Suomi la guardava,
quando
pensava che lei fosse distratta.
Forse era
ancora
troppo presto - le parole amare di Suomi erano ancora ferme e pesanti
da
qualche parte dentro di lei, indimenticate - ma quella notte la
speranza
sbocciò nel cuore di Svea.
- I miei
uomini
vogliono tornare a casa - disse Svea una notte: - Ormai conoscono
questa terra
e ciò che può offrire loro, e hanno nostalgia
della loro patria. Sono stanchi.
- Allora
non
trattenerli qui. Lascia che tornino alle loro case e alle loro famiglie
-
replicò Suomi. La luce della luna dipingeva giochi
d’ombre sul suo viso.
- Se me
ne andrò con
loro - proclamò Svea, il cuore appesantito da un dolore che
non poteva
permettersi di provare e il tono solenne di chi si appresta a fare un
voto agli
dei: - Allora, non ritornerò più nella tua terra.
Ma Suomi
semplicemente sorrise. - No, non è vero, e lo sai anche tu -
disse, quasi senza
amarezza: - Verranno altre navi e altri uomini della tua terra, e
costruiranno
fortezze di pietra. E un giorno, quando mi avrai dimenticato e sarai
finalmente
pronta a fare ciò che ho visto, tornerai anche tu.
Svea
percorse quei
pochi passi che ancora lì separavano e, prima che Suomi
potesse allontanarsi da
lei o dire alcunché, afferrò la sua mano - era
calda, e lei sentì i piccoli
calli sulle sue dita lunghe. Guardò dritto in quegli occhi
di crepuscolo e
disse, tentando per una volta d’essere dolce, magari perfino
tenera: - Sappi
che non ti dimenticherò mai.
Poi
sporse il suo
viso verso quello dell’altro, lentamente, e lo
baciò. Fu un gesto cauto ma non
esitante, le sue labbra che premevano delicate contro quelle di Suomi,
la punta
della sua lingua che saggiava la loro morbidezza e il loro sapore.
E poi le
labbra di
Suomi si schiusero, e Svea pensò che forse era
così che si sentiva chi poteva
inebriarsi della birra di Aegir.
Quella
notte, Svea
percorse le linee del suo corpo con la punta delle dita, con le labbra
e con la
lingua - forse per ricordarle per sempre, o forse per renderlo suo.
Marchiò il
suo collo bianco coi suoi baci e con i denti, e Suomi in risposta
segnò la sua
schiena muscolosa con le unghie.
Suomi le
baciò i lobi
delle orecchie, mentre lei stringeva di più le gambe attorno
alla sua vita e si
muoveva più veloce sul suo corpo, e le sussurrò
cose nella sua lingua che
avrebbero potuto essere frasi tenere da amante come formule segrete.
Dopo,
mentre
giacevano avvolti nel mantello di pelliccia di Suomi e scrutavano
insieme il
cielo, Svea gli posò una mano sul petto. Aprì le
dita più che poteva, e sentì
il calore della sua pelle e il ritmo del suo respiro. Poi gli chiese,
senza
rabbia e senza tristezza: - Preferiresti davvero che io me ne vada per
sempre?
Suomi
rimase in
silenzio per un po’. - Sarebbe meglio - disse alla fine, e
coprì la sua mano
con la sua: - Ma ti ho vista. Ti ho osservata da quando sei arrivata
nella mia
terra, e ti ho aspettata, e ... no, non lo preferirei.
Svea
sorrise, benché
sapesse che quelle parole non avrebbero cambiato nulla.
Riportò il suo sguardo
alla luna, che risplendeva nel cielo nero come una grossa moneta
d’argento.
- Anche
se siamo
diversi ... - cominciò: - Anche se tu sei convinto che
finirò per farti del
male, e io sono convinta di essere abbastanza forte da cambiare il
destino,
voglio contemplare questa luna con te. Solo per stanotte.
Suomi,
che aveva
capito ciò che lei non aveva detto, si strinse di
più a lei e le rimase accanto
fino a quando l’alba tinse il cielo di rosa e di blu.
Quel
giorno stesso,
Svea e i suoi uomini ripartirono. Loro erano allegri, soddisfatti del
bottino
che avrebbero riportato in patria, lei era l’unica che non
sorrideva - nessuno
però pensò che fosse strano, perché
dopotutto Svea sorrideva molto raramente.
Il sole
splendeva,
quel giorno, e venti buoni li sostennero durante tutto il viaggio.
- Grazie
- sussurrò
Svea fissando il mare salato, mentre la costa si faceva sempre
più piccola e
scura all’orizzonte. Accettò quel piccolo dono
d’addio, e cercò di non pensare
al giorno in cui sarebbe - finalmente - tornata.
Qualsiasi
cosa
sarebbe successa quel giorno, decise che avrebbe di nuovo guardato la
luna con
lui.
To
the sky!
See Carolus rise
NdA:
Scritta
per la
challenge Hetalia
Challenge di
Minori-chan. Avevi detto “non superiori a 5000
parole”, no? *fischietta
innocentemente*
La
canzone citata nel
testo è Carolus
Rex dei Sabaton.
Sì,
lo so che l’idea
che Svezia incontri Finlandia solo nell’Età
Vichinga e dopo aver già conosciuto
una Nazione più lontana come Danimarca è
abbastanza improbabile. Sì, lo so che
ci saranno almeno un centinaio di altri anacronismi vari. Just bear with me, okay?
Ecco un
piccolo
glossario dei riferimenti che mi sono divertita ad inserire in questa
storia:
I carri
di Freyr: Freyr era
un dio appartenente ai Vanir, un
gruppo di dei prima nemici e poi alleati degli Aesir e generalmente
associati
con la fertilità (della terra, animale, umana).
Nell’Ynglinga
Saga, i re svedesi erano
rappresentati come suoi
discendenti. In Svezia, c’erano tradizioni per cui un’immagine di Freyr veniva
trasportata su un carro in una
processione sacra.
Dal fuoco
e dal ghiaccio, nel sangue e nella
carne: nella
mitologia
norrena, le condizioni per l’esistenza della vita derivano
dallo scontro tra il
calore di Muspelheim e il gelo di Nifelheim. Il mondo degli uomini,
Midgard, venne
invece creato da Odino utilizzando il cadavere di Ymir, il primo essere
vivente. Qui ci sono
più informazioni.
Corteccia
e resina: sempre
secondo il mito, i primi uomini vennero
creati da un frassino e un olmo.
Madre
della terra: la
personificazione originale della Svezia è Moder
Svea, Madre
Svezia.
Uppsala: la capitale dei re
svedesi, nota per i riti celebrati nel
suo tempio.
Svea Rike: nome
della Svezia in antico norreno, letteralmente Regno degli Svedesi.
Da Svear,
Svedesi, che dovrebbe
significare qualcosa come “membri della tribù,
congiunti”.
Svealand,
Norrland, Götaland: le tre regioni storiche
della Svezia.
Hervor
figlia di Angantyr: una dei protagonisti della Saga di Hervor e Heidrek.
Degna figlia di un berserker, crossdresser, guerriera, pirata,
negromante nelle
occasioni speciali ... e alla fine, dopo essersi stancata
dell’attività da
vichinga, donnina perbene e beneducata, brava tessitrice e sposa di un
principe.
Lagertha
e Brynhildr: Lagertha
è
la prima moglie di Ragnar Lodbrock, e lo
aiutò in battaglia anche quando lui decise di divorziare da
lei
per sposare un’altra donna. Brynhildr
è
(a seconda della fonte) una guerriera, una Valchiria o una regina
islandese. Diventa
l’amante di Sigfrido, che però sposa
un’altra donna, quindi lo fa uccidere e
poi si suicida.
I
sacerdoti di Freyr: secondo Gesta
Danorum, in Svezia era presente
un culto di sacerdoti di Freyr noti per
la loro effeminatezza, che secondo
alcune interpretazioni si dedicavano
all’omosessualità maschile o al
crossdressing.
Tafl: un gioco simile
agli scacchi.
Danmǫrk,
Nόregr: Danimarca
e Norvegia in antico norreno.
Vӕttir: spiriti,
esseri sovrannaturali.
Jotnar: quelli
che tutti i traduttori si ostinano a chiamare
“giganti”. In
realtà le loro dimensioni e il loro aspetto variano molto,
tanto che in un mito
su di loro si possono trovare vecchie megere con troppe teste e mostri
giganteschi e in un altro giovani e bellissime vergini.
Dolce
sorella: un
piccolo inside
joke. I Norvegesi a volte
chiamano la Svezia søta
bror (“caro fratello,
dolce fratello”), ma in molti casi ha
una connotazione ironica e derisoria. Ah, ed è anche un
riferimento a Game
of Thrones. ;)
Le figlie
di Aegir: le onde, le nove
figlie di Aegir (divinità del mare,
ma anche produttore di ottima birra) e Rán (dea che
raccoglie i morti in mare
nella sua sala).
Mansöngr:
canzone
di
tipo erotico. Questo genere di poesia era spesso illegale,
perché si pensava
che potesse essere usato come un incantesimo di seduzione e anche
perché era
visto come un segno di disonore per le donne a cui era dedicato e per
le loro
famiglie.
Norðrljós: “aurora
boreale” in antico norreno,
letteralmente “luce del nord”. In realtà
non rimangono fonti sulle
credenze dei popoli scandinavi nell’Età Vichinga
riguardo a
questi fenomeni, ma in Groenlandia si pensava che avessero a che fare
con gli
spiriti dei defunti, e su internet sono abbastanza diffuse teorie (non
troppo
attendibili) secondo cui gli Svedesi pensavano che le aurore rendessero
la
terra fertile e altre secondo cui si pensava fossero causate dalla luce
riflessa sulle armature delle Valchirie. Io ci ho aggiunto anche il
mito della Caccia Selvaggia di
Odino, benché con le Valchirie non centri molto,
perché è una delle
mie leggende preferite.
Questo
per quanto
riguarda Svezia. Per Finlandia, invece, ci sono un paio di cose in
più da
spiegare.
I
Finlandesi erano
conosciuti dai popoli confinanti come un popolo di maghi e stregoni.
Nelle
saghe norrene, venivano spesso e volentieri confusi con i Sami (altro
popolo
ritenuto pieno di sciamani e streghe) e potevano essere
d’aiuto a re ed eroi,
ma più spesso si trovavano in conflitto con loro e
scagliavano loro contro
incantesimi e maledizioni. Nelle saghe, in effetti, persone con
antenati
finlandesi o Sami potevano anche essere definite addirittura “mezzi troll”.
Gli incantesimi più spessi attribuiti ai
Finlandesi avevano il potere di domare i venti o scatenare tempeste, e
secondo alcune leggende i Finlandesi
vendevano ai marinai stranieri corde annodate in cui dicevano di aver
racchiuso
venti leggeri e più forti per risolvere ogni problema che si
presentasse nella
navigazione - io preferisco pensare che i Finlandesi fossero
semplicemente
molto furbi e sapessero sfruttare gli stereotipi a proprio vantaggio,
ma queste
sono solo le mie teorie. ;)
Vichinghi
e antichi
Finlandesi avevano idee abbastanza diverse sulla magia.
Per i
Vichinghi, era
una cosa riservata quasi esclusivamente alle donne, e
gli stregoni maschi venivano accusati di essere effeminati o omosessuali passivi (quindi
capaci di sottomettersi non solo fisicamente ma anche
psicologicamente ad un altro uomo e di assumere un ruolo “da
donna”), di
vestirsi da donna, e perfino di potersi trasformare in donne e rimanere
incinti. In realtà anche divinità come Loki e lo
stesso Odino praticavano la
magia e spesso assumevano comportamenti non proprio mascolini
(crossdressing,
trasformazioni in donne e animali femmina, gravidanze ...), ma nella Lokasenna, in
barba alla coerenza, entrambi usano questi
fatti per insultarsi a vicenda.
Nella cultura finlandese, invece,
la magia era molto spesso praticata dagli uomini. Basti
pensare che nel Kalevala, il
poema nazionale finlandese costruito su una raccolta di canti epici
popolari,
tutti gli eroi sono maghi, mentre il nemico principale è una
strega.
Sempre
nel Kalevala,
la magia viene attuata attraverso il potere del canto, che diventa
anche
un’arma per sconfiggere i nemici oltre ad un mezzo per
diffondere la saggezza
dei tempi antichi. Inoltre, nel paganesimo finlandese, la figura dello
stregone
si divide in due:
lo sciamano o noita,
un guaritore legato a un’antica cultura nomade simile a
quella dei Sami e che
generalmente si fa aiutare nelle sue pratiche da spiriti e altri esseri
sovrannaturali, e il mago o tietäjä, figura
nata da una
cultura sedentaria e con un maggior numero di funzioni
all’interno della
comunità.
Anche
dopo la cristianizzazione della
Finlandia ad
opera della Svezia, i Finlandesi mantennero la loro fama di stregoni, e
anche
nel periodo dei processi alla
streghe in
Finlandia gli accusati di stregoneria furono per
la maggior parte uomini.
Veste
bianca e rossa: l’eroe
principale del Kalevala
Väinämöinen in
genere viene rappresentato così.
Mantello
di pelliccia d’orso: nel
paganesimo finlandese, l’orso era uno
degli animali più sacri.
Suomi:
“Finlandia” in finlandese. Secondo alcune etimologie,
dovrebbe voler dire “terra” o “terra
delle paludi”.
Ruotsi:
“Svezia” in finlandese. Secondo alcune etimologie,
dovrebbe voler dire “terra del remare/dei
rematori”.
L’anello
sul tamburo: uno degli
strumenti utilizzati dagli sciamani
finlandesi era il tamburo.
A volte era utilizzato per favorire uno stato di trance in cui erano
possibili
i viaggi
spirituali (spesso la meta era
l’oltretomba), a volte veniva usato insieme
ad un anello
per effettuare profezie.
Kantele: strumento tradizionale
finlandese, secondo la leggenda venne
inventato da Väinämöinen. Qui e qui potete
vederlo e sentirlo. :)
Revontulet:
“aurora
boreale” in finlandese, letteralmente “fuochi delle
volpi”.
Secondo la leggenda, erano
proprio delle volpi magiche a causare
l’aurora.
Ora temo
che le note
stiano diventando più lunghe della storia, quindi vi saluto.
Spero che questa
storia vi sia piaciuta! :)