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Autore: Berry Depp    30/07/2014    4 recensioni
One-shot abbastanza lunga che parla della vita di un personaggio misterioso quanto affascinante: Scourge the Hedgehog.
Dal testo:
"Il Max di una volta era cresciuto, era mutato in Scourge, il flagello di chiunque gli si mettesse contro, di chi non gli andasse a genio."
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Scourge The Hedgehog
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 I bambini non nascono malvagi. Ci basta vedere il loro modo di fare, di giocare, per comprendere tutta la loro docile ingenuità. Perché qualcuno diventi malvagio, deve accadere qualcosa che lo segni a vita, che gli faccia cambiare il modo di vedere il mondo, non più come un mondo da scoprire, ma come un mondo da odiare.
 Max era una bambino sereno, un riccetto verde tutto vivacità e allegria. Seppure spesso facesse arrabbiare i suoi genitori con le sue monellerie dovute alla troppa allegria e iperattività, lo volevano bene.
 Si, era ben voluto da tutti. Sapeva farsi tanti amici e piaceva a tante ragazzine della sua età. Amavano i suoi splendidi e profondi occhi azzurri e il suo modo di fare spensierato e scherzoso.
 Tuttavia, la sua vita non era destinata a rimanere tale. Un giorno, era andato con i suoi genitori in banca, perché dovevano sbrigare delle commissioni. Stavano aspettando in fila quando quattro rapinatori col passamontagna irruppero nella banca gridando la solita frase: “Questa è una rapina!”
 Costrinsero tutti i presenti, compresa la famiglia the Hedgehog, a stare seduti a terra e addossati ad un muro, intimando i banchieri di mettere tutti i soldi dentro i loro sacchi. Max li guardava colpito. Non aveva la stessa espressione terrorizzata di tutti gli altri che si trovavano nella sua stessa posizione, lui era più attirato da quei curiosi signori “col cappello tirato troppo in giù”, pensava lui. Sua madre lo stringeva forte a sé e suo padre era inginocchiato accanto a loro con un’espressione convinta in volto.
 - Carl, che vuoi fare? - chiese sua madre al marito, vedendolo in procinto di alzarsi.
 - Lì c’è il pulsante dell’allarme antincendio - rispose lui indicando il pulsante rosso sul muro a pochi metri da loro. - Se riesco a premerlo scatterà e qualcuno verrà in nostro soccorso.
 - Se ne accorgerebbero, Carl! Ti sparerebbero! - esclamò la riccia bionda con le lacrime agli occhi. Max guardava tutto con l’innocenza che un bambino di dieci anni può mostrare, i grandi occhi blu spalancati che cercavano di capire cosa stesse succedendo.
 - Devo almeno provare. Per salvarvi tutti - rispose Carl con tono fermo. Poi strinse la mano di sua moglie tra le sue e la guardò negli occhi. - Ti amo, Phoebe - rivolse lo sguardo anche a Max, che continuava a non capire cosa suo padre volesse fare - E amo anche te, Maximilian. Sono sicuro che diventerai un grande riccio - infine baciò sua moglie sulle labbra e suo figlio sulla fronte. Si alzò velocemente per raggiungere il pulsante mentre i rapinatori erano girati e non potevano vederlo, ma si sentì la voce di Phoebe: - Non fare pazzie! - urlò.
 I rapinatori si voltarono e due di loro mirarono velocemente a Carl e a Phoebe con Max imbraccio. Lei si girò in tempo perché la pallottola sparata verso di lei non colpisse il figlio.
 In pochi attimi Max rimase orfano. Suo padre si accasciò a terra col sangue che sgorgava dalla testa e sua madre cadde di peso addosso a lui, il sangue che le bagnava il torace e sporcava il vestito che gocciolava anche sul suo corpicino.
 La polizia arrivò solo in quel momento. Salvarono tutti e dovettero portare Max dai suoi zii, gli unici parenti che aveva oltre i suoi genitori. Lo shock per la loro morte procurò in Max un senso di timore verso tutti. Non si fidava più di nessuno e aveva smesso di ridere, come se la sua adrenalina l’avesse abbandonato del tutto nel momento stesso in cui le pallottole  erano penetrate nella carne dei suoi genitori.
 Nemmeno gli anni seguenti furono semplici per lui. Dovette andare a vivere in un’altra città insieme ai suoi zii e abbandonare la sua scuola e i suoi amici e per di più gli zii non lo trattavano nemmeno bene.
 Ogni giorno era vittima di violenze e abusi da parte loro e questo non faceva altro che distruggere quello che era un tempo. Aveva detto addio alla sua allegria, ora i suoi occhi non erano più vispi, mostravano solo la violenza che era costretto a subire.
 Visse quella vita per cinque anni, finché non trovò il coraggio di fuggire. Ci aveva pensato spesso, ma non si sentiva ancora pronto: nonostante tutto i suoi zii gli davano da mangiare (se pane duro e acqua si può definire pranzo e cena) e non era sicuro di poter trovare un buon posto dove stare. Ma ormai non ce la faceva più. Ogni giorno contava i tagli e i lividi che aumentavano sul suo corpo e provava a medicarli come meglio poteva rubando il cotone e l’acqua ossigenata dagli sportelli del bagno, ma non poteva più sopportare tutto quello.
 Fuggì una notte d’autunno, il giorno dopo il suo quindicesimo compleanno, passato come tutti gli altri: svegliato con calci e pugni e successivamente vittima di abusi. Sembrava che volessero rendere più di tutti gli altri giorni un inferno proprio il giorno in cui un ragazzo dovrebbe essere più felice del solito. Lo chiamavano “regalo di compleanno”. Almeno se ne ricordano, pensava lui, anche se poi aggiungeva, tra sé e sé: “Meglio se non lo ricordassero”.
 Quella notte faceva freddo e aveva bisogno di un posto dove stare. Trovò un vecchio cantiere abbandonato e rimase lì a dormire, coperto solo dalla felpa azzurra che suo padre gli aveva regalato, forse l’unica cosa che gli era rimasta di veramente suo.
 La mattina dopo si svegliò e trovò davanti a sé un gruppo di ragazzi che lo guardavano incuriositi. Si alzò e notò che molti di loro presentavano orecchini e cicatrici a vagonate, nonché medaglioni di finto oro e giubbotti di finta pelle.
 - Chi siete? - domandò intimorito. - Cosa volete?
 Gli altri si guardarono l’un l’altro, poi si girarono e lasciarono che Max vedesse un altro ragazzo, il più grande. Era un cane con una parte di testa rasata su cui spiccava un tatuaggio, un grosso drago cinese. Almeno cinque orecchini adornavano il suo orecchio sinistro, per non parlare dei piercing sulle sopracciglia, sul naso e sul labbro. Indossava dei jeans strappati alla cui cintura era appesa una catena e un gilet rosso scuro, sembrava circa due anni più grande di Max. Ed era il capo.
 - Identificati - gli intimò lui, rivelando una voce da ragazzo, dopotutto, non profonda e terrificante come quella che Max si era immaginato di sentire uscire dalla sua bocca. Tuttavia, il tono freddo e distaccato gli fece sentire un brivido che gli percorreva la spina dorsale.
 - M... Max. Mi chiamo Max e avevo bisogno di un posto dove passare la notte. - tentò di utilizzare anche lui un tono fermo e sicuro, come quello di suo padre. Non l’aveva ancora dimenticato, ogni notte lui e sua madre gli facevano visita in sogno e la sua voce era sempre quella di una volta.
 - Non hai dove andare? - chiese il capo. Max scosse la testa. - Bene. Se vuoi puoi unirti a noi. Abbiamo rifugi caldi e anche carne fresca, quando riusciamo a rubarla a quel bestione che è il macellaio.
 Il riccio verde ci pensò seriamente a quella proposta. Era sicuramente meglio di tornare a casa, se i suoi zii quella mattina non l’avevano trovato, era molto probabile che non avessero nemmeno chiamato la polizia e se fosse tornato l’avrebbero comunque preso di nuovo a pedate.
 Intanto il cane si avvicinò e scrutò attentamente i lividi sulla sua faccia.
 - Come te li sei fatti questi? - chiese, sfiorandone uno. Max si ritrasse velocemente, intimorito dal solo movimento dell’altro che aveva semplicemente alzato una mano.
 - Capisco - mormorò quello. Evidentemente ne aveva sentite tante di storie come la sua – Il mio nome è Alpha e sono il capo di questa banda di scalmanati – malgrado li avesse apostrofati in quel modo, Max vide che i ragazzi avevano sorrisi dolci dipinti sul volto e anche la voce di Alpha sembrava essersi intenerita mentre rivolgeva uno sguardo beffardo al suo gruppo.
 - D’accordo - esclamò Max convinto.
 - Come? - chiese Alpha.
 - Sono uno di voi.
 Alpha sorrise, poi parlò: - Perfetto. Ma prima devi superare una semplice prova, come tutti noi abbiamo fatto.
 Così Max si ritrovò a dover scippare una borsetta ad una donna seduta in un bar. Non fu molto difficile e una volta tornato al covo scoprirono anche che nella borsetta c’era un portafoglio bello gonfio e pure un orologio d’oro ancora chiuso nel pacchetto della gioielleria.
 - Non male, Maxy - lo apostrofò Alpha. - Come vuoi che ti chiamiamo?
 - Cosa? - fece lui.
 - Nuova vita, nuovo nome. Credi davvero che mi chiami Alpha? - rise il cane. - Tutti abbiamo un soprannome qui, la maggior parte di noi non ricorda nemmeno più il suo vero nome.
 Max ci pensò. Un nuovo nome doveva rispecchiare ciò che era, ciò che aveva subito, magari. Poi gli tornò in mente la cintura che suo zio usava per frustarlo.
 “Sei il nostro flagello, ecco cosa sei! Ti piace essere ripagato con la tua stessa moneta? Flagello! Sei il nostro flagello!” le grida irose gli tornavano in mente facendolo rabbrividire e avvampare di rabbia allo stesso tempo. Strinse i pugni e, con un tono di voce basso e che aveva quasi del mostruoso che non si sarebbe mai immaginato di usare, rispose convinto: - Scourge. Chiamatemi Scourge the Hedgehog.
 
 Scourge aveva diciassette anni quando, durante un colpo in una piccola banca, Alpha rimase ucciso. In quegli anni la loro banda aveva acquisito competenze maggiori e si erano spostati a colpi più importanti di piccoli furti nelle bancarelle della frutta.
 Alpha gli aveva regalato un paio di occhiali da sole e Scourge era riuscito a rubare un giubbotto di pelle (pelle vera!) da un negozio. Ora non li levava mai.
 Purtroppo la polizia li fermò prima che potessero prendere tutto il bottino e per sbaglio un poliziotto sparò ad Alpha che morì sul colpo. Tuttavia Scourge e il resto dei compagni riuscirono a non farsi prendere e di comune accordo tutti nominarono Scourge capo della banda, diventata ora “i Flagelli”.
 Alpha era sempre stato gentile con Scourge, così come con tutti gli altri e ci volle un po’ perché si riprendesse dall’accaduto. Almeno ora non c’era chi non lo consolava e anzi lo picchiava, bensì un gruppo di compagni che avevano subìto la sua stessa perdita e che si consolavano a vicenda.
 
 Un anno dopo, quando si sentivano pronti per un grosso colpo in banca, per Scourge finì anche quella sua nuova vita.
 Andava tutto alla grande, quando arrivò la polizia. I suoi compagni smisero di infilare banconote nei sacchi e corsero via, ma lui voleva finire di riempire il suo sacco. Questo gli costò caro. La polizia lo prese e fu sbattuto in carcere per rapina a mano armata.
 Dovette dire addio anche ai Flagelli, che non potevano andare a fargli visita altrimenti avrebbero rinchiuso anche loro. Gli fu portato via il costoso giubbotto di pelle e al posto suo fu costretto ad indossare la divisa arancione del carcere, poi sostituita da una seconda, dato che la prima fu strappata dal suo compagno di cella che gli procurò delle cicatrici sul petto durante uno dei tanti scatti d’ira dovuti alla disintossicazione improvvisa dalla droga.
Quelli che una volta erano gli allegri occhi di un bambino vivace, ora erano diventati freddi buchi senz’anima che rispecchiavano il carattere di Scourge, duro e sicuro di sé. Un giorno decise di farla finita con Kirk, il suo compagno e, quando questi si avvicinò di nuovo a lui, con tutta la sua forza staccò una brandina dal muro e gliela tirò contro. Malgrado fosse enorme, Kirk non aveva tanta forza a causa della disintossicazione forzata e cadde a terra solo per il legno marcio che si spezzò colpendolo. Con un urlo disumano Scourge si avventò su di lui e cominciò a prenderlo a calci nello stomaco, a urlargli contro parole pesanti e a sputargli in faccia. In poco tempo si riempì del sangue dell’altro e di suo sudore. Le urla animalesche si sentirono per tutto il carcere, tanto che due guardie spalancarono la porta della cella, tennero fermo Scourge che continuava a divincolarsi per le braccia e lo trascinarono via.
 Mentre lo portavano chissà dove, lui continuava a urlare in preda alla rabbia: - Non l’ho ancora finito! Come si permette? Io lo ammazzo! Lasciatemi! Io sono Scourge! Vi farò secchi tutti quanti! Lasciatemi! Lasciatemi, basta!
 Lo buttarono dentro una cella buia e serrarono la porta (non fatta di sbarre, questa aveva solamente una finestrella apribile solo dall’esterno).
 Scourge digrignava i denti, si sentiva avvampare. Com’era possibile che tutto il mondo ce l’avesse con lui? Dopo la morte dei suoi genitori tutta la sua vita era andata distrutta, il Max di una volta era cresciuto, era mutato in Scourge, il flagello di chiunque gli si mettesse contro, di chi non gli andasse a genio.
 Adesso il suo desiderio era solo uno: vendetta. Vendette contro tutti, vendetta contro il mondo, vendetta.
 E avrebbe ucciso chiunque si sarebbe permesso di ostacolarlo nella sua impresa.
 


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Cabina del Capitano e di Mar: 
Mar: Oh mamma ç_ç
Triste, eh? Già... Il punto è che dopo aver visto quell'immagine, il mio cervello ha cominciato a lavorare senza che io glielo dicessi ed è uscita questa one-shot che, a parer mio, è una SIGNORA one-shot. Cioè, modestia a parte, a me piace tantissimo. Scourge non mi è mai andato molto a genio, forse perchè non si conosce a pieno la sua storia e scriverla per me è stato mitico e terribile al tempo stesso. Ho pensato che non può essere sempre stato pazzo com'è, che qualcosa deve pur essere accaduta perchè sia diventato quello che vediamo tutti. Ah e se non si è capito il "chiunque" dell'ultima frase è Sonic. 
Mar: Palese.
Bitch Please... Fatemi sapere cosa ne pensate, è molto importante per me capire se la storia di Scourge è piaciuta.
Don't touch the cinnamon!
BD

 
  
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