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Autore: Pretty_Liar    27/07/2014    4 recensioni
Barbara ha solo diciotto anni, ma ha deciso di sposarsi già con un giovane di Londra, l'affascinante Alan. Tutto sembra procedere a meraviglia, ma quando torna ad Holmes Chapel, per passare l'ultimo mese da ragazza libera prima del matrimonio, ogni cosa sembra precipitare. I suoi sentimenti per il futuro marito, sembrano scomparire alla vista di un vecchio nemico, Harry Styles, più grande di lei di ben sette anni. Il ragazzo ama le piante e tutto ciò che include la
natura, sospeso fra fantasia e realtà, con la spensieratezza che si addice a pochi ragazzi di venticinque anni. Barbara imparerà a conoscere il mondo in cui vive il suo nemico e capirà che infondo la loro non è solo una storia basata su un perenne scontro fra mente e cuore, logica e sentimenti, ma è semplicemente un misto di verità nascoste, un grande sentimento e tutto ciò che sta in mezzo.
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«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò.
«Perché?», chiesi stupita.
«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante!».
[MOMENTANEAMENTE SOSPESA]
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un amore nascosto è come il sole dietro le nuvole, come un fiore sotto la neve, come una lacrima nel mare, ma è più forte degli altri perchè è nascosto dentro il cuore dove nessuno potrà mai rubarlo.

 

-- Anonimo
«Lo sai perché è qui, mamma?», sputai acida, indicando la finestra della piccola cucina dai mobili gialli e le tendine verdi, «Perché vuole rovinarmi il matrimonio, ecco perché! Ha sempre cercato di rovinarmi la vita!».
«Lo sai qual è il tuo problema Barbara? Prendi le cose troppo sul serio. Harry è solo venuto a dare una mano con il giardino. Se non leviamo tutte quelle erbacce te la scordi la festa pre matrimonio», disse mia madre, continuando imperterrita a cuocere la pasta sul fuoco, canticchiando fra se.
I lunghi capelli rossi e lisci, erano tirati in una crocchia alta, che le scopriva il viso lentigginoso e perennemente sorridente, dalla pelle diafana come la mia.
«Mamma! Ti prego, qua non ce lo voglio», mi lagnai, battendo i piedi, fasciati da un paio di scarpe di tela, a terra come se fossi ancora la bambina di cinque anni che correva da lei quando lui mi faceva i dispetti al parco giochi.
«Erano le mie ultime parole, tesoro. Adesso esci fuori e portagli da bere. Sta lavorando da stamattina senza sosta», ribadì lei, mettendomi fra le mani un enorme vassoio blu in plastica, con un succo d'arancia rossa e dei biscotti alle mandorle, i suoi preferiti.
«Lo sai cosa non capisco? Perché proprio lui hai chiamato per sistemare quel dannato giardino!», sbraita, facendo quasi cadere il bicchiere pieno di succo a terra, rischiando quindi di rimanere piegata sul pavimento per ore prima di riuscire a togliere quella bevanda appiccicaticcia da terra.
«Adesso basta Barbara!», sbraitò lei, battendo uno strofinaccio verde sul ripiano in marmo bianco della cucina, facendomi trasalire quando mi fissò con i suoi grandi occhi azzurri,«Harry è un bravo ragazzo e non merita di essere trattato così da te. Non siete più bambini, smettila di comportarti come se lo fossi».
Digrignai i denti, fissandola imbronciata con i miei grandi occhi grigi, che lui amava deridere davanti a tutti, dicendo che quelli, insieme alle mie orecchie a punta e il naso schiacciato e piccolo rivolto verso l'alto, mi facevano sembrare un elfo di Natale.
«Il problema è che tu hai sempre difeso lui, anche quando eravamo piccoli e nonostante lui abbia sette anni in più a me!», urlai, afferrando saldamente il vassoio ed uscendo sulla veranda che dava in giardino, sbattendo dietro le mie spalle la porta finestra in legno, sussultando io stessa per la mia azione rude.
Il vento caldo di giugno mi colpì in pieno volto, facendo oscillare i capelli color castano chiaro, quasi miele, raccolti in una coda alta e disordinata, ondulati e ricci solo sulle punte che mi solleticavano la schiena scoperta a causa della spaccatura ampia della maglietta pesca che indossavo quella mattina, abbinata ad una gonna di jeans.
Avevo messo i miei vestiti preferiti perché ero di buon umore quando avevo preso il treno quella mattina, ritornando ad Holmes Chapel dopo due anni passati a Londra lontana dalla mia famiglia.
Mi ero trasferita quando mio padre era morto, cercando di cambiare aria e di mettere in ordine la mia vita adolescenziale.
Adesso avevo degli amici, un lavoro come giornalista a soli diciotto anni e un fidanzato perfetto che mi aveva chiesto da due settimane di sposarlo.
«Bill!», esclamai, vedendo il grande cane nero, dal folto e lucido pelo, che si rotolava fra l'erba umida, mettendosi a pancia in su alla mia vista.
«Sei diventato grandissimo. Il mio cagnone», risi, correndo verso di lui e  una volta poggiato il vassoio ai miei piedi, mi catapultai sull'animale, stringendolo a me.
Ci ero praticamente cresciuta con quel cane, l'unico che, dopo mio padre, mi difendeva contro Harry quando ero piccola e indifesa.
Una volta lo stronzo mi fece cadere nel fango davanti tutte le mie amiche, ridendo a crepapelle a causa dei miei pantaloni pieni di terra dietro il sedere. Ovviamente Bill lo rincorse per tutto il campetto di calcio, mordendogli una natica così forte da strappargli parte dei pantaloni e delle mutande, così lui fu costretto a correre dietro un albero per non mostrare il suo magnifico sedere nudo.
Risi al ricordo, grattando il cane dietro le orecchie, cosa che amava.
«Non sono mai piaciuto particolarmente a quel cane, ma da quando te ne sei andata penso che mi odi ancora di più», disse una voce pacata e rauca alle mie spalle, facendomi sobbalzare per la sorpresa.
Harry Styles era lì, dopo due anni, era difronte a me, nei soliti pantaloni di jeans larghi e rotti, di un colore scambiato e chiaro. La pelle era leggermente abbronzata e bruciata a causa delle ore che passava sotto il sole, e i capelli ricci e castani, lunghi e folti, erano tenuti lontani dagli occhi grazie ad una fascia verde, come i suoi occhi a mandorla, stretta attorno la fronte sudata.
«Perfetto! Harry Styles. Mi eri mancato», dissi scontrosa, alzandomi da terra e scrollandomi la polvere dai vestiti, con i miei soliti modi altolocati, che sapevo lo infastidivano.
Lui amava il fango, la terra, la pioggia e tutto quello che aveva a che fare con la natura, tanto che la sua stessa pelle emanava odore di noci moscate ed erba bagnata.
Io, invece, ero amante della pulizia, dei libri e di tutto quello che implicava lavoro mentale e non manuale. Forse era per questo che non andavamo assolutamente d'accordo.
«Lo so. Alla fine tutte finiscono con l'amarmi», ridacchiò, strizzandomi l'occhio, mentre si puliva le grandi mani, dalle dita affusolate, sulla maglietta a giro-maniche bianca, così larga e sformata che gli scopriva tutto il petto muscoloso e coperto di tatuaggi.
«Sogna Harold», ribattei, mettendo le mani suo fianchi. 
Bill aveva preso a girarmi intorno, come se volesse creare una protezione per il mio corpo così piccolo e fragile rispetto a quello del ragazzo, che sorrideva impertinente, con le solite fossette ai lati della bocca.
«Diciotto anni e sempre stronza sei», mi punzecchiò, battendo un piede a terra come me, nell'invano tentativo di imitarmi.
Lo faceva sempre quando eravamo piccoli; solo che mentre all'epoca mi irritavo e correvo a piangere da mia madre, adesso lo fissavo solo disgustata, con un sopracciglio inarcato.
«Venticinque anni e sempre ignorante sei», risposi prontamente, abbassandomi per prendere il bicchiere con il succo di frutta. «Per te», sorrisi falsamente, vedendolo illuminarsi.
«Grazie Nanetta!».
Mi aveva affibbiato quel nomignolo quando avevo quindici anni ed ero la più bassa della classe. Lui ne aveva già ventidue e amava farmi fare figure di merda quando mi accompagnava fuori il liceo con il suo pick up sporco di fango e terreno.
«Ma ti pare!», dissi cortesemente, avvicinandomi a lui e, proprio mentre pensava che gli lo stessi per mettere fra le mani, mi alzai in punta di piedi, rovesciandogli la bevanda appiccicosa sui suoi magnifici boccoli da donna.
«Fanculo!», ringhiò a denti stretti, strofinandosi gli occhi per poi fulminarmi con lo sguardo,«Sei la solita sbadata e bastarda del cazzo, Barbara. Se non ti conoscessi bene, direi che sei tornata solo per tormentarmi», sputò acido, incrociando le braccia davanti il petto saldo.
«Ti credi così importante?! Non farei mai un viaggio di ore ed ore solo per venirti a rovinare la tua schifosissima vita. Si vede che, nonostante siamo stati insieme per sedici dannatissimi anni, non mi conosci per niente!», urlai di rimando, girandomi e camminando furiosamente verso la veranda, pronta a rientrare e non guardare più quella sua faccia da schiaffi.
«Allora perché cavolo sei qui, eh? Ammettilo, ti mancava tutto questo. Londra è troppo fine per una ragazza senza classe come te», mi urlò dietro, seguendomi come un'ombra e non so con quale forza mi trattenni dal mollargli uno schiaffo in pieno viso.
«Io-non-sono-come-te!», scandii bene le parole, spingendolo con forza all'indietro ad ogni suono che pronunciavo, vedendolo ridere. «Se proprio lo vuoi sapere sono qui perché tra un mese esatto mi sposo!».
Era come se mi fossi liberata di un peso, ma non riuscivo a capire perché.
«Cosa?», chiese lui, sgranando gli occhi verdi e lucidi, facendo un passo indietro.
Si torturava la maglietta sporca e logora, balbettando cose senza senso.
«Lo scherzo non mi diverte, Barbara», riprese duro, fissandomi intensamente negli occhi, facendomi rabbrividire.
Non era la prima volta che mi trattava come una bambina da proteggere. Da piccoli lo faceva sempre, sentendosi superiore solo per i suoi sette anni di vantaggio.
«Ho la faccia di una che scherza, ignorante? Guarda», e gli mostrai l'anello d'argento che portavo al dietro, che poche sere prima Alan, il mio ragazzo, mi aveva messo al dito, baciandomi poi con trasporto dopo il mio si convinto e deciso.
«Ignorante?! La stupida ragazzina sei tu, qui! Cazzo B, hai solo diciotto fottuti anni! Sei immatura per sposarti!», sbraitò, avvicinandosi nuovamente, costringendomi così ad indietreggiare, fino a sbattere al muro esterno della casa.
Lui poggiò entrambe le mani ai lati della mia testa, facendo così aderire i nostri corpi caldi, che fremevano sempre più. Sentivo il suo fiato caldo colpirmi il viso pallido, facendomi così schiudere le labbra rosse e sottili.
Notai una collana di ferro pendere dal suo collo muscoloso; c'era scritto qualcosa in una lingua che certamente non era la nostra, quindi tornai a fissare i suoi occhi fiammeggianti di rabbia.
«Tu non sai niente, non puoi giudicare! Alan ed io ci amiamo», dissi altezzosa, alzando il mento all'insù, consapevole di aver ragione.
Un piccolo sorriso attraversò il suo volto, ma subito lasciò piazza libera all'enorme cipiglio che aleggiava da tempo sul suo volto sudato.
«Barbara è una maledetta follia. Non è un gioco il matrimonio, capisci? Non stiamo giocando a Marito e Moglie», sbottò battendo una mano sul muro proprio accanto al mio orecchio, facendomi serrare per un secondo gli occhi a causa della botta forte.
«Io non... Noi siamo abbastanza... Cioè il fatto che tu non...», balbettai frasi senza senso, torturandomi le mani fra di loro, sentendo il sangue pulsarmi nelle orecchie a punta ed il cuore battere velocemente per... La rabbia, ovvio!
«Senti Harry spostati! Non sei mio padre!», dissi con voce acuta, da bambina capricciosa, cercando di scostarlo, dandogli dei pugni leggeri sul petto, ma lui sembrava incollato al suolo, tanto che continuò a guardarmi indignato.
«Lo vuoi capire che i matrimoni fatti così, senza un senso, finiscono subito? Ragiona cazzo, ragiona!», mi urlò totalmente in faccia, battendo due volte e violentemente il piede sinistro a terra, incollandomi ancor di più al muro di mattoni grigi, che raffreddarono la mia schiena percossa da brividi di... Paura, ovvio!
«Il nostro sarà un matrimonio saldo. Non puoi saperlo! E levati», ripetei, afferrando in un pugno la sua maglietta, stringendola forte per fargli capire quanto fossi indignata.
Lui abbassò il volto verso la mia mano, piccola e come sempre fredda, fissandola come se fosse qualcosa di importante, prima di raggiungerla con la sua, delineando il profilo di ogni mio dito stretto intorno il tessuto bianco sporco.
«Lo vuoi capire che sei solo una.... Bambina?», storse il naso a punta,facendomi innervosire.
«Ho detto L.E.V.A.T.I!», ribadii a denti stretti, passando sotto il suo braccio teso, lasciando che il vento caldo muovesse leggermente la mia gonna larga di jeans,«Non ho bisogno dei tuoi stupidi consigli. Alan è perfetto per me, altrimenti perché avrei acconsentito a sposarlo?».
Mi resi conto che non dovevo domandarlo a lui, ma a me stessa. Eppure ero convinta di avere la risposta giusta: noi ci amavamo, io lo amavo!
«Non lo so, dovresti saperlo tu», ridacchiò, incrociando le braccia davanti al petto, frugando nella tasca dei suoi jeans scoloriti, cacciandone un pezzo di liquirizia a bastoncino.
Lo incastrò fra le labbra carnose ed umide, iniziando a masticare pigramente, mentre scrutava il mio corpo intensamente.
«Infatti lo so», dissi subito, cercando di non fare tremare la mia voce.
«Già... Per questo l'hai domandato a me?», ribatté spavaldo, prima di superarmi e scendere nuovamente gli scalini della veranda che portavano nell'erba fresca del giardino.
Osservai come il suo corpo si rilassò quando i piedi nudi vennero a contatto con il terreno. Sospirò pesantemente, passandosi una mano fra i capelli.
«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò, afferrando una pala al lato di Bill, che ringhiò contro di lui, facendolo sorridere innocentemente.
«Perché?», chiesi stupita subito, incrociando come lui le braccia sotto il seno piccolo, che cercai di volumizzare.
Lui girò di poco la testa verso di me, continuando a mostrarmi solo le spalle possenti e larghe. Poggiò il mento scolpito su una di queste, ridacchiando leggermente.
«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante. Sempre a parlare come una macchinetta. Bla... Bla... Bla. Deve avere una pazienza sovrannaturale se non si è buttato giù dopo il-».
Lo bloccai, avendo sentito abbastanza, saltandogli sulle spalle, tirandogli con forza i capelli, cercando di fargliela pagare
«Stronzo, io non sono acida!», tuonai  mentre lui afferrava le mie cose, stringendomi saldamente alla sua schiena.
«Mollami sanguisuga», disse fra gli sforzi, mentre girava su se stesso per farmi scendere, ma io mi ancorai ancora di più al suo collo dalle vene ben marcate, «Rischierai di sporcarti i vestiti», provò, ma io me ne fregai. Dovevo fargliela pagare.
«Nanetta non ti conviene», sibilò, cercando di afferrarmi le mani per gettarmi sotto di lui, ma io prontamente me le misi dietro la schiena, stringendo solo le gambe intorno il suo bacino.
Lui ne approfittò e, strattonandomi per la caviglia sinistra, mi fece cascare sull'erba, prima di salire a cavalcioni sul mio di bacino, incatenandomi le mani sopra la testa.
Mi districai su me stessa come un'anguilla, ma lui mi premette ancora di più i polsi al suolo, facendomi gemere contrariata.
«Adesso come la mettiamo, eh?», rise, mentre io scalciavo ed urlavo per farmi aiutare da Bill, che però sembrava essere scomparso nell'arco di pochi secondi.
Mia madre? Beh, lei stava sicuramente pensando che stavamo giocando amorevolmente.
Come quando da piccoli ci picchiavano sul tappeto e lei diceva a tutti intorno che già ci amavamo, tanto che ci davamo baci sul collo. In realtà io lo mordevo in quel punto perché era l'unico modo per metterlo fuori combattimento.
Mi illuminai.
Allungai la testa verso il suo collo, mordendolo esattamente sotto il mento. Di solito lui urlava infastidito, o diceva che gli faceva schifo la mia saliva su di lui. Oppure digrignava i denti per il fastidio, invece quella volta sobbalzò, deglutendo pesantemente.
Sentii la sua pelle nella mia bocca rabbrividire e, quando aprii gli occhi, vidi i suoi chiusi e le labbra schiuse. Il suo respiro era affannoso e ansimava pesantemente.
Cercai di allontanarmi, vedendolo lasciare subito i miei polsi, come se scottassero sotto le sue dita lunghe, mentre si alzava bruscamente, senza neanche guardarmi in faccia.
«Harry scusa non», mi bloccai non capendo il motivo preciso delle mie scuse.
«Lasciami in pace, Barbara. Ho una marea di lavoro da fare. Hai la tua vita adesso, perfetto! Finalmente ti sei sbarazzata di me! Perfetto! Tanto noi ci.... Odiamo! Perfetto!», sbraitò e, afferrando la scatola di biscotti alle mandorle, si recò verso il retro della casa, lasciandomi come una cretina.
«Ma si! Vattene, tanto sei solo nato per rovinarmi la vita», gli urlai dietro e, afferrando il vassoio di plastica blu, entrai in casa, sbattendo nuovamente la porta finestra.
Mi ci poggiai sopra, voltando la testa verso destra. Mia madre era lì, con la faccia incollata al vetro.
«Ci stavi spiando, mamma?!», dissi innervosita, facendola sobbalzare.
«Amore sei troppo dura con lui. Vedi Harry voleva solo».
«Tanto tu lo difendi sempre, no? È il figlio maschio che non hai mai avuto, lo so! Ma io sono l'unica che hai, quindi fai finta di essere almeno un po' felice del mio matrimonio!». La mia voce era incrinata e sapevo che di lì a pochi istanti avrei pianto.
«Certo che lo sono, Barbie!», disse indignata,«Solo che vorrei».
«Vorresti fosse Harry il tuo cognatino, vero? Non Alan. Mamma io lo amo, mentre Harry lo odio! Smettila di cercare di cambiare le cose, perché è impossibile!».
Poi corsi in camera mia, sbattendo anche quella di porta in legno. Aveva sempre cercato di farci stare insieme, sperando che fra noi qualcosa nascesse, ma io proprio.... Non lo sopportavo.
Mi trovai davanti una cameretta immutata. I miei disegni di quando andavo all'asilo, erano ancora lì, mentre le fotografie del liceo giacevano immobili nelle loro cornici. Il letto era coperto da una trapunta squallidamente rosa e sull'armadio bianco c'erano ancora le lettere magnetiche a formare il nome Nanetta. Harry le aveva attaccate così quando io avevo sei anni e lui tredici, e da quel momento nessuno le aveva più toccate, anche se io mi lamentavo sempre quando le vedevo e dovevo coprirle con grandi poster quando venivano le mie amiche a casa.
Aprii con foga la valigia in pelle poggiata sulla scrivania, iniziando a mettere a posto i miei vestiti nei cassetti, insieme ai profumi e i trucchi che mi ero portata dietro. Dovevo sopravvivere un mese lì, dato che Alan era stavo invitato a casa sua per quello stesso mese, prima del matrimonio.
Mi mancava già un casino. Sospirai, mettendo una nostra foto sul comodino accanto a letto. Notai una foto mia e di Harry al mio ultimo anno di scuola elementare. La girai, notando la sua scrittura perfetta.
La nanetta ha finito le elementari, mentre io attraverso i miei diciassette anni. Che devo fare, sempre con lei alle costole.
Sotto, con una grafia sbavata e storta, c'era un mio appunto.
Nessuno ti chiede di rompermi le scatole tutti i giorni.
Niente citazioni come Barbara e Harry amici per sempre. Io e lui ci detestavamo fino alla punta dei capelli.
Mi affaccia alla finestra dalla forma rotonda e ampia, tanto che amavo sedermi sopra tutte le notti di luna piena, fissando il cielo.
Notai Harry scostare con la pala il terreno, mettendo rabbia ad ogni palata. Poi, con mani sporche di terra, afferrò una pianta di rose, ficcandola bruscamente nel solco che aveva creato. Borbottò qualcosa ai fiori e così mi ricordai della sua idea insana, secondo la quale le piante crescevano se le parlavi. Le sue dovevano essere dei giganti, dato che ci intratteneva conversazioni di mezzo secolo con ciascuna. 
«E poi dice a me che blatero sempre», dissi indignata, continuando ad osservare come ricopriva il terreno, asciugandosi la fronte con gli orli della maglia, scoprendo così la pancia piatta e dai muscoli contratti.
Lui alzò velocemente la testa, rimanendo bloccato alla mia vista. Ci fissammo per un po', prima che lui scuotesse la testa, tornando a lavorare e borbottare fra se.
Battei frustrata ed innervosita il piede a terra, prima di tirare con forza le tende, gettandomi a peso morto sul letto, per reprimere le mie urla nel cuscino.
      

                                                                                                                                    

                                                                                                                               Un amore nascosto è come il sole dietro le nuvole, come un fiore sotto la neve,                                                                                                                                                                                                                           come una lacrima nel mare,                                                                                                                                                                                                                                ma è più forte degli altri                                                                                                                                                           perché è nascosto dentro il cuore dove nessuno potrà mai rubarlo.

                                                                                                                                                                                                                                                     - Anonimo

 

 

«Lo sai perché è qui, mamma?», sputai acida, indicando la finestra della piccola cucina dai mobili gialli e le tendine verdi, «Perché vuole rovinarmi il matrimonio, ecco perché! Ha sempre cercato di rovinarmi la vita!».

«Lo sai qual è il tuo problema Barbara? Prendi le cose troppo sul serio. Harry è solo venuto a dare una mano con il giardino. Se non leviamo tutte quelle erbacce te la scordi la festa pre matrimonio», disse mia madre, continuando imperterrita a cuocere la pasta sul fuoco, canticchiando fra se.

I lunghi capelli rossi e lisci, erano tirati in una crocchia alta, che le scopriva il viso lentigginoso e perennemente sorridente, dalla pelle diafana come la mia.

«Mamma! Ti prego, qua non ce lo voglio», mi lagnai, battendo i piedi, fasciati da un paio di scarpe di tela, a terra come se fossi ancora la bambina di cinque anni che correva da lei quando lui mi faceva i dispetti al parco giochi.

«Erano le mie ultime parole, tesoro. Adesso esci fuori e portagli da bere. Sta lavorando da stamattina senza sosta», ribadì lei, mettendomi fra le mani un enorme vassoio blu in plastica, con un succo d'arancia rossa e dei biscotti alle mandorle, i suoi preferiti.

«Lo sai cosa non capisco? Perché proprio lui hai chiamato per sistemare quel dannato giardino!», sbraita, facendo quasi cadere il bicchiere pieno di succo a terra, rischiando quindi di rimanere piegata sul pavimento per ore prima di riuscire a togliere quella bevanda appiccicaticcia da terra.

«Adesso basta Barbara!», sbraitò lei, battendo uno strofinaccio verde sul ripiano in marmo bianco della cucina, facendomi trasalire quando mi fissò con i suoi grandi occhi azzurri,«Harry è un bravo ragazzo e non merita di essere trattato così da te. Non siete più bambini, smettila di comportarti come se lo fossi».

Digrignai i denti, fissandola imbronciata con i miei grandi occhi grigi, che lui amava deridere davanti a tutti, dicendo che quelli, insieme alle mie orecchie a punta e il naso schiacciato e piccolo rivolto verso l'alto, mi facevano sembrare un elfo di Natale.

«Il problema è che tu hai sempre difeso lui, anche quando eravamo piccoli e nonostante lui abbia sette anni in più a me!», urlai, afferrando saldamente il vassoio ed uscendo sulla veranda che dava in giardino, sbattendo dietro le mie spalle la porta finestra in legno, sussultando io stessa per la mia azione rude.

Il vento caldo di giugno mi colpì in pieno volto, facendo oscillare i capelli color castano chiaro, quasi miele, raccolti in una coda alta e disordinata, ondulati e ricci solo sulle punte che mi solleticavano la schiena scoperta a causa della spaccatura ampia della maglietta pesca che indossavo quella mattina, abbinata ad una gonna di jeans. Avevo messo i miei vestiti preferiti perché ero di buon umore quando avevo preso il treno quella mattina, ritornando ad Holmes Chapel dopo due anni passati a Londra lontana dalla mia famiglia. Mi ero trasferita quando mio padre era morto, cercando di cambiare aria e di mettere in ordine la mia vita adolescenziale. Adesso avevo degli amici, un lavoro come giornalista a soli diciotto anni e un fidanzato perfetto che mi aveva chiesto da due settimane di sposarlo.

«Bill!», esclamai, vedendo il grande cane nero, dal folto e lucido pelo, che si rotolava fra l'erba umida, mettendosi a pancia in su alla mia vista. «Sei diventato grandissimo. Il mio cagnone», risi, correndo verso di lui e  una volta poggiato il vassoio ai miei piedi, mi catapultai sull'animale, stringendolo a me.

Ci ero praticamente cresciuta con quel cane, l'unico che, dopo mio padre, mi difendeva contro Harry quando ero piccola e indifesa. Una volta lo stronzo mi fece cadere nel fango davanti tutte le mie amiche, ridendo a crepapelle a causa dei miei pantaloni pieni di terra dietro il sedere. Ovviamente Bill lo rincorse per tutto il campetto di calcio, mordendogli una natica così forte da strappargli parte dei pantaloni e delle mutande, così lui fu costretto a correre dietro un albero per non mostrare il suo magnifico sedere nudo. Risi al ricordo, grattando il cane dietro le orecchie, cosa che amava.

«Non sono mai piaciuto particolarmente a quel cane, ma da quando te ne sei andata penso che mi odi ancora di più», disse una voce pacata e rauca alle mie spalle, facendomi sobbalzare per la sorpresa.

Harry Styles era lì, dopo due anni, era difronte a me, nei soliti pantaloni di jeans larghi e rotti, di un colore scambiato e chiaro. La pelle era leggermente abbronzata e bruciata a causa delle ore che passava sotto il sole, e i capelli ricci e castani, lunghi e folti, erano tenuti lontani dagli occhi grazie ad una fascia verde, come i suoi occhi a mandorla, stretta attorno la fronte sudata.

«Perfetto! Harry Styles. Mi eri mancato», dissi scontrosa, alzandomi da terra e scrollandomi la polvere dai vestiti, con i miei soliti modi altolocati, che sapevo lo infastidivano.

Lui amava il fango, la terra, la pioggia e tutto quello che aveva a che fare con la natura, tanto che la sua stessa pelle emanava odore di noci moscate ed erba bagnata. Io, invece, ero amante della pulizia, dei libri e di tutto quello che implicava lavoro mentale e non manuale. Forse era per questo che non andavamo assolutamente d'accordo.

«Lo so. Alla fine tutte finiscono con l'amarmi», ridacchiò, strizzandomi l'occhio, mentre si puliva le grandi mani, dalle dita affusolate, sulla maglietta a giro-maniche bianca, così larga e sformata che gli scopriva tutto il petto muscoloso e coperto di tatuaggi.

«Sogna Harold», ribattei, mettendo le mani suo fianchi. 

Bill aveva preso a girarmi intorno, come se volesse creare una protezione per il mio corpo così piccolo e fragile rispetto a quello del ragazzo, che sorrideva impertinente, con le solite fossette ai lati della bocca.

«Diciotto anni e sempre stronza sei», mi punzecchiò, battendo un piede a terra come me, nell'invano tentativo di imitarmi.

Lo faceva sempre quando eravamo piccoli; solo che mentre all'epoca mi irritavo e correvo a piangere da mia madre, adesso lo fissavo solo disgustata, con un sopracciglio inarcato.

«Venticinque anni e sempre ignorante sei», risposi prontamente, abbassandomi per prendere il bicchiere con il succo di frutta. «Per te», sorrisi falsamente, vedendolo illuminarsi.

«Grazie Nanetta!».

Mi aveva affibbiato quel nomignolo quando avevo quindici anni ed ero la più bassa della classe. Lui ne aveva già ventidue e amava farmi fare figure di merda quando mi accompagnava fuori il liceo con il suo pick up sporco di fango e terreno.

«Ma ti pare!», dissi cortesemente, avvicinandomi a lui e, proprio mentre pensava che gli lo stessi per mettere fra le mani, mi alzai in punta di piedi, rovesciandogli la bevanda appiccicosa sui suoi magnifici boccoli da donna.

«Fanculo!», ringhiò a denti stretti, strofinandosi gli occhi per poi fulminarmi con lo sguardo,«Sei la solita sbadata e bastarda del cazzo, Barbara. Se non ti conoscessi bene, direi che sei tornata solo per tormentarmi», sputò acido, incrociando le braccia davanti il petto saldo.

«Ti credi così importante?! Non farei mai un viaggio di ore ed ore solo per venirti a rovinare la tua schifosissima vita. Si vede che, nonostante siamo stati insieme per sedici dannatissimi anni, non mi conosci per niente!», urlai di rimando, girandomi e camminando furiosamente verso la veranda, pronta a rientrare e non guardare più quella sua faccia da schiaffi.

«Allora perché cavolo sei qui, eh? Ammettilo, ti mancava tutto questo. Londra è troppo fine per una ragazza senza classe come te», mi urlò dietro, seguendomi come un'ombra e non so con quale forza mi trattenni dal mollargli uno schiaffo in pieno viso.

«Io-non-sono-come-te!», scandii bene le parole, spingendolo con forza all'indietro ad ogni suono che pronunciavo, vedendolo ridere. «Se proprio lo vuoi sapere sono qui perché tra un mese esatto mi sposo!».

Era come se mi fossi liberata di un peso, ma non riuscivo a capire perché.

«Cosa?», chiese lui, sgranando gli occhi verdi e lucidi, facendo un passo indietro.

Si torturava la maglietta sporca e logora, balbettando cose senza senso. «Lo scherzo non mi diverte, Barbara», riprese duro, fissandomi intensamente negli occhi, facendomi rabbrividire.

Non era la prima volta che mi trattava come una bambina da proteggere. Da piccoli lo faceva sempre, sentendosi superiore solo per i suoi sette anni di vantaggio.

«Ho la faccia di una che scherza, ignorante? Guarda», e gli mostrai l'anello d'argento che portavo al dietro, che poche sere prima Alan, il mio ragazzo, mi aveva messo al dito, baciandomi poi con trasporto dopo il mio si convinto e deciso.

«Ignorante?! La stupida ragazzina sei tu, qui! Cazzo B, hai solo diciotto fottuti anni! Sei immatura per sposarti!», sbraitò, avvicinandosi nuovamente, costringendomi così ad indietreggiare, fino a sbattere al muro esterno della casa.

Lui poggiò entrambe le mani ai lati della mia testa, facendo così aderire i nostri corpi caldi, che fremevano sempre più. Sentivo il suo fiato caldo colpirmi il viso pallido, facendomi così schiudere le labbra rosse e sottili. Notai una collana di ferro pendere dal suo collo muscoloso; c'era scritto qualcosa in una lingua che certamente non era la nostra, quindi tornai a fissare i suoi occhi fiammeggianti di rabbia.

«Tu non sai niente, non puoi giudicare! Alan ed io ci amiamo», dissi altezzosa, alzando il mento all'insù, consapevole di aver ragione.

Un piccolo sorriso attraversò il suo volto, ma subito lasciò piazza libera all'enorme cipiglio che aleggiava da tempo sul suo volto sudato.«Barbara è una maledetta follia. Non è un gioco il matrimonio, capisci? Non stiamo giocando a Marito e Moglie», sbottò battendo una mano sul muro proprio accanto al mio orecchio, facendomi serrare per un secondo gli occhi a causa della botta forte.

«Io non... Noi siamo abbastanza... Cioè il fatto che tu non...», balbettai frasi senza senso, torturandomi le mani fra di loro, sentendo il sangue pulsarmi nelle orecchie a punta ed il cuore battere velocemente per... La rabbia, ovvio!

 «Senti Harry spostati! Non sei mio padre!», dissi con voce acuta, da bambina capricciosa, cercando di scostarlo, dandogli dei pugni leggeri sul petto, ma lui sembrava incollato al suolo, tanto che continuò a guardarmi indignato.

«Lo vuoi capire che i matrimoni fatti così, senza un senso, finiscono subito? Ragiona cazzo, ragiona!», mi urlò totalmente in faccia, battendo due volte e violentemente il piede sinistro a terra, incollandomi ancor di più al muro di mattoni grigi, che raffreddarono la mia schiena percossa da brividi di... Paura, ovvio!

«Il nostro sarà un matrimonio saldo. Non puoi saperlo! E levati», ripetei, afferrando in un pugno la sua maglietta, stringendola forte per fargli capire quanto fossi indignata.

Lui abbassò il volto verso la mia mano, piccola e come sempre fredda, fissandola come se fosse qualcosa di importante, prima di raggiungerla con la sua, delineando il profilo di ogni mio dito stretto intorno il tessuto bianco sporco.

«Lo vuoi capire che sei solo una.... Bambina?», storse il naso a punta,facendomi innervosire.

«Ho detto L.E.V.A.T.I!», ribadii a denti stretti, passando sotto il suo braccio teso, lasciando che il vento caldo muovesse leggermente la mia gonna larga di jeans,«Non ho bisogno dei tuoi stupidi consigli. Alan è perfetto per me, altrimenti perché avrei acconsentito a sposarlo?».

Mi resi conto che non dovevo domandarlo a lui, ma a me stessa. Eppure ero convinta di avere la risposta giusta: noi ci amavamo, io lo amavo!

«Non lo so, dovresti saperlo tu», ridacchiò, incrociando le braccia davanti al petto, frugando nella tasca dei suoi jeans scoloriti, cacciandone un pezzo di liquirizia a bastoncino.

Lo incastrò fra le labbra carnose ed umide, iniziando a masticare pigramente, mentre scrutava il mio corpo intensamente.

«Infatti lo so», dissi subito, cercando di non fare tremare la mia voce.

«Già... Per questo l'hai domandato a me?», ribatté spavaldo, prima di superarmi e scendere nuovamente gli scalini della veranda che portavano nell'erba fresca del giardino.

Osservai come il suo corpo si rilassò quando i piedi nudi vennero a contatto con il terreno. Sospirò pesantemente, passandosi una mano fra i capelli.

«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò, afferrando una pala al lato di Bill, che ringhiò contro di lui, facendolo sorridere innocentemente.

«Perché?», chiesi stupita subito, incrociando come lui le braccia sotto il seno piccolo, che cercai di volumizzare.

Lui girò di poco la testa verso di me, continuando a mostrarmi solo le spalle possenti e larghe. Poggiò il mento scolpito su una di queste, ridacchiando leggermente.

«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante. Sempre a parlare come una macchinetta. Bla... Bla... Bla. Deve avere una pazienza sovrannaturale se non si è buttato giù dopo il-».

Lo bloccai, avendo sentito abbastanza, saltandogli sulle spalle, tirandogli con forza i capelli, cercando di fargliela pagare.

«Stronzo, io non sono acida!», tuonai  mentre lui afferrava le mie cose, stringendomi saldamente alla sua schiena.

«Mollami sanguisuga», disse fra gli sforzi, mentre girava su se stesso per farmi scendere, ma io mi ancorai ancora di più al suo collo dalle vene ben marcate, «Rischierai di sporcarti i vestiti», provò, ma io me ne fregai.

Dovevo fargliela pagare.

«Nanetta non ti conviene», sibilò, cercando di afferrarmi le mani per gettarmi sotto di lui, ma io prontamente me le misi dietro la schiena, stringendo solo le gambe intorno il suo bacino.

Lui ne approfittò e, strattonandomi per la caviglia sinistra, mi fece cascare sull'erba, prima di salire a cavalcioni sul mio di bacino, incatenandomi le mani sopra la testa. Mi districai su me stessa come un'anguilla, ma lui mi premette ancora di più i polsi al suolo, facendomi gemere contrariata.

«Adesso come la mettiamo, eh?», rise, mentre io scalciavo ed urlavo per farmi aiutare da Bill, che però sembrava essere scomparso nell'arco di pochi secondi.

Mia madre? Beh, lei stava sicuramente pensando che stavamo giocando amorevolmente.Come quando da piccoli ci picchiavano sul tappeto e lei diceva a tutti intorno che già ci amavamo, tanto che ci davamo baci sul collo. In realtà io lo mordevo in quel punto perché era l'unico modo per metterlo fuori combattimento.

Mi illuminai.Allungai la testa verso il suo collo, mordendolo esattamente sotto il mento. Di solito lui urlava infastidito, o diceva che gli faceva schifo la mia saliva su di lui. Oppure digrignava i denti per il fastidio, invece quella volta sobbalzò, deglutendo pesantemente. Sentii la sua pelle nella mia bocca rabbrividire e, quando aprii gli occhi, vidi i suoi chiusi e le labbra schiuse. Il suo respiro era affannoso e ansimava pesantemente.Cercai di allontanarmi, vedendolo lasciare subito i miei polsi, come se scottassero sotto le sue dita lunghe, mentre si alzava bruscamente, senza neanche guardarmi in faccia.

«Harry scusa non», mi bloccai non capendo il motivo preciso delle mie scuse.

«Lasciami in pace, Barbara. Ho una marea di lavoro da fare. Hai la tua vita adesso, perfetto! Finalmente ti sei sbarazzata di me! Perfetto! Tanto noi ci.... Odiamo! Perfetto!», sbraitò e, afferrando la scatola di biscotti alle mandorle, si recò verso il retro della casa, lasciandomi come una cretina.

«Ma si! Vattene, tanto sei solo nato per rovinarmi la vita», gli urlai dietro e, afferrando il vassoio di plastica blu, entrai in casa, sbattendo nuovamente la porta finestra.Mi ci poggiai sopra, voltando la testa verso destra.

Mia madre era lì, con la faccia incollata al vetro.

«Ci stavi spiando, mamma?!», dissi innervosita, facendola sobbalzare.

«Amore sei troppo dura con lui. Vedi Harry voleva solo».

«Tanto tu lo difendi sempre, no? È il figlio maschio che non hai mai avuto, lo so! Ma io sono l'unica che hai, quindi fai finta di essere almeno un po' felice del mio matrimonio!».

La mia voce era incrinata e sapevo che di lì a pochi istanti avrei pianto.

«Certo che lo sono, Barbie!», disse indignata,«Solo che vorrei».

«Vorresti fosse Harry il tuo cognatino, vero? Non Alan. Mamma io lo amo, mentre Harry lo odio! Smettila di cercare di cambiare le cose, perché è impossibile!».

Poi corsi in camera mia, sbattendo anche quella di porta in legno. Aveva sempre cercato di farci stare insieme, sperando che fra noi qualcosa nascesse, ma io proprio.... Non lo sopportavo.Mi trovai davanti una cameretta immutata. I miei disegni di quando andavo all'asilo, erano ancora lì, mentre le fotografie del liceo giacevano immobili nelle loro cornici. Il letto era coperto da una trapunta squallidamente rosa e sull'armadio bianco c'erano ancora le lettere magnetiche a formare il nome Nanetta. Harry le aveva attaccate così quando io avevo sei anni e lui tredici, e da quel momento nessuno le aveva più toccate, anche se io mi lamentavo sempre quando le vedevo e dovevo coprirle con grandi poster quando venivano le mie amiche a casa.

Aprii con foga la valigia in pelle poggiata sulla scrivania, iniziando a mettere a posto i miei vestiti nei cassetti, insieme ai profumi e i trucchi che mi ero portata dietro. Dovevo sopravvivere un mese lì, dato che Alan era stavo invitato a casa sua per quello stesso mese, prima del matrimonio. Mi mancava già un casino. Sospirai, mettendo una nostra foto sul comodino accanto a letto.

Notai una foto mia e di Harry al mio ultimo anno di scuola elementare. La girai, notando la sua scrittura perfetta.

La nanetta ha finito le elementari, mentre io attraverso i miei diciassette anni. Che devo fare, sempre con lei alle costole.

Sotto, con una grafia sbavata e storta, c'era un mio appunto.

Nessuno ti chiede di rompermi le scatole tutti i giorni.

Niente citazioni come Barbara e Harry amici per sempre.

Io e lui ci detestavamo fino alla punta dei capelli.

Mi affaccia alla finestra dalla forma rotonda e ampia, tanto che amavo sedermi sopra tutte le notti di luna piena, fissando il cielo.

Notai Harry scostare con la pala il terreno, mettendo rabbia ad ogni palata. Poi, con mani sporche di terra, afferrò una pianta di rose, ficcandola bruscamente nel solco che aveva creato. Borbottò qualcosa ai fiori e così mi ricordai della sua idea insana, secondo la quale le piante crescevano se le parlavi. Le sue dovevano essere dei giganti, dato che ci intratteneva conversazioni di mezzo secolo con ciascuna. 

«E poi dice a me che blatero sempre», dissi indignata, continuando ad osservare come ricopriva il terreno, asciugandosi la fronte con gli orli della maglia, scoprendo così la pancia piatta e dai muscoli contratti

.Lui alzò velocemente la testa, rimanendo bloccato alla mia vista. Ci fissammo per un po', prima che lui scuotesse la testa, tornando a lavorare e borbottare fra se.

Battei frustrata ed innervosita il piede a terra, prima di tirare con forza le tende, gettandomi a peso morto sul letto, per reprimere le mie urla nel cuscino.      

 

 

 

  
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