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Autore: Macy McKee    27/07/2014    2 recensioni
[Post-Karnak; Movieverse]
Cinque anni dopo essere stato sconvolto dalle esplosioni che hanno distrutto le maggiori città del pianeta, il mondo sta cominciando lentamente a riprendersi. Allo stesso modo, Dan e Laurie stanno iniziando a rimettere insieme i cocci delle loro vite, cercando di superare insieme gli eventi di Karnak.
Il diario di Rorschach, però, che giace dimenticato in un angolo da un quinquennio, continua a minacciare la pace mondiale con la sua esistenza. E quando un giorno viene trovato, l’equilibrio tanto faticosamente conquistato rischia di crollare.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrian Veidt/Ozymandias, Daniel Dreiberg/Nite Owl II, Laurel Jupiter/Silk Spectre II
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Fanfiction partecipante al contest "Petali di lacrime" sul forum di EFP
Aftershock
 
 “È tutta una fregatura. Gli eroi non esistono. I vincitori non esistono − è tutta una fregatura […]
Son tutte fregature, tutte favole, è così che va avanti il giochetto.
Ognuno cerca solo di tirare a campare e d'aver fortuna − se ci riesce.”
Charles Bukowski, Compagno di sbronze
 
New York, 8 novembre 1985
Se qualcuno avesse detto a Seymour che il futuro dell’umanità si trovava a un bivio e che la direzione che sarebbe stata presa dipendeva da lui e da lui soltanto, il ragazzo si sarebbe fatto una grassa risata e probabilmente si sarebbe fatto andare di traverso un po’ del formaggio che riempiva il suo panino.
Se qualcuno avesse detto la stessa cosa a Hector Godfrey, con ogni probabilità la prima pagina del New Frontiersman del giorno successivo avrebbe ospitato un articolo pieno d’indignazione che esprimeva il sospetto che i Comunisti stessero scaricando nelle acque americane sostanze tossiche che davano alla testa ai cittadini. Non sarebbe stato il suo primo articolo in questi termini, in realtà, e nemmeno l’ultimo. La differenza rispetto al passato era che questa volta, se avesse scritto davvero qualcosa di simile, nessuno lo avrebbe ascoltato; o meglio, era certo che qualche fanatico gli avrebbe dato retta, perché nemmeno vedere sia New York sia Mosca parzialmente rase al suolo da un’esplosione provocata da un superuomo blu avrebbe potuto convincere i fedelissimi dell’estrema destra ad abbandonare le loro speculazioni sui Comunisti. Sapeva però con altrettanta certezza che il consenso dato alle sue insinuazioni era nettamente in calo, rispetto ai bei vecchi tempi in cui i bambini avevano paura dei Russi nascosti sotto i loro letti e i genitori minacciavano i figli di darli in pasto ai Comunisti se non avessero finito la cena.
E mentre Seymour tendeva le sue dita sudaticce verso lo Scemenziario[1], senza sentire minimamente sulle spalle altrettanto sudaticce il peso del destino del mondo che gravava su di lui, Hector Godfrey era nella stanza accanto e stava riflettendo proprio sul disastroso calo dei suoi seguaci e su come questo nuovo clima di pace e amore neo-hippie fosse devastante per il suo portafoglio e per la sua ipertensione. Non c’era più nulla da scrivere, ormai. Niente più guerre, niente più catastrofi, niente deliziosi bombardamenti che potessero occupare degnamente la prima pagina. Niente di niente. E lui cosa avrebbe potuto fare? C’era un limite al numero di articoli sui furtarelli perpetrati da bande di teppisti quattordicenni nel Queens che la gente poteva trovare in prima pagina prima di cancellare l’abbonamento al New Frontiersman. “Se solo qualcuno iniziasse una dannata guerra”, pensava Godfrey.
Si massaggiò la fronte con il dorso della mano, strizzando gli occhi. La sua carriera era finita, e lo sapeva.
Con un gesto di stizza, buttò a terra lo scheletro di una prima pagina che non avrebbe mai visto la luce e si alzò di scatto, quasi rovesciando la sedia.
‹‹Seymour!›› sbraitò, affacciandosi sulla soglia dell’ufficio per vedere il ragazzo sul punto di stringere quei salsicciotti che chiamava dita attorno alla copertina macchiata di un vecchio diario.
Seymour sobbalzò, allontanandosi d’istinto dal cesto.
‹‹Sì, capo?››
‹‹Ti porto a cena fuori, Seymour. Andiamo a mangiare una bistecca in onore di tutti i Rossi vegetariani amanti delle piante che ora si stanno sfregando le mani davanti a questa stupida pace. Offre il New Frontiersman. Qui abbiamo chiuso.››
Annuendo, Seymour trotterellò verso il suo capo, già pregustando sulla lingua il sapore di una buona bistecca al sangue pagata da soldi altrui.
Il diario era abbandonato nello Scemenziario, fra lettere che affermavano di avere le prove inconfutabili che gli alieni stessero per monopolizzare il mercato delle saponette da bagno e foto sfocate che, secondo chi le aveva inviate, avrebbero dovuto ritrarre lo Yeti che si aggirava per le foreste della Pennsylvania.
Se il destino avesse avuto labbra per ridere e voce per schernire, quanto avrebbe preso in giro l’umanità: l’oggetto che avrebbe potuto cambiare il corso della storia, fare luce su milioni di morti, rivelare la verità a sei miliardi di persone ignare e, con ogni probabilità, portare all’estinzione umana attraverso un olocausto nucleare, giaceva dimenticato in favore di una bistecca al sangue.
***

New York, 25 settembre 1990
Come avrebbe riso Hector Godfrey se avesse visto Seymour in quel momento. O forse non avrebbe riso, forse si sarebbe infuriato a morte. Forse una vena avrebbe iniziato a pulsare alla base del suo collo e il suo cuore avrebbe ceduto. Ma questo era già successo, in realtà. Il suo cuore aveva ceduto tre anni prima, uccidendolo sul divano del suo appartamento e lasciandolo con la testa che ciondolava grottescamente oltre il bracciolo.
Ovunque Godfrey fosse ora, comunque, e qualunque fosse il suo stato d’animo, Seymour avrebbe potuto giurare di sentirlo mentre si rivoltava nella tomba. E con quanta energia doveva rivoltarsi, vedendo – o percependo, o sognando, o qualunque cosa facessero gli spiriti – il ragazzo appollaiato su quella che un tempo era stata la sua sedia, con un badge appuntato al bavero che lo qualificava come redattore capo del New Frontiersman.
Avrebbe voluto avere anche lui uno stagista da torturare, però. Che senso aveva essere il direttore del New Frontiersman dopo aver salvato il giornale dalla chiusura, se non poteva avere nessun ragazzino da tormentare come lui era stato tormentato ai suoi tempi? Avrebbe dovuto cercarne uno per costringerlo a rovistare nello Scemenziario. A lui si stringeva lo stomaco ogni volta che si avvicinava a quel cesto: considerando che il materiale che lo riempiva risaliva ad almeno cinque anni prima, Dio solo sapeva quale genere di insetti e ragni si annidassero fra le carte. Sì, Seymour avrebbe davvero dovuto assumere qualcuno che pulisse quell’archivio per lui, prima di ritrovarsi con un’infestazione di scarafaggi nell’ufficio.
Anche quel giorno, prendendo in mano il cesto, Seymour fu scosso dal consueto brivido.
‹‹Allora, vediamo cosa possiamo usare. Dovrebbe esserci quella lettera sul Chupacabra, da qualche parte. Dov’è? Ah, già. L’abbiamo usata due settimane fa. Godfrey aveva ragione: la pace fa male alle vendite. E questo cos’è?››
Si ricordava quel vecchio diario. Doveva essere lì da prima della morte di Hector, come minimo, ma Seymour era assolutamente certo di non averlo mai aperto. Probabilmente era stato il colore a farlo rimanere alla larga: era di un marrone grigiastro che gli ricordava le incrostazioni di muffa sulle pareti del suo appartamento. Non aveva esattamente un aspetto invitante. ‹‹Ah, che male può farmi? Allora, stupido diario, cosa mi racconti?›› domandò ad alta voce, sogghignando fra i denti senza sapere bene perché quel quaderno lo facesse ridere.
Sfogliò svogliatamente il diario dal fondo verso l’inizio, cercando la pagina più recente. Quanto la trovò, per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
Al centro della pagina c’erano le parole: “C’è Veidt dietro a tutto”.

 
***

New York, 27 settembre 1990
Dan si stava allontanando, e Laurie lo sapeva. Lo sapeva perché provava quel misto d’inquietudine e impotenza che aveva sperimentato per anni durante la sua convivenza con Jon. Sentiva quel disagio dato dall’essere sospesa fra l’impressione che la sua vita le stesse scivolando dalle dita e quella che l’universo la stesse prendendo in giro.
Ciò che la preoccupava non era che Daniel si allontanasse da lei: vedeva nei suoi occhi il modo in cui lui le si aggrappava per non perdere il contatto con la realtà, il suo bisogno di averla accanto quando si sentiva smarrito. Non sarebbe fuggito, non da lei: la necessità che avevano l’uno dell’altra dopo aver entrambi ricostruito le loro vite da capo insieme era troppo forte. Se si fossero separati, le fondamenta già precarie che avevano edificato quando si erano ritrovati e su cui si reggeva la loro serenità sarebbero crollate.
Quello che davvero preoccupava Laurie era che Dan si stesse allontanando da se stesso. Non era una situazione così diversa da quella che aveva vissuto quando, anno dopo anno, aveva visto Jon innalzarsi sempre più al di sopra del mondo, allentando a mano a mano la sua presa su ciò che era concreto e umano. La differenza era che Dan, al contrario di Jon, non stava perdendo interesse per l’umanità: stava perdendo la sua fiducia in essa.
In realtà, considerò mentre chiudeva gli occhi e s’immergeva nell’acqua bollente fino agli zigomi, non si trattava di una novità. Erano almeno due anni che Laurie entrava nella vasca da bagno con la sensazione che a Daniel fosse stata inferta una ferita che non si era ancora rimarginata. Sapeva anche con precisione assoluta a quando questa ferita risalisse: all’istante esatto in cui sugli schermi di Karnak erano apparse le immagini in diretta di una devastazione così tragica e così totale da non poter essere descritta. Mentre le macerie rotolavano sulle strade e la polvere si alzava sulle città inghiottendo i profili dei grattacieli che erano ancora in piedi e le rovine di quelli che non esistevano più, Laurie era troppo sopraffatta dall’orrore e dallo smarrimento per scorgere negli occhi di Dan il riflesso del suo cuore che stava andando in pezzi. Ma in quel momento, cinque anni dopo, Laurie sapeva con certezza disarmante che quella era stata l’occasione in cui Dan si era perso.
Si lasciò scivolare dolcemente sul fondo della vasca, sentendo l’acqua che saliva fino a coprirle la bocca e gli occhi. Teneva il viso rivolto verso l’alto, con il naso che emergeva appena, e per un momento si domandò cosa avrebbe provato se si fosse immersa completamente e avesse aperto la bocca. Che sensazione le avrebbero dato i suoi polmoni che si riempivano d’acqua? Li avrebbe sentiti bruciare?
Non provava alcun desiderio di farlo. Non voleva morire, non ne aveva alcuna ragione. Era vero, doveva convivere ogni giorno con i fantasmi della devastazione causata da Adrian e di cui lei, tramite il silenzio cui era stata costretta, era complice. Era vero, era preoccupata per Dan; era preoccupata di vederlo farsi sempre più fragile davanti ai suoi occhi, sempre più sottile, come se fosse sul punto di dissolversi dopo che il sogno di giustizia per cui aveva lottato si era trasformato in cenere e macerie insieme alle città distrutte che erano diventate le tombe di quindici milioni di anime. Era vero, era terrorizzata perché non sapeva che direzione la sua vita stesse prendendo. Era piena di aspettative quando aveva lasciato New York con Dan, e ora che vi erano tornati tutte le speranze si erano dissolte per lasciare il posto alla consapevolezza che nessuno di loro sapesse quale fosse il suo posto nel mondo.
Nessuna di queste ragioni, tuttavia, era sufficiente a indurla a togliersi la vita. Si domandava solo come sarebbe stato, ecco tutto. Cosa sarebbe accaduto se avesse deciso di lasciarsi andare? Il suo cervello avrebbe fatto accelerare il suo battito cardiaco, riempiendola di un disperato desiderio di ossigeno? Avrebbe avuto la forza di rimanere sotto fino alla fine? Si sarebbe accorta del sapore dolciastro del sapone nella sua bocca, o sarebbe stata troppo impegnata ad annaspare, cercando aria per vivere ma trovando soltanto una muraglia d’acqua che l’avrebbe uccisa?
Cos’avrebbe fatto Dan, se fosse tornato a casa e avesse trovato il suo corpo che galleggiava sull’acqua, con il ventre rigonfio e le labbra viola arricciate nel grottesco ghigno della morte? Avrebbe urlato? Sarebbe stato il colpo di cui aveva bisogno per ricominciare a vivere davvero, il trauma che gli serviva per aprire gli occhi su come la sua vita gli fosse sfuggita di mano? O sarebbe stato troppo da sopportare?
E poi, dopo che Dan avesse trovato il corpo, cosa sarebbe successo? Sua madre avrebbe annegato il dolore nel Whiskey fino a dimenticare persino di aver mai avuto una figlia. Suo padre – Dio, come odiava pensare quella parola associata al volto di Edward Blake – era morto. Dan, in un modo o nell’altro, non avrebbe sofferto per lei per sempre. Ci sarebbero stati fiori sulla sua tomba per qualche anno, forse per qualche decennio. Delle belle rose rosse a ornare una lastra di pietra, mentre ciò che rimaneva del suo corpo si deteriorava e scompariva per sempre in una cassa di legno nel terreno. Ma poi, passati gli anni, le rose sarebbero diminuite. Lentamente dalle rose si sarebbe passati a fiori meno costosi, cambiati sempre più raramente, aspettando fino a quando i petali marroni fossero caduti tutti sul suolo umido per portarne di nuovi. E un giorno non ci sarebbe stato più nessuno a comprare i fiori per lei. Il vento e la pioggia avrebbero eroso e cancellato via il suo nome dalla lapide e di lei non sarebbe rimasto nulla. Lei sarebbe scomparsa, inghiottita dal tempo distruttore, inesorabile e crudele assassino dei ricordi. E a quel punto che senso avrebbe avuto tutta la sua vita? Tutte le ore passate in palestra per compiacere sua madre che voleva vederla diventare forte e audace, tutte le notti passate nel letto da sola a chiedersi quando Jon sarebbe tornato, tutte le lacrime che aveva versato quando aveva scoperto che Edward Blake era suo padre, tutte le risate fatte con Dan di fronte a un piatto di spaghetti poco cotti in un ristorante le cui le pareti odoravano di pesce? Che senso avrebbero avuto la disperazione, la gioia, l’incertezza che aveva provato in quel barlume fugace che era stato la sua vita, senza nessuno a ricordarle? Che senso avrebbe avuto lottare tanto, indignarsi tanto, soffrire tanto?
Jon aveva ragione. Laurie detestava ammetterlo, ma per un momento poté capire alla perfezione ciò che lui aveva visto: le vite umane non sono nulla, non contano nulla. Sono granelli di polvere che galleggiano sulle correnti del destino, che si lasciano trasportare senza opporsi, senza rendersi conto che non importa dove andranno, non importa cosa faranno, non importa quanto si sentano potenti. Le vite umane non sono belle, né gloriose, né artistiche. Ora Laurie lo vedeva chiaramente, lo sentiva come sentiva il gorgoglio dell’acqua che sgorgava dal rubinetto. Le vite umane sono grottesche, caotiche, disordinate. Gli uomini non sono che bambole gettate alla rinfusa sul pavimento di un asilo, in attesa di essere scoperte, utilizzate, amate per un po’, maltrattate più a lungo, e poi dimenticate in un angolo polveroso, con le tarme che rosicchiano i vestiti e i capelli di nylon ammucchiati sulle piastrelle.
Ci fu un tonfo distante, attutito dall’acqua che premeva sulle sue orecchie, e i suoi pensieri furono spazzati via come foglie secche sospinte lontano dal vento. Le cupe riflessioni vorticarono confusamente nella sua mente, si sovrapposero, sbiadirono e scomparvero, lasciando Laurie con il viso per metà sott’acqua a domandarsi cosa stesse facendo.
‹‹Laurie?›› La voce di Dan la raggiunse insieme all’immediata consapevolezza che il suo nome sulle labbra dell’uomo aveva un suono strano, come strascicato. Anche attraverso la porta chiusa e l’acqua, Laurie capì immediatamente che qualcosa non andava. Il tono dell’uomo non era limpido e pacato come al solito. Sembrava quasi… ubriaco. Laurie si domandò se fosse possibile: Dan era uscito per andare al lavoro, e che lei ricordasse non le aveva parlato di nessuna fermata al bar improvvisata con i colleghi. Era andato a ubriacarsi da solo? Sarebbe stato insolito per lui.
‹‹Sono nella vasca›› urlò lei di rimando dopo qualche secondo, rendendosi conto che probabilmente Dan stava aspettando una risposta.  ‹‹Ora scendo.››
Si alzò, puntellandosi con i gomiti sui bordi della vasca per mettersi in piedi, e mentre cercava a tentoni di raggiungere l’asciugamano più vicino mise un piede sul pavimento. E scivolò. Mormorando un’imprecazione a denti stretti, si aggrappò d’istinto alla vasca, cercando di rimanere in piedi. In qualche modo riuscì a non cadere. Prendendo un respiro profondo e trattenendo a stento un urlo di frustrazione, guardò le piastrelle bagnate. Fece scorrere lo sguardo sul rubinetto della vasca, da cui continuava a sgorgare l’acqua, poi di nuovo sul pavimento allagato. Alzò lo sguardo e nello specchio appannato vide la massa rosa senza contorni che era il suo corpo. Era appollaiata a cavallo della vasca, con una gamba nell’acqua e l’altra tesa sul pavimento, tremando per lo sforzo di rimanere in piedi mentre si protendeva goffamente per chiudere il rubinetto senza cadere. Non aveva bisogno di guardarsi intorno più a lungo per capire che il bagno era completamente, irrimediabilmente allagato.
Fissò intensamente il suo riflesso per qualche secondo, poi scoppiò a ridere. Rise di gusto, senza contegno, piegandosi in avanti fino a rischiare di scivolare ancora. Rise fino a quando i suoi occhi furono pieni di lacrime e i polmoni le dolsero. Poi prese un secondo respiro profondo, inspirando aria sufficiente per urlare: ‹‹Dan! Dan, vieni qua. Potrei avere bisogno di aiuto.›› Trovava difficile scandire le parole senza scoppiare a ridere di nuovo. Non che sapesse perché stava ridendo, in realtà. Non c’era nulla di spassoso: aveva allagato il bagno perché si era persa nei suoi pensieri cupi, e avrebbe passato il resto della serata ad asciugare il disastro che aveva fatto. Era nuda, attorcigliata su se stessa come il più goffo dei contorsionisti, e tutti i vestiti e le salviette che aveva appoggiato accanto alla vasca erano inzuppati e inutilizzabili. Non c’era decisamente nulla di divertente, e forse era proprio per questo che stava ridendo.
Sentì dei passi veloci rimbombare sulle scale e poi sul pianerottolo, seguiti dal suono di una maniglia che veniva abbassata. La porta si aprì, e Laurie guardò incantata l’acqua che scivolava fuori dal bagno e scorreva sul parquet del pianerottolo. ‹‹Oh, merda›› disse con tetra allegria. ‹‹Non ci avevo pensato. Adesso dovrò pulire anche le scale. Ciao, Dan›› aggiunse alla fine, incrociando gli occhi di Dan che la fissavano. Erano rossi e gonfi, come se avesse pianto.
La richiesta di aiuto per uscire dalla vasca le morì in gola. Lui le tese una mano in silenzio e, mentre la afferrava, Laurie pensò che la camicia nuova di Dan si sarebbe inzuppata tutta. Ma di fronte all’espressione dell’uomo, il pensiero svanì immediatamente.
Mettendo entrambi i piedi a terra, Laurie si ritrovò vicinissima a lui. Sentì che Dan avvolgeva le braccia attorno alle sue spalle come si stesse aggrappando a una boa dopo essere stato trascinato al largo dalla corrente, come se la sua stessa vita dipendesse dalla sua capacità di stringerla a sé.
‹‹Cos’è successo?›› chiese, un po’ infastidita perché Dan aveva rovinato il suo perfetto momento di riconciliazione con il mondo, ma preoccupata in misura infinitamente maggiore.
‹‹Sanno tutto di Veidt.››
Lo disse con voce piatta, senza emozione, come se avesse provato nella sua mente quella frase milioni di volte con tutte le possibili intonazioni drammatiche e ora fosse troppo stanco per dare qualunque inflessione alle sue parole.
‹‹Sanno di… Oh, Cristo, Dan.›› Laurie si allontanò di scatto da lui, dandogli le spalle. I suoi piedi minacciarono di slittare di nuovo sul pavimento bagnato, ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Meccanicamente prese un asciugamano e se lo avvolse attorno alla vita. Lo fece lentamente, prendendosi molto più tempo del necessario, come sperando che una volta stretto il nodo avrebbe alzato gli occhi per rendersi conto che tutto si era sistemato e avrebbe potuto ricominciare a ridere per una cosa che non faceva ridere e a preoccuparsi del bagno da asciugare.
‹‹Cristo, Dan. Non puoi entrare qui e dirmi che… Dan, dannazione. Come fanno a saperlo?››
Senza parlare, Dan si sfilò da sotto il braccio un pacchetto stropicciato e glielo tese. Dopo qualche secondo, Laurie si rese conto che si trattava di una copia piuttosto maltrattata del New Frontiersman. C’erano degli strappi sottili ai bordi e al centro, come se la carta fosse stata tormentata a lungo da mani nervose.
La prima pagina era così spiegazzata che Laurie dovette concentrarsi e stringere gli occhi per mettere a fuoco le parole.
La pace è un inganno?” recitava il titolo.
Imponendosi di non pensare, Laurie cominciò a leggere ad alta voce.
‹‹Quanti dei vostri bambini giocano con le action figures di Ozymandias, amici americani? Quanti leggono delle sue imprese nelle vignette a margine dei giornali? E se vi dicessi che Ozymandias, alias Adrian Veidt, è un assassino, un carnefice promotore di un genocidio al soldo dei Comunisti? Comunisti, Dan? Davvero?›› Con un cenno della testa, Dan la invitò a continuare a leggere.
‹‹Grazie all’instancabile redazione del New Frontiersman, è stato ritrovato il diario di Walter Kovacs, conosciuto dal pubblico come il mentalmente instabile vigilante mascherato Rorschach, che suggerisce la partecipazione di Adrian Veidt alla catastrofe che il 2 Novembre 1985 colpì numerose città in tutto il mondo, e nega che il Dottor Jonathan Osterman, noto come il Dr. Manhattan, sia colpevole.››
Laurie accelerò il ritmo della lettura. Più andava avanti, più leggeva velocemente, saltando intere righe, mentre la situazione si faceva sempre più surreale ai suoi occhi. ‹‹Raccolti commenti ufficiosi che sostengono che le insinuazioni di Kovacs possano essere fondate… Nessuna dichiarazione ufficiale ma… Rinvenute prove che collegano Veidt a ricerche che potrebbero essere associate a quanto accaduto nell’85… Pare che Veidt stesse lavorando a stretto contatto con Manhattan nel periodo delle esplosioni, e questo potrebbe implicare una sua responsabilità nell’accaduto… Il popolo americano deve ritenersi ingannato?… Inaccettabile come l’incompetenza delle autorità possa aver permesso all’America di credere erroneamente che Osterman fosse il responsabile… Il popolo chiede giustizia e si domanda: la pace che ha regnato in seguito all’alleanza delle grandi potenze contro il nemico comune rappresentato dal Dr. Manhattan è stata tutta un inganno? Inaccettabile l’idea… Non possiamo escludere che i Comunisti russi siano implicati in questa faccenda, forse addirittura mandanti di questo complotto per evitare una guerra nucleare contro la nostra amata Nazione che sicuramente avrebbero perso. Era tutta una bufala escogitata dai Rossi?... Per concludere con le immortali parole di Bukowski,“È tutta una fregatura. Gli eroi non esistono I vincitori non esistono”. Non fatevi fregare, amici americani. Gli eroi non esistono. Il leggendario Ozymandias, emblema della giustizia privata esercitata dai vigilanti mascherati tanto amati dagli americani, potrebbe essere uno spietato assassino… Il New Frontiersman ha sempre espresso scetticismo riguardo a questi eroi mascherati… Acquistate il numero di domani per rimanere aggiornati. E ricordate, compagni: è tutta una fregatura. Fidatevi solo di voi stessi e del vostro fedele New Frontiersman, che non vi ingannerà mai.››
‹‹Oh, mio Dio, Dan. Scopriranno tutto›› sussurrò Laurie, stringendo violentemente il giornale fra le mani. Era sospesa a metà fra uno stato di incredulità e indignazione. Avrebbe voluto dare un pugno al giornalista del New Frontiersman, in parte per sfogare il senso di frustrazione che le stava crescendo nella mente e in parte perché ricordava benissimo come il giornale fosse sempre stato favorevole ai vigilanti mascherati, a dispetto di quanto scritto nell’articolo, quando era stato conveniente esserlo. Lo sguardo che Dan le rivolse, tuttavia, le fece dimenticare immediatamente la sua furia, lasciandola in balia dell’angoscia.
‹‹Hanno già scoperto tutto. Ne parlano su ogni canale, in ogni giornale. Questo è di otto ore fa. Ora sanno praticamente tutto. Nel momento in cui hanno avuto il sentore della notizia, tutti i media si sono precipitati a indagare, e così le autorità si sono sentite in dovere di fare altrettanto: Adrian è un simbolo, l’incarnazione di tutte le aspirazioni americane. Chi avrebbe potuto resistere alla tentazione di dimostrare pubblicamente che in realtà è malvagio?››
‹‹Merda. Cosa facciamo?››
‹‹Cosa facciamo? Cosa vuoi fare, Laurie? È finita. È tutto finito. Quindici milioni di persone morte, e non è servito a nulla. A nulla. Non hanno nemmeno finito di ricostruire New York, ed è tutto finito. Hai letto anche tu, no? Stanno dando la colpa ai Russi. E i Russi incolperanno gli Americani. Allora gli Americani diranno che i Russi avevano degli alleati; li cercheranno e li troveranno, e questi a loro volta daranno la colpa agli Americani e ai loro alleati, e avanti così, all’infinito, fino a quando qualcuno premerà un bottone rosso e una bomba nucleare ci ridurrà a polvere e cenere radioattiva e nient’altro. Il problema è che Adrian è americano. Jon era americano, ma nessuno lo vedeva come un tale; era un superuomo, o un dio, o un mostro, ma non era un uomo e per questo non aveva nazionalità. Jon era il perfetto nemico comune. Ora, la guerra ricomincerà e noi siamo già morti.››
‹‹Dan…›› bisbigliò Laurie, prendendogli il viso fra le mani. Dan rimase immobile, ma le sue labbra tremavano. ‹‹C’è sempre una via d’uscita. Sei stato tu a insegnarmelo. Io avevo lasciato tutto, avevo abbandonato tutto, e tu mi hai convinta a riprendere questa vita. Mi ero arresa e tu mi hai ridato la speranza. Ero sola, senza futuro, senza Jon, senza niente. Sei stato tu a mostrarmi che c’era ancora una via. E persino dopo la catastrofe, tu non mi hai permesso di arrendermi. E ora sei tu che vuoi arrenderti? Vuoi abbandonare tutto quello per cui abbiamo lottato, per cui Nite Owl e Silk Spectre hanno lottato?››
‹‹Nite Owl secondo e Silk Spectre seconda›› precisò Dan.
‹‹Come?››
‹‹Non siamo Nite Owl e Silk Spectre, Laurie. Siamo solo delle imitazioni, delle copie. Tua madre era Silk Spectre e Hollis Mason era Nite Owl; Mason è morto, quindi Nite Owl non esiste più. Sono solo un fantasma, la pessima imitazione di un uomo morto. Cosa può fare un fantasma contro una guerra nucleare?››
Laurie urlò, gettando a terra il giornale. Lo vide assorbire l’acqua, raggrinzirsi, sfaldarsi. Mentre lo guardava, tutta la rabbia che aveva provato ascoltando le parole di Dan si spense.
‹‹Dicono che il diario di Rorschach sia rimasto al New Frontiersman per cinque anni. Cinque anni, capisci? E sai cos’altro? Fra una settimana il New Frontiersman cambierà sede. Se il diario fosse stato dov’era per un’altra settimana, probabilmente sarebbe rimasto lì per sempre, o sarebbe stato gettato via. Una settimana. Ecco cosa separa la pace dalla Terza Guerra Mondiale: una settimana. E chissà quante volte qualcuno si è avvicinato quel diario, l’ha visto e l’ha dimenticato. Quante volte questo momento è stato sul punto di accadere e poi non è accaduto, scomparendo fra le infinite possibilità degli “e se?”. Magari qualcuno l’ha anche preso in mano, quel diario. L’ha preso in mano e poi l’ha rimesso giù perché gli è venuta fame ed è andato a mangiare una bistecca, o perché gli sono cadute le chiavi, o chissà cos’altro. È tutto così assurdo. Sarebbe bastata una settimana, una soltanto.››
Laurie affondò il viso nella spalla di Dan, sentendo la camicia che si attaccava al suo volto. Fu così che si rese conto di essere scoppiata in lacrime. Alzò lo sguardo, e vide che anche Dan piangeva. Il suo petto sobbalzava per i singhiozzi e quello di Laurie seguiva il suo ritmo.
‹‹Pensi che lo rivedremo?›› domandò all’improvviso Dan dopo un po’. Laurie alzò il viso, senza allontanarlo dal suo petto.
‹‹Chi?››
‹‹Rorschach. Pensi che Jon lo abbia mandato in un posto migliore? “In un posto migliore”. Come suona stupido. Pensi che anche noi andremo in un posto migliore, Laurie? Io non voglio andarci. E Jon? Rivedremo Jon? Pensi che si accorgerà di quello che accadrà? O che magari lo sappia già?››
‹‹Non lo so›› disse Laurie, la voce spezzata. ‹‹Non lo so, e non lo voglio sapere.››
Si allontanò da lui di scatto, si aggiustò l’asciugamano attorno al corpo bagnato e si asciugò le lacrime con un gesto deciso.
‹‹Mi dispiace, Laurie. Ho esagerato. Io… io non intendevo dire che non c’è speranza. Non volevo spaventarti.››
‹‹Portami fuori a cena, Dan›› disse, alzando con decisione lo sguardo sul volto di lui.
‹‹Cosa?››
‹‹Portami a cena fuori. Se la guerra può scoppiare da un momento all’altro, non voglio morire piangendo in un bagno allagato con addosso un asciugamano. Se moriremo, voglio morire felice. Portami a cena fuori, Dan, e fingiamo che vada tutto bene. Fingiamo di essere felici, e forse a un certo punto ci crederemo anche noi. Indosserò il mio abito migliore e sarò felice, e tu farai lo stesso.››

 
***

‹‹… E come si è arrabbiata mia madre, quando è tornata a casa e ha visto come avevo ridotto il suo costume. Avresti dovuto vedere la sua espressione! Sembrava uno di quei cattivi dei cartoni animati con il fumo che esce dalle orecchie e gli occhi che vanno a fuoco. Avrei giurato che fosse sul punto di trasformarsi in un drago, e per almeno due settimane ho dormito con la luce accesa per paura che lei entrasse sputando fuoco e mi mangiasse.›› Laurie scoppiò a ridere ancora prima di aver terminato la frase. ‹‹Okay, okay, adesso la smetto. Non so perché io mi stia prendendo in giro da sola. Giuro che adesso smetto di rid- ›› Scoppiò a ridere di nuovo, interrompendo la frase a metà. ‹‹Perdonami. Erano mesi che non ridevo così. Mi ricorda il nostro primo appuntamento: è piacevole. Dovremmo uscire più spesso›› esclamò Laurie. Un istante dopo, si rese conto di ciò che aveva detto e si coprì la bocca con la mano.
Il sorriso di Dan vacillò un poco.
‹‹Scusa. È stato inopportuno. Avevamo promesso di non pensare a… quello.››
Dan costrinse le sue labbra ad arricciarsi in un sorriso, pensando velocemente a un modo per nascondere il pensiero che aveva colpito entrambi. Il pensiero che, con ogni probabilità, non ci sarebbe stata un’altra uscita, perché sarebbero morti prima. Non era una prospettiva particolarmente allettante.
‹‹Non preoccuparti, Laurie. È solo che non sono sicuro di poterti portare fuori a cena tutte le sere, sai. Non ho il conto corrente di Adrian. Ah.›› Questa volta fu il turno di Dan di coprirsi la bocca. ‹‹Ah. Accidenti, l’ho fatto anch’io. Scusa.››
‹‹Non preoccuparti, Dan. Sono stata io la prima a parlarne.›› Laurie s’interruppe per qualche istante, come domandandosi se andare avanti o no. Alla fine, proseguì. ‹‹Ci stai pensando anche tu? Ad Adrian, e a… al resto.››
‹‹Un po’. È solo che… Voglio dire, mi domando cosa farà ora. Gli stavano facendo pressione perché si candidasse al Congresso, ti rendi conto? Al Congresso. La cosa ridicola è che cinque anni fa gli avrei dato il mio voto senza pensarci due volte. È buffo, no? Io l’avrei votato se non avessi saputo che ha ammazzato quindici milioni di persone, e tanti altri lo avrebbero votato, perché loro non sapevano. E invece ora sanno.››
‹‹Pensi che avesse previsto questa possibilità? Che avesse un piano di riserva?››
‹‹Sinceramente, Laurie, non lo so. Non solo non lo so: non capisco. È che…›› Dan fece una pausa, riflettendo. Come si poteva esprimere a parole l’orribile sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nell’intera faccenda, qualcosa che andava oltre la semplice paura del futuro? ‹‹Mi sembra che mi stia sfuggendo qualcosa. Voglio dire, non posso evitare di chiedermi se davvero Adrian non abbia potuto fare nulla per depistare le indagini, per proteggere la sua menzogna. Cioè, avrebbe potuto pagare qualcuno che dimostrasse che il diario di Rorschach è un falso, o qualcosa del genere, no?›› disse Dan ad alta voce, poi tacque per qualche istante. Nella sua mente, la riflessione proseguì assumendo sfumature più cupe. Davvero Adrian non era stato in grado di concepire un piano che resistesse all’assalto della natura umana, dell’istinto autodistruttivo dell’uomo di conoscere anche ciò che lo porterà inevitabilmente alla distruzione? Nessuna opera concepita dall’ingegno umano era dunque infallibile, nemmeno la più accurata? Era questa la spiegazione? Se così fosse stato, considerò Dan con una punta di amarezza, Adrian non avrebbe potuto scegliere per sé nome più accurato di Ozymandias[2]. Ma era proprio così? Non era possibile, forse, che ancora una volta il grande Adrian Veidt avesse visto più in là di tutti e deciso che, se l’umanità voleva condannarsi con le sue stesse mani, era giunto il momento di smettere di lottare per salvarla? Aveva forse pensato che, se il genere umano non voleva essere protetto, la Terra meritasse che agli uomini succedessero creature più degne di salvezza? Era un pensiero sconcertante e terrificante. L’homo sapiens sapiens era davvero così ottuso, lento, ignobile da non meritare una seconda chance?
Dan non aveva una risposta. Aveva il presentimento che non avrebbe mai saputo la verità e che avrebbe passato il resto della sua esistenza domandandosi cosa Adrian avesse visto in quel disegno incomprensibile che è la realtà e che a lui fosse sfuggito.
Si rese conto che Laurie lo stava fissando, aspettando che continuasse. Aprì la bocca, domandandosi se esistessero delle parole capaci di dare una forma meno spaventosa ai suoi dubbi.
‹‹Vuoi sapere se secondo me si aspettava questa storia e si è fatto costruire un rifugio antiatomico?›› intervenne Laurie, vedendo che lui taceva. Dan esitò per un istante, poi decise di annuire. Non era la verità, ma sarebbe andata bene lo stesso.
‹‹Non lo so›› continuò lei. ‹‹Per qualche motivo, non credo. E non so come questo mi faccia sentire. Voglio dire, che differenza farà? Che differenza farà, alla fine di tutto, che Adrian Veidt viva o muoia? Eppure…››
Dan allungò istintivamente una mano per prendere quella di Laurie. Anche ora che tutto era perduto, desiderava proteggerla. Desiderava proteggerla più di quanto desiderasse esprimere la sua frustrazione per quella situazione così assurda. Voleva rassicurarla, anche se non aveva idea di come potesse farlo ora che entrambi sapevano con certezza assoluta e disincantata cosa il futuro avesse in serbo per loro.
Istintivamente, lei ritrasse la mano.
Calò il silenzio. Laurie scostò lentamente la sedia e fece per alzarsi, fermandosi un istante per controllare se Daniel stesse facendo altrettanto. Lo stava facendo.
‹‹Mi dispiace.››
‹‹Non preoccuparti, Laurie. E poi ormai è tardi, saremmo dovuti andare via in ogni caso. Domattina mi devo alzare presto per andare al lavoro, e dobbiamo ancora asciugare il pavimento del bagno›› rispose lui, sorridendo. Laurie gli rivolse a sua volta un sorriso pieno di gratitudine.
Pochi minuti dopo, stavano camminando attraverso le strade di New York. Erano nella parte migliore della città: lì le vie erano illuminate, le persone felici, l’aria fresca e libera dall’odore di calcinacci e cemento che anche dopo cinque anni non aveva ancora abbandonato le zone distrutte.
Laurie aveva preso la mano di Dan nella sua e sorrideva in silenzio al suo fianco, godendosi la sensazione del palmo ruvido di lui contro il suo e della brezza fredda che le mordeva le guance.
Era una notte limpida, con il cielo punteggiato di stelle brillanti e l’aria carica delle chiacchiere spensierate di chi camminava per la strada. Laurie non poteva fare a meno di domandarsi quante delle persone che passavano accanto a loro sapessero. Si chiedeva quante di loro avessero intuito che la scoperta dell’innocenza di Jon era ben più di uno scandalo politico. Chissà quante delle donne che camminavano vicino a lei, mano nella mano con i loro mariti, avevano provato la sensazione che qualcosa di orribile stesse per accadere e per questo avevano guardato i loro compagni negli occhi e avevano chiesto loro di portarle a cena fuori per non pensare ai cattivi presentimenti e per essere felici, così come lei stessa aveva fatto.
Lasciarono le strade principali, inoltrandosi in quella parte meno illuminata e meno sicura della città in cui avvenivano le loro ronde quando ancora erano vigilanti mascherati.
‹‹Mi ricorda i bei vecchi tempi›› osservò Laurie, interrompendosi un attimo per ascoltare lo squittio lontano di un topo che faceva da sottofondo alle sue parole.
‹‹Nite Owl e Silk Spectre nei quartieri malfamati. Sembra l’inizio di una storia a fumetti degli anni ’50›› commentò Dan.
‹‹O di una pessima barzelletta.››
Ci fu qualche istante di silenzio, mentre Dan si chiedeva se fosse opportuno porre la domanda che era sorta nella sua mente. Alla fine, decise di tentare. ‹‹Credi che avremmo dovuto continuare con questa vita? Dopo l’esplosione, intendo. Avevamo appena ricominciato, e…››
‹‹Abbiamo passato due anni girando le città colpite e aiutando in ogni modo possibile. Non ti sembra che equivalga a fare il giustiziere mascherato? Abbiamo aiutato le persone, lo sai. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare. Se non l’abbiamo potuto fare mascherati è perché dopo il 2 Novembre il mondo non aveva bisogno di supereroi: aveva bisogno di persone comuni che fossero disposte ad aiutare, e noi l’abbiamo fatto.››
Dan rise piano.
‹‹Che c’è?››
‹‹Sei sempre stata l’unica di noi ad usare quella parola. “Supereroi”. Non credo che nessun altro l’abbia mai pronunciata, neanche nella vecchia guardia dei Minuteman. È così che ci vedi? Come supereroi?››
Laurie gli sorrise calorosamente, appoggiando la testa sulla sua spalla. ‹‹Ho sempre visto te come un supereroe. Questo ti basta?››
‹‹Non sono un eroe. Tu sei la vera eroina, qui. Forte, agile, intelligente.››
‹‹Essere forte non fa di me un’eroina. Fa di me una che da bambina è stata lasciata troppe volte in palestra dalla madre che voleva vederla combattere il crimine. Tu sei l’eroe. Sei l’eroe perché non ti sei mai tirato indietro. Dio, sei l’unico di noi ad avere ancora un po’ di senno, a non aver completamente perso la testa.››
‹‹Come fai a essere sicura che io non abbia perso la testa?››
‹‹Beh, tanto per cominciare stai ancora insieme a me, no? Questo è un buon segno››
Dan rise, e mentre rideva Laurie sentì che la presa delle dita che avvolgevano la sua mano si faceva più vigorosa, più sicura.
Avanzarono in silenzio per qualche minuto, emergendo lentamente dalla parte buia della città per tornare nel quartiere borghese dove abitavano. Lì i palazzi erano più bassi rispetto al centro, ma non avevano l’aspetto fatiscente degli edifici dei sobborghi. Dan faceva scorrere gli occhi sulle facciate bianche delle case, mentre pensava che New York negli ultimi tempi aveva un aspetto più pacato e accogliente che mai, come se il generale clima di pace che era sceso sul mondo avesse placato un po’ anche la frenesia newyorkese. Si domandava per quanto quest’atmosfera sarebbe durata, ora.
Mentre la sua mente si soffermava su questi dubbi, il pensiero di essere stato in qualche modo complice di queste menzogne lo tormentava, ronzando in sottofondo alle sue riflessioni e facendogli contrarre lo stomaco per il senso di colpa. Non aveva mai smesso di pensare a quanto era accaduto, naturalmente. Non ricordava un singolo giorno in quei cinque anni in cui qualcosa non gli avesse ricordato ciò che aveva visto in Antartide. Prima di quel giorno, però, era riuscito a tranquillizzare la sua coscienza dicendosi che l’alternativa sarebbe stata peggiore: l’alternativa sarebbe stata l’estinzione totale della razza umana. Il pensiero non compensava le vite perdute, non metteva a tacere il rimorso, ma lo faceva sentire meglio quel tanto che bastava per condurre un’esistenza soddisfacentemente tranquilla e ordinaria.
Ora non aveva più quel pensiero per placare la parte di se stesso che da un angolo della sua mente gli domandava se questo fosse il suo lascito al mondo: aver contribuito a tessere la rete di menzogne che ora era crollata lasciando il pianeta sull’orlo della fine. E, in tutta onestà, Dan non sapeva cosa ribattere né era in grado di allontanare il pensiero. Fu così che subentrò, melliflua, un’altra voce della sua coscienza, una voce che parlava secondo l’istinto di autoconservazione, secondo il bisogno umano di tirare fuori il meglio anche dalle situazioni più disperate e il desiderio di illudersi sapendo di illudersi per poter continuare a vivere con se stessi. Questa voce gli diceva che non era necessario affrontare il senso di colpa da solo, che non era necessario continuare a tormentarsi in silenzio; gli diceva che non ci sarebbe stato nulla di male se avesse tentato di lasciarsi convincere da qualcun altro che non fosse stato tutto inutile. Dopotutto, considerata la situazione, Dan non avrebbe dovuto convivere con se stesso ancora per molto tempo, e questa consapevolezza accresceva il bisogno di dare un significato a quello che era accaduto e a quello che stava per accadere. Che male c’era nel farsi aiutare in questo?
Paradossalmente, l’unica persona che potesse aiutarlo era forse quella che, fra tutti gli abitanti del Pianeta, Dan desiderava incontrare meno.
Era anche vero, tuttavia, che ci stava pensando da quando ne aveva parlato con Laurie a cena.
‹‹Dan?›› domandò Laurie, lanciandogli un’occhiata interrogativa. Dan si chiese distrattamente che espressione dovesse aver fatto mentre rifletteva per aver indotto Laurie a fermarsi.
‹‹Io… vorrei fare una cosa. È un’assurdità, ma…››
Lei gli fece un cenno, incoraggiandolo a continuare.
‹‹Vorrei parlare con Adrian.››
Laurie annuì. ‹‹Possiamo prendere la mia macchina.››
Dan la guardò, sorpreso. ‹‹Sembra quasi che stessi aspettando che io lo dicessi. Sono così prevedibile?››
‹‹No, è che… Non so. Mi sembrava… logico. Mi sembra che abbia senso. O forse appoggio la tua idea perché vorrei sentire da Adrian che non è stato inutile aiutare le città colpite e nemmeno mantenere il silenzio. Parla così bene che potrei anche finire con il crederci, e penso di averne bisogno. Allo stesso tempo, lo detesto con tutta me stessa per ciò che ha fatto. È così anche per te?››
Dan sorrise, colpito dalla perspicacia della donna.
‹‹Però guido io›› aggiunse Laurie. ‹‹Tu sarai l’unico in grado di pilotare decentemente Archie[3], ma per le strade non sei altrettanto imbattibile alla guida.››
Risero entrambi, e mentre ridevano Laurie dovette scacciare da un angolo della sua mente l’orribile e ingiustificata sensazione che quella fosse la loro ultima risata insieme.

 
***

Capirono di non avere alcuna possibilità di parlare con lui nel momento esatto in cui svoltarono e si trovarono in mezzo alla folla che si era accalcata di fronte all’ingresso della Veidt Tower.
La gente si spingeva e schiamazzava come se stesse prendendo parte a una rivolta. I poliziotti tenevano lontana la folla dall’entrata del palazzo, facendo da barriera fra la calca infuriata e urlante e le porte che proprio in quel momento si stavano aprendo.
‹‹Forse dovremmo…›› cominciò Laurie, ma s’interruppe non appena guardò Dan negli occhi. Il suo sguardo era distante, come se i suoi pensieri non volessero mettere a fuoco la scena a cui stava assistendo.
Laurie sapeva cosa stesse passando per la mente del compagno: era diviso fra il turbamento causato dal vedere quello che era stato un amico venire accompagnato in manette a una volante della polizia, la consapevolezza che questo era esattamente ciò che Adrian si meritava per quanto aveva fatto, l’orrore per il ricordo di aver sempre saputo tutto e la frustrazione per l’essersi recati lì inutilmente. C’era una sorta di giustizia legata saldamente all’ingiustizia in quella scena, come quando si assiste alla corretta ed equa conseguenza di qualcosa che nella sua esistenza è profondamente sbagliato. Era la certezza che tutte le parti presenti in quel momento avessero ragione allo stesso modo nei loro punti di vista opposti e inconciliabili: aveva ragione Dan, che era andato lì in cerca di un’illusione di redenzione; avevano ragione le autorità, che anche all’alba dell’apocalisse non avevano abbandonato il loro dovere nei confronti dei cittadini – Dan aveva quasi dimenticato, dopo anni di consapevolezza che il mondo fosse ignaro, che ora che tutti erano a conoscenza di ciò che Adrian aveva fatto la questione sarebbe passata nelle mani della Giustizia, come sarebbe dovuto essere fin dall’inizio; aveva ragione la folla che urlava contro Adrian, chiamandolo assassino, mentre si accalcava ai lati della strada e tentava di aprirsi un varco; in un certo senso, secondo la sua logica distorta, aveva ragione anche Adrian, con la sua certezza di aver agito nell’unico modo possibile. Ne era ancora convinto, Dan poteva leggerlo nei suoi occhi e nella postura del suo corpo: avanzava senza opporsi né cercare di rifugiarsi nella volante per sfuggire alla folla, mentre sul suo viso era dipinta la stessa espressione di pacata sicurezza che aveva mostrato quando si era lasciato colpire a Karnak. Tuttavia, Dan era convinto che, per quanto Adrian accettasse con serenità di essere condotto via dalla polizia, vedere il suo grande sogno di un mondo unito nella pace andare in pezzi lo avesse turbato profondamente, più di quanto Dan stesso potesse comprendere.
Il clamore si faceva sempre più intenso mentre Adrian avanzava. Laurie e Dan si erano ritrovati all’improvviso risucchiati dalla folla di persone, come le vittime di un vortice sono trascinate sul fondo del fiume prima ancora di accorgersi di essere state catturate. Istintivamente, Dan prese la mano di Laurie, per non rischiare di essere separato da lei. Il gesto fece dissolvere il turbine di pensieri, lasciando che l’uomo tornare alla realtà.
‹‹Mi dispiace averti fatto venire qua per niente›› disse.
Lei annuì, intuendo che Dan le stava chiedendo di portarlo via senza trovare un modo di esprimere la richiesta a parole. Cominciarono a farsi largo fra la gente, scusandosi a voce sempre più alta per farsi sentire mentre il boato di voci raggiungeva la sua massima potenza. Ma ogni volta che riuscivano ad avanzare di qualche passo venivano brutalmente ricacciati indietro, fino a quando si trovarono quasi in prima fila, abbastanza vicini da vedere le manette luccicare ai polsi di Adrian. Dan si ritrovò a pensare che quelle manette fossero assolutamente inutili per due ragioni: innanzitutto, se Adrian avesse voluto scappare, non sarebbero stati due bracciali di metallo a fermarlo; in secondo luogo, era chiaro che non aveva la minima intenzione di fare resistenza: non ne aveva alcun motivo.
In quell’istante, Adrian rivolse lo sguardo nella sua direzione. Dan vide una scintilla di consapevolezza accendersi nei suoi occhi, facendo vacillare per qualche istante la maschera di apatia, ed ebbe l’impressione di vederlo annuire. Per un momento pensò che quel gesto significasse che Adrian si aspettava che il suo vecchio amico venisse ad assistere al suo arresto, ma subito si accorse che in realtà non stava guardando esattamente verso di lui: il suo sguardo era puntato leggermente più a destra, anche se di poco. Istintivamente anche Dan guardò in quella direzione e vide un uomo massiccio che agitava i pugni facendo tendere pericolosamente la stoffa della camicia all’altezza delle spalle, una donna anziana tutta rossa in viso che urlava, una donna di mezza età che teneva lo sguardo fisso sulla nuca di Adrian e le mani giunte davanti a sé, come se stesse pregando. Fu quest’ultima ad attirare la sua attenzione, anche se Dan non avrebbe saputo spiegare esattamente perché. C’era qualcosa di curioso nel modo in cui si muoveva appena, nel modo in cui incrociava le dita, nel modo in cui la luce si rifletteva sulle sue mani…
Reagì ancora prima di aver completato il pensiero. Ancora prima che la sua mente riconoscesse con precisione la sagoma della pistola, Dan stava scattando verso la donna, spingendo di lato le poche persone che si frapponevano fra loro. Agì così in fretta da dimenticarsi di lasciare la mano di Laurie fino all’ultimo momento, fino a quando dovette staccarsi da lei per afferrare i polsi della donna. La sconosciuta cercò di sottrarsi alla sua presa ed entrambi caddero sull’asfalto. In un’altra situazione, Nite Owl sarebbe stato in grado di disarmarla con rapidità infinitamente maggior, senza darle nemmeno il tempo di accorgersi di essere stata attaccata; la folla, tuttavia, limitava drammaticamente le sue possibilità di movimento, sia togliendogli spazio per muoversi sia obbligandolo a trattenersi per evitare che qualcuno fosse ferito accidentalmente.
La donna urlò, si dimenò, cercò di colpirlo con un calcio. Le dita di Dan si strinsero attorno alla pistola mentre la gente attorno a loro si ritraeva, in preda a un attonito terrore.
‹‹Ha ucciso mia figlia!›› urlò la donna, la voce spezzata dallo sforzo di allontanare la pistola dalla portata Dan. ‹‹Mia figlia era a New York! È morta per colpa sua!›› Diede uno strattone più forte, ribaltandosi e facendo perdere l’equilibrio anche a Dan, che cadde sopra di lei.
All’improvviso, il mondo sembrò trattenere il respiro.
Laurie sentì prima le gocce di sangue caldo bagnare il suo volto e le sue braccia. Solo un istante dopo si rese conto che il sangue era stato preceduto da un fragore assordante, come di un grosso fuoco d’artificio che venga acceso. Sentì il sangue e pensò che non provava dolore. Non ne provava affatto, se non nella consapevolezza di quanto fosse ridicolo che la sua vita finisse a causa di un proiettile sparato per errore. Le ci volle qualche attimo per rendersi conto che no, non c’era nessun foro di proiettile nel suo corpo. Ne impiegò di più per capire che questo significava che non si trattava del suo sangue. Appena questo pensiero le attraversò la mente, colpendola con la forza di un pugno nello stomaco, alzò lo sguardo su Dan e vide che Dan non era più di fronte a lei.
Le sue gambe si piegarono senza che lei si rendesse conto di essersi chinata, mentre le sue braccia annaspavano verso Dan. Dan che era sdraiato a terra, Dan che aveva la camicia inzuppata di sangue, Dan che no, dannazione, no, non respirava.
Le mani di Laurie si strinsero attorno al petto dell’uomo, macchiandosi di sangue fino ai gomiti. Ovunque guardasse, Laurie vedeva rosso. Rosso sulla sua pelle, rosso sotto i piedi della folla che le si accalcava attorno, rosso sull’asfalto rugoso del marciapiede.
Laurie si sentì strattonare e spingere, senza riuscire a reagire. Mormorò: ‹‹No›› e non sapeva se significasse “no, lasciatemi qui” o “no, non è successo” o “no, Dan, non lasciarmi qui da sola”.
Sentì delle mani che afferravano le sue spalle e cercavano di allontanarla da lui. Le rimbombava nelle orecchie un miscuglio di urla e sussurri gentili, ma né gli uni né gli altri acquistavano senso nella sua mente. Tutto era una confusione indistinta di suoni e immagini sfocate e sangue e “non è vero, non è successo, è tutto un incubo e ora mi sveglierò” e “è vero, invece, è tutto vero. È morto. Morto morto morto.” Quella parola rimbombava nella sua testa, rimbalzando fra i suoi pensieri con la potenza distruttiva di una palla di cannone e annullando tutto il resto.
Laurie socchiuse le labbra per parlare, ma non uscì nessun suono. Dan era immobile davanti ai suoi occhi. Non c’era stato tempo per tentare di salvarlo, per rassicurarlo, per dirgli addio. Per dirgli che non sarebbe finita così, assolutamente no, che sarebbe andato tutto bene o che sì, dannazione, quel maledetto articolo aveva ragione dicendo che è tutta una fregatura ma che no, questa non era la fine, non lo era. Non c’era stato il tempo di mentirgli né di mentire a se stessa.
Era tutto finito nel momento esatto in cui era iniziato. La sua mente lo sapeva, l’aveva compreso nel momento esatto in cui aveva visto che il petto di Dan era immobile. Lo sapeva, ma non voleva accettarlo. Il mondo sembrava vorticare davanti ai suoi occhi, contorcendosi e andando in frantumi.

 
***
 
New York, 10 ottobre 1990
La nebbia era densa come fumo e nera come inchiostro. Si insinuava nei suoi occhi, nella sua bocca, nei suoi polmoni. Ogni boccata d’aria che inspirava le dava la sensazione che la sua trachea si stesse riempiendo di cenere.
Laurie chiuse immediatamente gli occhi, spaventata, o almeno così pensò di aver fatto. Eppure la nebbia era ancora lì, impenetrabile, e per un istante Laurie si domandò se la nebbia fosse davvero davanti ai suoi occhi e non parte di lei.
Lentamente, si rese conto di stare riacquistando la vista. La nebbia si stava facendo più rarefatta, fino a scomparire quasi del tutto. Rimaneva soltanto una piccola nuvola di foschia, quasi uno sbuffo, che galleggiava di fronte ai suoi occhi.
Non era nebbia, si rese conto Laurie. Era fumo, che si gonfiava e appiattiva ritmicamente, danzando in volute sottili.
In un istante, Laurie fu di fronte al fumo. Non ricordava come fosse arrivata così vicino. In realtà, ora non era nemmeno sicura di non essere stata in quel punto fin dal principio, china su una catasta di legno che si anneriva sotto una pioggia di scintille. Senza sapere perché, allungò la mano. Per qualche ragione, non temeva di scottarsi. Non si scottò. Osservò le scintille che si avvolgevano attorno alle sue dita e sembravano attirarla verso la catasta, sussurrandole dolcemente di scostare qualche ramo. Laurie obbedì immediatamente, stringendo la frasca più vicina fra le dita e facendola scivolare a terra.
E la legna all’improvviso non fu più legna. Ora era un corpo morbido e candido, steso a terra come un fantoccio gettato sull’erba.
Laurie urlò, e questa volta sentì la propria voce rimbombare e riempirle le orecchie.
Il corpo si mosse. Le lunghe gambe bianche si distesero, il torso ruotò. Le braccia fecero leva sul terreno, il volto si sollevò.
Laurie urlò di nuovo. Non avrebbe voluto urlare. Non avrebbe dovuto urlare, perché non provava paura. Eppure, quando il corpo la guardò e lei vide che no, non era un corpo, era il suo corpo, con il suo volto e i suoi capelli e i suoi occhi, urlò. Un istante dopo, si accorse di essersi sbagliata: sapeva con certezza che si trattava del suo corpo, ma sapeva con altrettanta sicurezza che quelli non erano i suoi occhi. Stava guardando se stessa, come se fosse stata puro spirito che fluttuava sopra il suo cadavere abbandonato sul terreno, ma la figura che stava contemplando non aveva i suoi occhi. Non aveva affatto gli occhi: al loro posto c’era una luce bianca, pulsante. Era una luce che non sembrava nemmeno una luce, perché pareva avere massa, contorni, volume. Come se Laurie avesse potuto allungare la mano e stringerla fra le dita.
‹‹Eccoci qui, alla fine di tutto›› disse il corpo. Non era la voce di Laurie, tuttavia, quella con cui parlò, anche se si trattava di una voce che per lei era altrettanto familiare.
Laurie sbatté le palpebre, e si accorse che ora non stava più guardando se stessa: c’era Dan seduto a terra, con la testa china verso il terreno.
Corse verso di lui. Perché era così lontana? Avrebbe giurato di essere stata a pochi passi da lui un istante prima. Corse, ma non riusciva ad andare avanti. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a respirare.
Con un rantolo, si strinse le mani al petto e cadde in ginocchio.
Quando guardò di nuovo le sue mani, erano rosse di sangue. C’era sangue anche a terra, che scivolava giù dalle sue gambe fino al suolo in spesse lacrime cremisi.
Ma non era a lei che avevano sparato, pensò in un istante di lucidità. Eppure quello era il suo sangue, sapeva che era il suo sangue. Eppure non era lei che era dovuta morire.
‹‹Dan. Oh, no, Dan. Tu sei morto›› disse, o forse lo pensò soltanto. Forse gridò.
Come se l’avesse sentita, la sagoma di Dan davanti a lei alzò il capo, rivelando al posto degli occhi le stesse sfere brillanti di luce che Laurie aveva visto sul viso della sua sosia pochi attimi prima. La luce tremò e cominciò a crescere, consumando il viso di Dan, bruciando la sua pelle. Laurie si voltò per fuggire, ma la luce era anche di fronte a lei. Era ovunque e si stava avvicinando, distruggendo tutto ciò che toccava.
La luce pulsò, si contrasse, si espanse. In un istante le fu addosso, stringendola in un abbraccio mortale. Laurie sentì che il suo corpo veniva divorato, dissolvendosi in ogni sua cellula. Poteva vedere con una chiarezza terrificante la pelle che si scioglieva, la carne che si dissolveva, le ossa che si trasformavano in cenere.
Alla fine di tutto.
Ebbe un sussulto e aprì gli occhi.
Il primo pensiero lucido che ebbe quando i suoi occhi misero a fuoco la camera attorno a lei fu che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in quel sogno. Il secondo pensiero fu l’amara considerazione che non fosse solo il sogno a essere sbagliato: era tutto sbagliato. Era sbagliato il modo in cui la sua mano stesa al suo fianco non era posata sul petto di Dan, il modo in cui la luce entrava nella stanza dal lato sbagliato, il modo in cui il letto sembrava particolarmente rigido sotto la sua schiena. Poi, la consapevolezza di non essere nella camera da letto ma nel salotto, sdraiata sul divano.
Non era più riuscita a dormire nel suo letto, ricordò, da quando era rimasta sola. “Sola”. Ancora non si era abituata a pronunciare quella parola nella sua mente: le sembrava un eufemismo ridicolo. Le sembrava che non rendesse giustizia a come lei si sentisse strappata dal mondo, ora che non aveva più legami con esso. Per un momento, si domandò se fosse così che Jon si era sentito prima di fuggire su Marte. Lei, però, non poteva fuggire. Non c’era rifugio che potesse proteggerla dal senso di solitudine che le dilaniava la mente.
Le sembrava di aver vissuto i giorni che la separavano da quell’assurdo momento in un limbo, sospesa fra la realtà e il nulla, galleggiando in una bolla onirica sopra il mondo. Era come se un sogno fosse uscito all’improvviso dal suo subconscio e l’avesse inghiottita, proiettandola in una dimensione dove tutto era troppo orribile per essere reale, troppo simile ai suoi incubi peggiori per essere vero. Si sentiva come se avesse avuto la certezza che da un momento all’altro avrebbe aperto gli occhi, si sarebbe messa a sedere sul letto e avrebbe sentito il respiro caldo e rassicurante di Dan accanto a sé. Eppure il tempo passava, e questo non accadeva. Le lancette correvano sul quadrante dell’orologio, il Sole sorgeva e tramontava, e lei tratteneva il respiro in attesa del momento del risveglio che non voleva decidersi a giungere. “Ma non può essere accaduto sul serio”, diceva a se stessa. Era stato troppo improvviso, troppo surreale. Laurie non conosceva nemmeno la donna che aveva premuto il grilletto. A parte il dolore che aveva letto nei suoi occhi e udito nel suo gemito disperato, di lei non sapeva nulla.
E poi la consapevolezza. Devastante come un’esplosione, crudele come una coltellata fra le scapole, la consapevolezza che se lei non avesse acconsentito ad accompagnare Dan alla Veidt Tower non sarebbe accaduto nulla.
Sarebbe bastato giungere cinque minuti dopo, o cinque minuti prima, o che lei avesse chiesto a Dan di aspettare il giorno successivo. Sarebbe bastato rimanere fermi a un semaforo un po’ più a lungo, o scegliere una strada diversa. Sarebbe bastato che fosse stata lei a vedere la pistola prima di Dan.
Invece non l’aveva vista. Non l’aveva vista, e ora il divano accanto a lei era vuoto e la casa silenziosa. Non l’aveva vista, e ora Dan non era più accanto a lei.
Il cuscino era bagnato sotto le sue guance. Aveva pianto? Non se ne era resa conto. Non che facesse alcuna differenza, in realtà. Era tutto finito, e anche se avesse pianto fino a non avere più lacrime Dan non sarebbe tornato.

 
***

New York, 16 dicembre 1990
Il fragore che proveniva dalla strada era assordante, così potente da far tremare le imposte. Laurie si era svegliata al suono delle urla proveniente dalla strada che le riempiva le orecchie, e appena aveva aperto gli occhi aveva capito che il giorno era giunto. Era arrivato il momento dell’epilogo.
“Che senso ha protestare? Che senso ha opporsi? Che senso ha far sapere agli altri che la fine sta arrivando?” si domandò Laurie, ascoltando il frastuono che si insinuava all’interno passando prepotentemente attraverso le pareti. “Questo, soprattutto. È come mostrare la mannaia all’agnello che sta per essere macellato. Perché dobbiamo sapere?” Nella sua mente balenarono immagini di donne che stringevano i propri figli al petto, tappando loro le orecchie e asciugando le loro lacrime, di mogli che afferravano le mani dei mariti e mariti che andavano in cerca delle mani delle mogli, piangendo in silenzio. Immagini di amanti che si stringevano nell’ultimo abbraccio, sentendo l’uno il corpo dell’altro contro il proprio e sapendo che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbero sentito. Immagini di famiglie sedute nel salotto delle loro abitazioni, spalla contro spalla, con lo sguardo fisso nel vuoto di chi sta attendendo. Tutti attendevano. Tutti sapevano. Tutti si rifugiavano nel contatto di coloro che amavano, e forse anche di chi non avevano mai amato e stavano scoprendo solo ora, all’alba dalla fine di tutto, di aver odiato invano per tutto questo tempo. Che senso aveva avuto l’odio? Sarebbero morti tutti insieme, amici e nemici, amanti e rivali, maltrattati e maltrattatori. Le loro vite sarebbero state dissolte da un lampo di luce, e tutti sarebbero stati uguali di fronte al potere di devastazione umano.
Ecco il perché sapere era importante, capì Laurie. Non era un ultimatum, ma un avviso. Significava:“Non c’è più nulla che voi possiate fare. La fine è qui. Sappiate questo, e non siate soli mentre tutto finisce. Abbracciate qualcuno, dite ai vostri figli che li amate, perdonate chi vi ha fatto del male. Fatelo ora, perché non avrete un’altra possibilità.”
Ma Laurie era sola. Non aveva nemici da perdonare, figli da abbracciare, un amante da stringere. Era sola.
“Eccoci qui, alla fine di tutto” aveva detto Dan nel suo sogno. Invece non era vero. Era soltanto lei, sola e abbandonata, a fronteggiare la morte. Dan se n’era andato.
Lentamente, Laurie si alzò. Salì le scale, aprì la porta del bagno. Spalancò le persiane, scostò le tende e si chinò sulla vasca per aprire i rubinetti.
Chiuse gli occhi nello stesso istante in cui immergeva il primo piede nell’acqua calda. Non avrebbe più visto nulla, dopo quel momento. L’immagine dell’acqua che gorgogliava sul fondo bianco della vasca sarebbe stata l’ultima immagine colta dai suoi occhi. Non voleva più vedere: voleva solo sentire e immaginare.
Sentì. Sentì l’acqua accogliere il suo corpo, scostandosi per lasciarle il posto. Sentì le bolle accarezzarle la pelle e sentì il fruscio delle sue gambe contro la ceramica.
Era così che doveva essere, alla fine di tutto. Solo lei e i suoi ricordi. Per un istante, le sembrò di sentire il rumore di una chiave che sbloccava la serratura della porta d’ingresso, la voce di Dan che urlava il suo nome, i suoi passi ritmici che le erano diventati così familiari. Le sembrò di essere di nuovo là, quel giorno in cui aveva allagato il bagno e aveva stretto Dan a sé per l’ultima volta e si era illusa di poter lasciare questo mondo con dignità e amore. Il ricordo era così vivido che Laurie poteva vedere le rughe sulla fronte di Dan, gli spasmi quasi impercettibili che facevano contrarre le sue nocche, il gonfiore dei suoi occhi. Poteva sentire come il suo respiro si era fatto affannoso dopo aver salito le scale, come l’acqua che usciva dalla vasca si infrangeva contro le sue scarpe, come le sue labbra sfregavano nervosamente l’una contro l’altra nel tentativo di reprimere parole che non voleva pronunciare. Poteva addirittura sentire le dita di Dan che si allargavano e stringevano attorno al giornale, stropicciando la carta.
‹‹Era vero, Dan. Non ho potuto dirtelo, ma era vero: quell’articolo aveva ragione. È tutto una fregatura. Non esistono vincitori, no. Ma avevi ragione anche tu, Dan: siamo io e te, qui, alla fine di tutto.››
Le sue parole rimbombarono appena sulle pareti del bagno. Laurie poteva quasi immaginarle prendere forma e riempirsi di vapore, per poi fluttuare verso il soffitto e svanire, inascoltate.
Alla fine di tutto.
Laurie non vide il bagliore attraverso le palpebre chiuse. Sentì un tonfo lontano, una vampata di calore sulla pelle.
Tutto smise di esistere.

 
***

Un pianeta senza nome, oltre 100.000 milioni di anni luce dal Sistema Solare, 16  dicembre 1990
Aveva corte dita color pesca e vivaci occhi azzurri, luminosi come piccole stelle. Era immobile, tutto piegato su se stesso, con quei grandi fari color acqua del mare che erano spalancati senza vedere.
Non era ancora un bambino. Pochi istanti nel suo passato era stato polvere e atomi solitari che non avevano intenzione di legarsi fra loro. Ora era un susseguirsi di curve rosate, dalle guance tonde alle piccole gambe. Qualche minuto nel suo futuro avrebbe mosso lievemente un dito, in un movimento così delicato da essere quasi impercettibile, poi ne avrebbe mosso un altro, con energia sempre maggiore. Avrebbe sbattuto le palpebre, e quegli occhi vacui si sarebbero fatti vispi e pieni di vita.
Era la prima forma umana che Jon assemblava. Lo osservava da vicino con meticolosa curiosità, sapendo che di lì a poco si sarebbe mosso e al contempo domandandosi se stesse per muoversi. Era una creatura così bella, così pacifica, così ben realizzata che Jon non poté evitare di paragonare quell’istante ai momenti in cui aveva osservato suo padre inserire gli ultimi ingranaggi in un meccanismo di complessità incredibile e vedere che si incastravano alla perfezione, creando qualcosa di indescrivibile bellezza.
Il bambino si mosse. Nel suo passato, Jon stava attendendo che si muovesse paragonandolo a un orologio. Nel presente, lo osservò agitare le manine paffute e spalancare leggermente la bocca, in un’espressione di stupore. Forse era stupito di essere nato, considerò Jon. Chi non lo sarebbe stato? Chi non lo è?
Quel bambino non avrebbe mai saputo di ciò che stava accadendo sulla Terra. Non avrebbe mai saputo della guerra, delle bombe, del terrore che in quel momento l’umanità stava provando. Non avrebbe mai saputo di Dan che era morto nel tentativo di salvare qualcuno che era diventato un nemico, né di Laurie che era rimasta solo ad affrontare la fine. Tutta la conoscenza che la razza umana aveva accumulato dai suoi albori sarebbe svanita per sempre, ma la vita sarebbe continuata. L’universo sarebbe andato avanti, incurante dei sogni di gloria e onnipotenza che gli uomini avevano coltivato invano.
In quel momento, a oltre centomila milioni di anni luce da lì, le prime bombe erano giunte alla loro meta. New York, Washington, Boston e Baltimora non esistevano più. Altre bombe sarebbero partite. Altre città sarebbero scomparse. Tutto ciò che era stato realizzato sulla Terra fino a quel momento sarebbe andato perduto definitivamente.
In quel momento, proprio in quel canyon, per la prima volta un essere umano nasceva su un pianeta che non era la Terra. In quel momento, su quel pianeta, proprio in quel canyon, la vita era stata creata.
 

 [1] Lo “Scemenziario” è la raccolta di notizie stupide di cui occuparsi nella redazione del New Frontiersman, quello che viene inquadrato alla fine contenente il diario di Rorschach. È chiamato con una serie di nomi differenti a seconda della traduzione (nel film è chiamato “archivio mitomani”, che però non mi suona particolarmente bene), perciò ho deciso di usare la prima traduzione in cui mi sono imbattuta. Faccio questa nota per evitare equivoci.
[2] Dan si riferisce alla poesia di P.B.Shelley intitolata “Ozymandias” che parla di come l’uomo, pur pretendendo nella sua vanità e superbia di creare opere magnifiche ed eterne, deve accettare di essere sconfitto dalla potenza della natura e del tempo.
[3]O Cleto, a seconda della traduzione.
   
 
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