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Autore: Valpur    29/07/2014    3 recensioni
[Sequel di Two Steps from Hell]
Alina sospirò, inarcò la schiena e tese le braccia verso l’alto. Dita piccole e sporche di inchiostro, ora, ma mani ancora forti, poco più magre rispetto all’epoca delle sue avventure.
Quanto tempo era passato? Dieci anni? No, di più, almeno dodici. Senza un briciolo di nostalgia fece schioccare le nocche e si raddrizzò.

Cosa succede a un eroe quando il male è sconfitto?
Vive. Ma certe scintille non si spengono mai.
Genere: Azione, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Prologo
 
 
 
La punta della penna grattava sulla pergamena e si lasciava dietro uno strascico di parole; quel fruscio era l’unico suono nella stanza di pietra, a parte il frenetico, remoto abbaiare che proveniva da fuori.
 
“… La sagoma nera sfrecciò davanti al sole velato e si allontanò verso la campagna. 
Presi un profondo respiro e voltai le spalle alle guardie; non avevo percorso…”
 
L’inchiostro sbiadì e il tratto delle lettere –addossate l’una sull’altra, inclinate verso destra- si fece sottile e irregolare. La piccola mano callosa si sollevò dal foglio e intinse con precisione la penna nel calamaio lì accanto; qualche goccia d’inchiostro scivolò sul bordo di vetro e andò a sparire nelle nere profondità del contenitore. Le parole tornarono a imprimersi, nere e lucenti, sulla superficie pallida.


“… che pochi gradini quando…”
 
Niente da fare, i latrati non volevano saperne di smettere. Con uno sbuffo dal fondo della gola, molto simile a un grugnito, Alina mise giù la penna e si appoggiò allo schienale. Il bordo di legno premeva contro la nuca mentre guardava in su, verso l’alto soffitto con le belle travi a vista, giusto un po’ annerite vicino al camino. La luce del tardo pomeriggio era ancora vivida in quel giorno d’estate, e bagnava d’oro e fiamme la superficie scura e lucida della scrivania, il mazzo di fiori un po’ appassiti nel vaso e la lama delle armi appese alle pareti. Granelli di polvere scintillavano nei raggi di sole, piccole esplosioni di diamante nell’aria tersa.
Il ritratto della quiete, l’ideale per mettersi tranquilla a scrivere le proprie memorie.
In teoria, almeno, visto che Rolf e il Monco, i due mastini, sembravano aver deciso che era ora di dedicarsi a un concilio canino decisamente chiassoso.
Alina sospirò, inarcò la schiena e tese le braccia verso l’alto. Dita piccole e sporche di inchiostro, ora, ma mani ancora forti, poco più magre rispetto all’epoca delle sue avventure.
Quanto tempo era passato? Dieci anni? No, di più, almeno dodici. Senza un briciolo di nostalgia fece schioccare le nocche e si raddrizzò.
Dopo essersi scostata dagli occhi una ciocca ancora quasi del tutto nera si concesse un’occhiata fuori dalla finestra. Dragonsreach si ergeva poco distante, il profilo affilato contro il cielo blu. Come sempre lo sguardo scivolò giù fino al tetto di Jorrvaskr, ma questa volta non ci fu tempo per indugiare in lontane reminiscenze.
C’era un cavaliere incappucciato lungo il sentiero, a non più di una manciata di minuti da casa. 
Con una fitta di colpa per aver mentalmente rimproverato i cani che stavano solo facendo il loro mestiere di guardiani, Alina spinse indietro la sedia e si alzò. Chiunque fosse il visitatore non lo avrebbe certo accolto con addosso solo la tunica da casa, più simile a una camicia da notte consunta che altro. Invecchiando si era rassegnata a qualche regola d’etichetta.
Si affrettò al piano di sopra salendo due scalini alla volta; il grande letto matrimoniale era ancora disfatto, con un mucchio di vestiti appesi al pomolo della testiera. Alina agguantò la prima sopravveste che le capitò sotto le dita e se la infilò con un unico movimento fluido.
I cani in cortile abbaiavano sempre più forte, e ora c’era anche una nota acuta nel tono, quasi un guaito. Quel suono le fece rizzare i capelli sulla nuca in una remota premonizione, ma non vi badò. Riavviò la mezza chioma –il tempo era stato clemente con le cicatrici, ora pallide e poco più lucide del resto del viso, e la pelle era appena segnata da rughe attorno agli occhi- e, reggendo la gonna con un’imprecazione, ripercorse la rampa di scale fino all’ingresso.
I suoi passi riecheggiarono nella casa deserta e si interruppero sulla soglia. Alina afferrò la maniglia e l’abbassò.
Il sole l’abbagliò per un istante; scorse la sagoma nera di un cavallo impastoiato alla buona alla staccionata e poco altro. I cani avevano smesso di abbaiare ma non di far rumore: un groviglio di pelo grigio e nero uggiolava tutto esaltato ai piedi di una figura accucciata.
“… chi sono i miei bravi cagnoloni, eh? Chi sono?”
Alina dovette stringere i denti per bloccare il nodo di commozione che le si sciolse in gola, ma non poté impedire a un ampio sorriso di schiudersi sul suo volto. Il visitatore alzò la testa; nel far ciò il cappuccio ricadde, rivelando una folta zazzera rosso fuoco e una faccia liscia piena di lentiggini.
“Sorpresa!” esclamò il ragazzo.
Alina scoppiò a ridere e gli corse incontro, impicciata dalle ampie gonne. 

“Gael!” mormorò stringendolo a sé. Non era molto più alto di lei e sembrava avere le ossa di un uccellino, snello com’era, ma Alina non riuscì a impedirsi di pensare che era cresciuto rispetto all’ultima volta che l’aveva visto.

“Mamma… mamma, smettila, così non respiro!” si lamentò Gael, pur senza dar cenno di volersi sciogliere dall’abbraccio.
Alina gli schioccò un bacio sulla guancia e gli prese il viso tra le mani.

“Non mi aspettavo di vederti, non così presto! Ero convinta che all’Accademia fossero ben più severi con le loro giovani promesse!”
Gael scosse la testa e allontanò con un colpo della coscia uno dei cani –il Monco, in precario equilibrio sulle tre zampe- rischiando di cadere a sua volta. Alina ritrasse le mani e gli fece cenno di seguirla in casa, ma non riuscì a distogliere lo sguardo da lui: forse lo pensa ogni madre che non vede il figlio per dieci lunghi mesi, ma Gael si era davvero fatto più robusto. Forse non più alto, ma le spalle erano più larghe; a vent’anni stava finalmente smettendo di sembrare un ragazzino. Nascose un sorriso agli angoli della bocca: nonostante tutto, in qualcosa le assomigliava. Merito (o colpa?) del sangue Bretone, senza dubbio.
“L’ultimo anno accademico è stato un successo”, disse il ragazzo. “Te l’ho scritto, no, che sono il più giovane accolito ad aver meritato l’accesso all’area riservata della biblioteca, ma non è tutto!”
“Sei coperto di polvere e hai lasciato il cavallo attaccato a un palo senza neanche dargli da bere; sono sicura che…”
Ma Gael non le diede retta.
“Lo so, però questo volevo dirvelo di persona!”
Era evidente che stesse morendo dalla voglia di raccontarle qualcosa; Alina si sforzò di trascinarlo oltre la soglia e di farlo sedere in salotto. Gael non si tolse neanche il mantello o gli stivali e, sgranando gli occhi scuri, prese la mano della madre.
“Mamma, è una notizia grandiosa! Io ho… aspetta, dove sono tutti?” chiese corrucciandosi appena.
Alina gli si sedette di fronte e gli appoggiò la mano libera sul braccio.

“A caccia, lo sai come sono fatti; dovrebbero tornare a breve, comunque. Avanti, vuoi tenermi sulle spine ancora a lungo?”

Gael strinse le dita; le guance pallide erano avvampate di gioia sotto l’esercito di lentiggini che le ricopriva e Alina sentì che avrebbe potuto piangere per la pura delizia di quel figlio così felice.

“L’Arcimago mi ha chiesto di diventare il suo assistente personale. A me! Proprio a me!”
Alina trattenne il fiato; per un attimo se ne rimase immobile a contemplare il volto luminoso di quel ragazzino dai capelli rossi che splendeva di fronte a lei, abbastanza abbagliante da contagiare l’intera stanza.
Quale poteva essere la risposta giusta? Non c’erano parole che potessero contenere l’orgoglio, la passione e la più totale soddisfazione di una madre fiera. Si alzò in fretta e fece cadere lo sgabello su cui si era seduta per abbracciare di nuovo il figlio, così forte da farlo squittire.

“D-Di nuovo… mamma, ricordati che hai un po’ più forza nelle braccia rispetto a quella che ti serve-ahi!”
Alina lo lasciò subito con un sorriso tremulo.

“Scusa. Oh, Gael! Nessuno lo merita più di te! Come sono orgogliosa! Quando lo hai saputo?”

“Quattro giorni fa, appena prima di partire per tornare a casa. L’Arcimago Tolfdir mi ha convocato nel suo studio privato –non ci ero mai stato in tutti gli anni di Accademia, dovresti vedere che spettacolo, mamma, ha dei libri che nemmeno ti immagini- e… e me l’ha detto. Così, come se niente fosse. Devo essere sbiancato per lo stupore perché mi ha subito invitato a sedermi, altrimenti sarei finito per terra!”
“E quindi ora…”

“Ora studierò direttamente con lui, e secondo quello che dicono gli altri studenti sarò in una posizione privilegiata per diventare Maestro a mia volta, tra qualche anno! Te ne rendi conto? Non che… insomma, io sono bravo, però penso che il fatto di essere diventato –sai- tuo figlio può aver…”
Le parole gli si smorzarono in gola e Gael liquidò la faccenda con un vago gesto della mano. Alina avrebbe voluto rassicurarlo, ma lo conosceva troppo bene per pensare che avrebbe gradito; ci aveva provato tante volte quand’era solo un bambino, e non aveva mai funzionato.

“Vai avanti”, gli disse invece. Si sedette al suo fianco e attese.
Gael fece spallucce.

“Il tuo nome, il nome del Sangue di Drago, significa parecchio, là fuori”, continuò senza guardarla. “E anche se io non mi vanto mai di essere tuo figlio non posso neanche dire di averne mai fatto mistero. Non mi vergogno, anzi”, disse; sollevò per un attimo la testa e le lanciò un’occhiata così penetrante da ricordarle, con una stretta al cuore, Vilkas. “Qualcuno mormora già che sia solo a causa tua che sono stato scelto, ma non è così, davvero. Sono parecchio bravo, anche se ho tanto da imparare, e… e credo di meritare una possibilità. Però non sarà facile…”
Si era trattenuta anche troppo. Alina gli mise un braccio attorno alle spalle e appoggiò la propria testa a quella del figlio.

“Lo so benissimo che sei bravo. Lo so da quando avevi nove anni e appiccasti il fuoco alla cucina per farmi vedere che avevi imparato un incantesimo. Ce l’abbiamo nel sangue la magia, noi Bretoni, ma c’è chi è portato… e chi invece è un disastro, come me”.

Sfiorò la tempia morbida con un bacio e gli strinse la spalla. “Gael, non hai bisogno di me per fare strada. Sei forte, sei brillante e hai le spalle abbastanza larghe da sopportare l’invidia degli altri. Chi gioirà con te si dimostrerà un vero amico, qualcuno da tenerti vicino”.

I muscoli sotto le sue dita si rilassarono appena e Gael la guardò di sbieco.

“Davvero?”

“Davvero. Maestro, persino Arcimago se lo vorrai: avrai sempre il nostro appoggio”.

Gael sorrise e si passò una mano tra i capelli.

“L’Arcimago Tolfdir mi ha concesso qualche giorno a casa prima di iniziare sul serio; credo che anche lui volesse la tua approvazione. Dovrei presentarvi prima o poi, è un tipo un po’ bizzarro ma un vero genio, ti piacerebbe”.
Di tipi un po’ bizzarri ma geniali Alina ne aveva conosciuti parecchi nel corso della sua vita; lo sguardo le vagò oltre la testa del figlio, fuori dalla finestra e verso il cielo. La Gola del Mondo era nascosta dalle nuvole, ma un certo vecchio drago era di sicuro al suo posto. Come sempre.
Il pensiero di Paarthurnax le sfrecciò per la mente e svanì in un attimo, soppiantato dal presente.
“Riesco a immaginarmi anche troppo bene la faccia che farà tuo padre quando glielo dirai. Potrebbe mettere in giro i manifesti per festeggiare la cosa, lo sai, vero?”
Gael si morse il labbro.

“Spero tanto non lo faccia, sarebbe un po’ imbarazzante. Come sta? Hai detto che Maeva è a caccia con lui?”

“Tenerla in casa è un’impresa eccessiva anche per i miei gusti. È più alta di quasi tutti i suoi coetanei, e ha deciso che da grande entrerà nei Compagni. Questo è successo l’altro ieri però, settimana scorsa invece voleva una forgia tutta per sé. Immagino di poter incolpare l’adolescenza che incombe, perché l’alternativa è che io e tuo padre siamo stati dei genitori degeneri che sono riusciti solo a confonderla…”
Gael rise e Alina fu sul punto di unirsi a lui; eppure, come ogni volta che pensava a sua figlia, la creatura rabbiosa che era il suo passato snudava le zanne. Maeva era una ragazzina serena, lieta di quell’infanzia che Alina non aveva mai conosciuto. L’istinto di proteggerla anche quando non era necessario era però sempre pronto ad affiorare.
Il giovane sospirò a fondo di soddisfazione; nel buttar fuori una gran boccata d’aria, però, dalle profondità del suo stomaco provenne un gorgoglio traditore. Gael si portò una mano alla pancia, si alzò e guardò la madre.

“Fame”, disse semplicemente. “Sono in sella dall’alba e non mi sono fermato per pranzare, volevo arrivare entro sera. Posso avere un anticipo di cena?”

Eccolo lì. Si era fatto più alto e sicuramente più sano, ma lo sguardo degli occhi castani era lo stesso che Alina ricordava di aver visto una dozzina di anni prima, per le strade di Riften. Quel ricordo le faceva ancora male al cuore, anche se era passato del tempo e le ferite si erano ormai chiuse senza lasciare traccia.
Si sforzò di sorridere come se nessun cattivo pensiero l’avesse turbata e si alzò.

“Nelioth sta ancora preparando, ma suppongo di poterla convincere a darti un po’ di pane e formaggio. A patto che”, scattò per bloccare l’impeto con cui Gael si stava già dirigendo in cucina, “tu prima vada a occuparti del tuo povero cavallo”.

Il giovane roteò gli occhi –la stessa espressione annoiata che aveva avuto quand’era un ragazzino impertinente tutto denti e spirito di ribellione- ma acconsentì con un brontolio.
Alina lo guardò uscire e, come faceva sempre, toccare fuggevolmente la porta… e lei sapeva bene il perché di quel gesto che ripeteva ogni volta che usciva di casa. Poteva essere guarito, poteva essere sereno, ma la vita di strada lasciava i suoi segni.
Prima di lasciare a sua volta il salotto verso la cucina, Alina si perse per un attimo a guardare la figura snella di Gael. 
Diverso da lei, diverso da Vilkas, diverso da Maeva; non il suo sangue, non la sua carne, eppure suo figlio tanto quanto la sorella che aveva partorito.
I ricordi le offuscarono gli occhi, e le vaste praterie attorno a Whiterun si trasformarono di nuovo nei vicoli sudici di Riften.
 
 


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Succede che certe storie non ti lasciano mai del tutto. Te le tieni lì per mesi, per anni, e non riesci ad archiviarle.

Succede anche di decidersi, finalmente, a dare una possibilità alle proprie doti informatiche, e di riprendere in mano Skyrim con espansioni annesse. Era anche ora, insomma.

Succede che si riscopre quella stessa passione, immutata, forse anche più profonda di prima. E succede di voler scrivere ancora qualcosa.

Il clima è diverso, più sereno (anche se non necessariamente più tranquillo, come si vedrà più avanti!), ma la quiete è solo un’impressione. Alina è sempre Alina, e non può essere nulla di diverso da ciò che è… anche se un po’ di pace non guasta!

So che rimangono molte questioni in sospeso -ma questo chi è, che fine ha fatto questo, quest'altro sarà ancora vivo?- ma confido di rispondere un po' a tutto nei prossimi capitoli!

Questa volta i titoli sono presi da brani di Thomas Bergersen, che è pur sempre l’anima artistica dei Two Steps from Hell e quindi una garanzia di qualità^^
Se avrete voglia di dare una possibilità anche a questa piccola raccolta di momenti avrete la mia gratitudine. Se non conoscete la storia da cui è tratta (e da cui provengono le brevi citazioni a inizio prologo) la trovate qui: http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1450365&i=1 


E se dopo questo mio sproloquio siete ancora qui… grazie di cuore! E al prossimo capitolo, con un primo tuffo nel passato.



Val

 
   
 
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