Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: LazySoul    31/07/2014    2 recensioni
Victoria non ha quella che si può definire una vita facile. I suoi genitori sono morti quando lei era ancora piccola e da quel momento lei ha il terrore di perdere le persone che le sono più vicine come, per esempio, suo fratello Peter e il suo migliore amico, Sam.
È la fine dell’estate e, col ritorno di vecchi incubi lei cede a vecchie abitudini, ma per fortuna che Sam è sempre lì ad aiutarla ed a sostenerla.
Lui gliel’ha promesso: non la abbandonerà mai.
Peccato che lei non sappia che questa sia solo l’ennesima bugia.
[Partecipante al contest: "Petali di lacrime!" indetto da DarkElf13]
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Roulette Russa

Titolo: Roulette Russa
Autore: LazySoul 
Fandom: Originale 
Pacchetto: Ibisco
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo
Rating: Arancione
Introduzione: Victoria non ha quella che si può definire una vita facile. I suoi genitori sono morti quando lei era ancora piccola e da quel momento lei ha il terrore di perdere le persone che le sono più vicine come, per esempio, suo fratello Peter e il suo migliore amico, Sam.

È la fine dell’estate e, col ritorno di vecchi incubi lei cede a vecchie abitudini, ma per fortuna che Sam è sempre lì ad aiutarla ed a sostenerla.

Lui gliel’ha promesso: non la abbandonerà mai.

Peccato che lei non sappia che questa sia solo l’ennesima bugia.

Avvertimenti: Tematiche delicate

 

 

Roulette Russa

 

 

 

Strinsi forte il labbro inferiore, pressandoci sopra i miei denti bianchi.

Faceva male, ma non avevo intenzione di fermarmi perché per quanto fosse doloroso mi faceva provare qualcosa di diverso rispetto alla solitudine.

Spinsi maggiormente, ignorando il bussare insistente alla porta del bagno e la voce di Peter che mi chiamava.

Guardavo con insistenza il luccichio sinistro della lametta a contatto col mio polso, dal quale uscivano poche gocce di sangue che scivolavano fino a macchiare il bianco immacolato del lavabo del lavandino.

Bruciava e lasciava una sensazione spiacevole di formicolio alle dita, ma non volevo fermarmi.

Scostai la lametta e la premetti leggermente più in su rispetto al taglio precedente, vedendo nuove gocce di sangue mescolarsi con le altre.

I colpi alla porta aumentavano, ma fino a quando la porta era chiusa a chiave potevo stare tranquilla: Peter era troppo pigro per anche solo pensare di andare a prendere la chiave di scorta per aprire il bagno che si trovava in cucina.

“Ancora uno” mi dissi: “L’ultimo”.

Premetti nuovamente la lametta, incantandomi a guardare le gocce che scivolavano intorno al polso prima di aggiungersi a quelle già presenti nel lavabo.

«Vee! Apri immediatamente questa porta! Porca puttana, devo cagare!»

Alzai lo sguardo verso la porta, ma non degnai mio fratello Peter di ulteriori attenzioni, prima di tornare a studiarmi il polso.

“E se ne facessi ancora uno? Uno piccolo piccolo...”

La tentazione era troppo forte, così sollevai nuovamente la lametta per premerla vicino all’incavo del gomito.

Gemetti, insicura se a causa del bruciante dolore o se dal  desiderio di continuare all’infinito, fino a quando in me non fosse rimasta nemmeno una goccia di sangue.

«Peter! Apri!»

Sussultai, riconoscendo la voce di Samuel e capendo subito che dovevo nascondere tutto.

Lasciai cadere la lametta in un cassetto accanto allo specchio, aprii l’acqua del lavandino, cercando di cancellare le prove di ciò che avevo fatto il più in fretta possibile, fino a quando il lavabo non tornò ad essere bianco ed immacolato.

Sentivo i passi di Peter che si avvicinavano alla porta d’ingresso, mentre Samuel continuava a bussare e a suonare il campanello alternatamente.

Avevo pochi secondi, e i tagli sull’avambraccio non volevano smetterla di sanguinare – e pensare che non li avevo fatti nemmeno troppo profondi – prima che Samuel entrasse in bagno.

Afferrai più carta igienica possibile e la premetti contro la pelle dolorante, mordendomi ancora più forte le labbra per non gridare dal dolore.

Samuel era entrato, sentivo i suoi passi diretti verso la cucina e non riuscii a trattenere un «Cazzo», mezzo strozzato dall’uscire dalle mie labbra.

Buttai la carta igienica nel cesso e tirai l’acqua, prima di afferrare la mia felpa grigia a maniche lunghe e d’indossarla.

Riuscii giusto a controllare il lavabo un’ultima volta prima che la porta del bagno si aprisse e  un furioso Samuel, seguito da un Peter piuttosto confuso mi si parassero davanti.

«Victoria, ma quanto cazzo ti ci vuole per fare la pipì, eh?», chiese Peter, prima di scansare Sam e di buttare me fuori dal bagno: «Il tuo amico ti vuole parlare e ora, se non vi dispiace, lasciatemi cagare in pace».

L’istante dopo ero nel corridoio con Samuel che continuava a fissarmi dritto negli occhi, con uno sguardo che mi faceva sentire una bambina sul punto di essere sgridata dal proprio padre.

Peccato che Samuel non fosse mio padre, ma il nostro vicino di casa, nonché compagno di avventure e di disavventure di sempre.

«Ciao, Sam, come mai qui?», finsi indifferenza, sorridendogli, mentre mi dirigevo in camera mia, ignorando il bruciore all’avambraccio.

«Ciao, Tori», disse, seguendomi.

Sembrava più rilassato rispetto a quando me l’ero trovato di fronte in bagno pochi secondi prima e questo mi rassicurava molto.

Questo significava che non avevo capito cosa avevo fatto, quindi potevo star sicura di non ricevere sgridate da lui.

«Sai che odio quel soprannome», gli ricordai, sedendomi sul bordo del mio letto: «Cosa fai qui? Vuoi copiare i compiti di matematica? O hai finito quelli di storia e me li vuoi passare?»

Fingevo una disinvoltura che non mi apparteneva; temevo che da un momento all’altro lui mi guardasse in quel modo accusatorio che tanto odiavo, quello sguardo che mi diceva chiaramente quanto fosse contrario alle mie vecchie abitudini mattutine che stavano tornando a galla.

«No, ho sentito tuo fratello urlare, mi sono preoccupato ed eccomi qui», sollevò le spalle, facendomi uno di quei sorrisi dolci che tanto amavo di lui.

Si sedette accanto a me sul letto, afferrando da terra il mio vecchio cubo di rubik, cominciando a giocarci.

«Comunque ho anche finito i compiti di storia, quindi più tardi te li porto», aggiunse, facendomi l’occhiolino.

«Bravo! Ora dovremmo solo trovare qualche anima pia che ci aiuti con scienze e siamo a cavallo».

«Ho trovato un sito su internet dove gli studenti si aiutano gratuitamente con i compiti, non è detto che ciò che otteniamo sia corretto al 100%, ma è sempre meglio di niente no?»

«Ti rendi conto che tra meno di una settimana inizia la scuola e che noi abbiamo passato l’estate a lavorare per il vecchio Beau? Siamo davvero dei poveri sfigati...», gli dissi, indicandogli in quale delle sei facce si trovava il quadratino rosso che gli mancava per completare un lato del cubo di rubik.

«Mentre Mandy-sono-più-bella-e-ricca-di-tutti passerà le prime due settimane di scuola a vantarsi con tutti delle sue vacanze in Europa e di tutte le sue conquiste estive», continuai, sfogando l’odio represso che nutrivo per quella barbie umana.

«Mandy non è bella, in realtà è solo il guscio di una conchiglia, ma se dentro il paguro è marcio, allora perde il suo valore», disse Sam, esultando dell’esser riuscito a completare una facciata del cubo.

«Oggi che programmi abbiamo?», gli chiesi, ricordano a me stessa che era martedì ed era l’unico giorno, a parte la domenica, che potevamo dedicare a noi stessi e non al negozio di antiquariato del prozio di Samuel.

«Per il momento nulla ma, se riesci a preparati in dieci minuti potrei prendere la macchina di mia sorella e potremmo raggiungere l’oceano in due ore scarse», propose Sam, facendomi l’occhiolino mentre si alzava e appoggiava accanto a me il cubo di rubik incompleto.

Analizzai l’idea, ricordando a me stessa che un giorno di mare mi avrebbero fatto solo bene, anche se odiavo prendere il sole, amavo l’acqua e l’odore della salsedine.

«Ci sto!», gli dissi, alzando lo sguardo verso di lui.

Il suo viso, pochi secondi prima sereno e spensierato si era adombrato di colpo, la fronte ora era aggrottata e le labbra carnose erano strette in una linea sottile e pallida.

«Cosa...?», iniziai a chiedere, ma trattenni involontariamente il respiro e sussultai quando capii che cosa stesse guardando: sul mio avambraccio la felpa grigia si stava pian piano colorando di rosso scuro.

Mi alzai, pronta a correre a nascondermi da qualche parte, ma Sam mi spinse di nuovo a sedere, prima di incitarmi a togliere la felpa per fargli vedere cosa mi ero fatta questa volta.

Furono quella due parole, quel “questa volta” che mi fece vergognare ancora di più, perché mi ricordava tutte le altre volte che aveva visto i miei polsi o magari le mie cosce solcate da tagli poco profondi, che lasciavano bianche cicatrici indelebili.

«Toglila», ripeté e, quando capì che non l’avrei fatto, si sporse su di me e, afferrando il bordo inferiore dell’indumento lo tirò su, denudandomi dalla vita in su.

Sembrava non notare i miei seni nudi e neppure la pelle d’oca che vi si era formata sopra, aveva occhi solo per il mio avambraccio, dove spiccavano cinque tagli poco profondi dai quali sgorgavano piccole gocce di sangue.

Si voltò verso il mio comodino afferrando alcune salviette che applicò con fin troppa dolcezza sulle mie ferite, dove il bruciore continuava a tormentarmi.

C’era sempre stata, fin dalla prima elementare una forte ed intima amicizia tra noi, ma negli ultimi cinque anni non avevamo più fatto il bagno nudi nella vaschetta di plastica nel cortine del vecchio Beau e quel ritorno al passato mi fece sentire ancora più a disagio.

Capii il momento in cui si accorse che ero nuda, perché lo vidi bloccarsi di colpo e prendere un rapido e profondo respiro, prima di voltarsi da un’altra parte.

«Copriti, per favore», sussurrò e io lo feci, troppo spaventata dai miei pensieri e da quella vocina nella mia testa che mi aveva consigliato invece di chiedergli se mi trovasse bella.

Una volta indossata la canottiera del pigiama, i suoi occhi tornarono su di me e mi sentii sua complice nel notare il rossore del suo viso, certa che lo stesso imbarazzo fosse ben visibile sul mio volto.

Poi quell’emozione sfuggente sul suo viso scomparve e vi trovai di nuovo la delusione.

«Mi avevi promesso che non l’avresti più fatto», sussurrò.

Quel dolce torpore che il suo sguardo sul mio corpo seminudo mi aveva provocato scomparve all’istante, sepolto sotto strati e strati di vergogna.

«Ci ho provato», mormorai, stringendo a mia volta le labbra, mentre affondavo le dita tra le coperte del letto: «Ma questa notte ho fatto di nuovo quel sogno, ho pianto per ore e questa mattina è come se fosse stata un’altra a controllare il mio corpo e farmelo fare...»

Affondai le dita tra i miei capelli scuri e cercai in tutti i modi di trattenere le lacrime, ignorando le salviette sulle mie ferite che ormai erano cadute, sporche di sangue, a terra.

«No, Tori, non fare così», mormorò, allungandosi fino ad abbracciarmi in modo goffo, ma stranamente confortante: «Ancora quella stanza rossa?»

Annuii: «Con i miei genitori che se ne vanno e non tornano».

Si sedette vicino a me e, con gesti impacciati ma precisi, mi fece sedere sulle sua gambe, continuando a stringermi e ad accarezzarmi i capelli.

«È successo tanto tempo fa, Tori... ci sono qua io con te e non ti lascerò mai. Hai sentito, Tori? Mai».

Annuii, cercando di diminuire i singhiozzi e di smetterla di piangere.

Aveva ragione, avevo otto anni quando i miei genitori sono scomparsi dalla mia vita, entrambi alcolizzati, sempre fatti e mai presenti se ne erano andati per colpa di un’overdose, affidandoci, a me e mio fratello, alle cure della zia Ophelia.

Eravamo stati felici per cinque anni, prima che anche la zia se ne andasse per colpa di un attacco di cuore, mio fratello, che in quel periodo era al primo anno d’Università, aveva lasciato tutto per tornare a prendersi cura di me; aveva trovato un lavoro, una babysitter per me (la sorella maggiore di Samuel) e si era impegnato ad aiutarmi sempre e comunque, qualunque cosa accadesse.

Sapevo che su Peter e Sam avrei sempre potuto contare.

Loro ci sarebbero stati sempre per me.

«Lo so», sussurrai, dandogli un bacio sulla fronte, facendolo sospirare, probabilmente di sollievo.

«Allora, questo oceano?»

Sapevo di avergli detto di sì, nemmeno dieci minuti prima, ma ora l’idea di stare in costume davanti a chissà quanti sconosciuti mi metteva a disagio; avrebbero visto il mio corpo per niente bello, la ciccia sulla pancia, la cellulite sulle gambe e le cicatrice sugli avambracci...

Affondai maggiormente le dita nella stoffa della maglietta di Samuel e scossi il capo: «Non ce la faccio».

Sospirò di nuovo, questa volta sembrava di tristezza e delusione però.

«Cosa vuoi fare allora?»

Come sempre, subito dopo aver pianto davanti a qualcuno mi sentivo vulnerabile, piccola, insicura...

Avrei voluto essere uno struzzo, per poter seppellire la mia testa sotto terra e non riemergere più; smettendo di vedere il mondo e me stessa.

«Scomparire», sussurrai con un filo di voce, quasi certa che Sam non mi avesse sentita, mentre affondavo sempre di più il viso contro il suo collo.

«Ma se tu scomparissi io come farei, mmh?», mi chiese, provandomi di aver sentito il mio folle desiderio e di non averlo apprezzato neanche un po’: «Lo faresti davvero? Scompariresti, lasciandomi solo? Non ti mancherei neanche un po’?»

«Quando si muore non si soffre di nostalgia per il mondo dei vivi», dissi, dissotterrando il mio volto dalla calda protezione del suo collo, così da poterlo vedere in viso.

«Non è ciò che c’insegna Emily Brontë nel suo romanzo», ribatté, ricordandomi le noiose lezioni di letteratura sul romanzo “Cime Tempestose” che ci eravamo dovuti sorbire a Marzo.

«Catherine era una stupida, non si è accontentata di ciò che aveva e per questo ha avuto una vita triste», ribattei.

«Ti senti meglio?», mi chiese, asciugandomi con le dita le ultime lacrime che avevo sulle guance.

Annuii e poi gli sorrisi: «Che ne dici di una giornata cinema?»

Gli brillarono gli occhi e in quell’istante, chissà per quale motivo, mi tornò in mente l’imbarazzo di poco prima e il mio folle desiderio di non coprirmi, per continuare a sentire quel caldo torpore che il suo sguardo sul mio petto nudo mi causava.

Sam mi era sempre piaciuto, non era un’esemplare di bellezza, ma in fondo non lo ero neanche io. Portava gli occhiali, aveva una piccola gobbetta sul naso, il viso squadrato e gli occhi scuri. Dall’anno scorso aveva sempre un accenno di barba e, quando ci abbracciavamo mi piaceva sentirla sfregare contro la mia fronte o guancia. Era molto magro e longilineo, tanto che a scuola per prenderlo in giro lo avevano sempre chiamato “Mr. Lampione”. Ma a me piaceva tanto stare con lui, ridere, scherzare...

Una volta, in seconda superiore ci eravamo baciati, ma eravamo entrambi troppo impauriti per cambiare la nostra amicizia con qualcosa di diverso: non volevamo rischiare di perdere il nostro rapporto d’amicizia, eppure, per certi versi era come se fossimo fidanzati da anni.

Non ci interessavano le altre persone o avere una relazione romantica con qualcuno, il mio primo bacio era stato proprio quello scambiato con lui in seconda superiore e sapevo che per lui era lo stesso e poi quello che era accaduto poco prima, quando mi aveva visto seminuda...

Ero innamorata di lui perché era l’unica persona che mi facesse stare bene, a parte Peter, senza chiedermi nulla in cambio, tranne lo stesso affetto e amore che lui riversava su di me.

«Vado a prendere dei film a noleggio, allora. Che genere?», mi chiese, baciandomi la guancia, facendomi così sentire con fin troppa chiarezza la sensazione della sua barba ruvida a contatto con la mia pelle morbida ancora umida dalle lacrime.

«Voglio qualcosa di strappalacrime e romantico... e poi uno di avventura e azione... oppure un fantasy... mmh... no meglio azione», mentre decidevo giocavo con le sue dita, stringendole tra le mie, per poi lasciarle pochi secondi e tornare ad afferrarle poco dopo; intrecciavo le nostre mani in ogni modo possibile e, assorta in quella danza che conoscevo da anni, mi resi conto troppo tardi di esser stata muta per troppo tempo.

Alzando lo sguardo incontrai quello di Sam, che scrutava il mio viso con dolcezza mista a tristezza.

«Promettimi che non lo farai mai più, che la prossima volta verrai da me, invece di chiuderti in bagno da sola: ci siamo capiti?», mentre parlava aveva spostato lo sguardo sui tagli sul mio avambraccio e la tristezza nei suoi occhi aveva cancellato interamente la dolcezza di poco prima.

Non era la prima volta che mi chiedeva di non farlo più, ma speravo vivamente che fosse l’ultima, non volevo più deluderlo, non lui, non il mio Sam. Finché avrei avuto lui con me ad aiutarmi a resistere non avrei più fatto nulla di così sconsiderato e stupido.

«Te lo prometto, a patto che tu mi stia vicino e che non mi lasci mai»

La strano torpore di prima era tornato e, questa volta, seguii quella strana vocina nella mia testa, che mi diceva: “Bacialo”.

Mi sporsi verso di lui, appoggiando la mia bocca sulla sua, sentendo più forte l’odore della sua pelle e il sapore di caffè che aveva sulle labbra.

Prima che potessi rendermi davvero conto di ciò che stavo facendo era tutto finito, Sam si era allontanato e nei suoi occhi lessi lo stesso panico che in seconda superiore lo aveva portato a chiedermi di non farlo più, perché lui non voleva.

«Che cosa fai?!», mi chiese, alzandosi di scatto in piedi, quasi facendomi cadere a terra per la sorpresa, dato che mi trovavo ancora sulle sue gambe.

Non sapevo cosa dire, ero letteralmente senza parole.

Non che mi aspettassi chissà che scena romantica e passionale... sì, invece, era proprio quello che mi aspettavo, o in cui, più probabilmente, speravo.

A me era piaciuto quel piccolo timido bacio, possibile che lui invece ne fosse stato così tanto disgustato?

Ci fissavamo come se fossimo stati due sconosciuti: io non riconoscevo lui e lui non riconosceva me.

«Io... volevo solo...», iniziai a dire, ma in realtà non sapevo come continuare la frase.

La mia testa era in un blackout assoluto.

«Non voglio che tu mi baci, Victoria... perché poi dovresti baciarmi? Puoi avere di molto meglio che uno come me!», disse Sam, cominciando a fare aventi ed indietro per la mia stanza; come una tigre in gabbia, un fiero felino che aspetta solo il momento migliore per attaccare.

«Ma mi hai vista, Samuel? Chi diavolo vorrebbe mai baciarmi?», dissi, con voce alterata, mentre mi paravo davanti a lui: «Se è te che voglio baciare non puoi farmi delle scenate tutte le volte che ci provo!», gridai, dandogli una leggera spinta all’indietro.

«Io e te siamo migliori amici, tu non vuoi che le cose cambino!», urlò a sua volta, facendomi male al petto ad ogni sua parola, mentre il cuore mi batteva all’impazzata.

«Come puoi tu sapere cosa voglio e cosa no?», dissi, fissandolo con lo sguardo più contrariato che avevo in repertorio.

Di solito io e lui non litigavamo mai, eppure in quel momento sapevo di aver ragione ed ero pronta a difendere i miei sentimenti a tutti i costi.

«Tu non vuoi me, Victoria!», gridò, prendendomi il viso tra le mani: «Tori, tu sei una bellissima persona, sia dentro sia fuori e non ti meriterei nemmeno come amica, quindi non complicare ancora di più le cose, per favore!»

Lo baciai di nuovo, cogliendolo di sorpresa ma lui, ancora una volta, si ritrasse: «Smettila»

«Voglio un bacio vero».

La mia voce suonò patetica perfino alle mie orecchie, ma ero pronta a supplicarlo se necessario.

Sam si morse il labbro, scrutandomi con attenzione, prima di gemere piano e di afferrarmi per la vita. Le nostre labbra si scontrarono con forza, iniziando una danza che, senza bisogno di accompagnamento musicale, era fluida e sensuale. Tenni gli occhi chiusi, assaporando con gli altri sensi quel dolce contatto che avrei voluto avere con lui già da tempo. Affondai le mani tra i suoi capelli, poi le feci scorrere giù, lungo la schiena, per poi farle risalire sotto la maglietta che indossava. Avevo le dita fredde, mentre la sua schiena era più che bollente: il contrasto fece gemere entrambi. Gli sfilai la t-shirt e lui mi sorrise, prima di fare lo stesso con la mia. Questa volta eravamo entrambi nudi dalla vita in su e, per quanto mi sforzassi di procedere con calma, avrei voluto toglierci tutti i vestiti e gettarlo sul mio letto. Era una vita che aspettavo quel momento e l’idea che la mia prima volta fosse con lui mi rendeva più felice che mai. Ci baciammo di nuovo, questa volta però faticai a non gemere, soprattutto per il fatto che le mani di Sam stavano toccando i miei seni fin troppo sensibili.

Senza pensarci due volte allungai la mano verso la patta dei suoi pantaloni, pronta a slacciarli in un nanosecondo, ma una mano di Samuel mi bloccò.

«Cosa stai facendo?»

Alzai un sopracciglio, sentendo lo stomaco contrarsi al suono roco ed affannato della sua voce: «Secondo te?»

Il mio tono ironico non gli piacque e fece un passo indietro, con espressione contrariata: «Non possiamo».

Aggrottai la fronte, sentendomi ferita per il suo rifiuto: «Perché no? È perché sono brutta?»

Sam sbarrò gli occhi: «Cosa?! NO! tu non sei brutta, Tori, sei bellissima, la ragazza più bella che io abbia mai conosciuto in tutta la mia vita. Io... vorrei tanto farlo, ma prima ti devo parlare di una cosa importante».

Avevo sorriso quando aveva detto che ero bella, ma ora quell’espressione felice non c’era più: «Te ne vai?»

La mia voce era un sussurro quasi inudibile.

Era stupido da parte mia ma, per quanto mi sforzassi, la mia paura più grande rimaneva sempre quella di essere abbandonata dalle persone che mi stavano intorno.

«No che non me ne vado, te lo prometto».

Mi diede un bacio, un semplice sfioramento di labbra, troppo soffice e delicato forse per poterlo definire un vero e proprio bacio, ma abbastanza dolce e sincero da poter essere ricordato per sempre come il migliore di tutta la mia vita.

«Dopo ne riparliamo, ok? Ora vado a prendere un po’ di film a noleggio, tu invece prepari i popcorn, va bene?»

Sorrisi ed annuii: «Ti aspetto», lo rassicurai e lo accompagnai alla porta, sentendomi inquieta, anche se il pensiero di averlo per me tutto il giorno mi rendeva euforica.

Mentre andavo in cucina per preparare ciotole infinite di popcorn, la porta del bagno si aprì e ne uscì mio fratello con un’espressione soddisfatta in volto.

Notando la mia presenza mi fece un ghignetto sornione: «Per le prossime due ore ti consiglio di non entrare: il bagno è una camera a gas»

Risi di gusto, scuotendo la testa con un’espressione fintamente disgustata, mentre entravamo entrambi in cucina.

«Che prepari?», mi chiese, quando vide che accendevo il microonde.

«Popcorn, ne vuoi?»

«Giornata cinema? No, grazie, devo andare a lavorare, prendo soltanto un po’ di succo», rispose mordendo una vecchia e ormai molliccia fetta biscottata: «Bisogna fare la spesa».

«Sì, Sam è andato a prendere dei film...Vai tu o vado io per la spesa?», gli chiesi, mentre prendevo i popcorn confezionati e, seguendo le istruzione sulla confezione gli scuotevo prima di porli nel microonde.

«Vado io dopo il lavoro, tu goditi le ultime settimane di vacanza prima dell’inizio della scuola», mi fece l’occhiolino e scomparve anche lui, come Samuel, oltre la porta d’ingresso.

Rimasta sola preparai circa tre confezioni di popcorn e, nell’attesa presi il cellulare per giocare a Candy Crush. Avevo scoperto il gioco l’estate precedente e, quando non avevo nulla da fare mi mettevo ad abbinare caramelle, sperando di avanzare di livello, ormai ero quasi al duecentesimo ed ero fiera di me stessa, anche se Sam mi aveva detto di essere molto più avanti di me...

Mi sedetti sul divano, circondata da popcorn, tentando in tutti i modi di non guardarli nemmeno, così da non cadere in tentazione e mangiarli.

Di solito Sam non ci metteva mai così tanto per noleggiare tre o quattro film, speravo solo che non si fosse lasciato tentare dal suo vecchio amico Dan e non si fosse fatto una canna con lui...

Anche se, non avendo io mantenuto la promessa di smettere di tagliarmi lui avrebbe potuto sfruttare l’occasione per non mantenere a sua volta la promessa di smettere di fumare.

Sperai vivamente che così non fosse e, dando retta alla vocina preoccupata nella mia testa, decisi di andargli incontro.

Presi le chiavi di casa, indossai una semplice felpa leggera e degli shorts che mi arrivavano appena sotto il sedere, ma che coprivano perfettamente la cellulite.

Scesi le dieci rampe di scale, inveendo contro l’ascensore che, immancabilmente, era guasto e, una volta in strada, girai verso sinistra, dirigendomi alla videoteca più vicina, dove andavamo di solito a noleggiare film.

Arrivata alla fine del primo isolato (prima di arrivare a destinazione ne mancavano ancora due) mi bloccai, notando davanti a me le luci lampeggianti della polizia e di un paio di ambulanze.

Era normale nel mio quartiere assistere a rapine o suicidi, quindi non mi preoccupai esageratamente mentre mi avvicinavo alla banca ad angolo, chiedendomi se fossero riusciti a prendere il ladro o se lo fossero lasciato scappare.

Alcune persone erano raggruppate a semicerchio intorno all’edificio e mi avvicinai ad esse.

Alcune piangevano, altre gemevano sconvolte, io mi limitai ad osservare due uomini in divisa che bloccavano contro la loro volante un uomo con un passamontagna in fronte. Da dove mi trovavo vidi il viso del ladro, riconoscendo in quei lineamenti spigolosi un vecchio amico di bevute e di canne dei miei genitori.

Scossi la testa, sconsolata di vedere certe scene e, guardando il punto che stava indicando coll’indice una signora, vidi un altro uomo che non conoscevo venire arrestato da altri due agenti.

Gli infermieri brulicavano intorno ad una donna a terra a pochi passi da me, quella donna assomigliava incredibilmente alla madre di una mia compagna di classe, ma sperai con tutto il cuore che non fosse lei. Altri infermieri invece mi coprivano interamente la vista di una seconda persona a terra.

«Quanto orrore, quanto orrore», continuava a ripetere una nonnina vicino a me,  che riconobbi come l’anziana signora che viveva nell’appartamento sotto il mio.

Annuii alle sue parole, anch’io colpita da tanta violenza gratuita.

«Era così giovane, gli hanno sparato solo perché ha scansato  quell’altro signore... povero ragazzo...», disse la nonnina, posandosi entrambe le mani sul cuore.

A quelle parole mi allarmai: e se il ferito fosse stato mio fratello? O Sam?

Se Peter fosse morto come avrei fatto io ad andare avanti senza un lavoro fisso?

Afferrai la spalla dell’anziana signora, forse con fin troppa forza, facendola voltare verso di me.

Potei così constatare che stava piangendo.

«Cos’è successo?», le chiesi, sperando che mi dicesse che quella persona a terra non era Peter.

«Una rapina in banca, cara», disse, poi i suoi occhi si allargarono ulteriormente, facendomi preoccupare: «Ma tu sei la sorella di Peter».

Annuii: «È Peter?», chiesi, indicando la persona coperta dalla mia visuale dagli infermieri.

«No, cara».

Tirai un sospiro di sollievo e il peso opprimente all’altezza del petto scomparve all’istante.

«È quel bravo ragazzo... com’è che si chiama già...?»

Non la stavo più neanche ascoltando, ormai rassicurata di avere ancora in vita il mio fratellone che creava nel bagno delle vere e proprie camere a gas.

«È il fratello di quella cara ragazza che mi aiuta sempre con la spesa, Fiona si chiama... sì, lei è Fiona mentre lui... cavolo, ho il nome sulla punta della lingua, ma...»

«Samuel», sussurrai, guardando con occhi allucinati gli infermieri che si spostavano, mostrando il corpo a terra del mio migliore amico.

«Sì, esatto!, Proprio lui... lo conosci?»

Ignorai nuovamente la signora e corsi verso il mio Sam che, semi cosciente aveva il volto contratto in una smorfia di dolore.

«Samuel!», urlai, correndo verso di lui, inginocchiandomi al suo fianco.

Presi il suo viso tra le mani, ignorando il sudore che gli imperlava la fronte gliela baciai, mentre gli scostavo i capelli dal volto.

«Sam? Sam?», chiamai, ignorando le domande degl’infermieri che mi stavano intorno ammucchiati o le grida della polizia che incitavano tutti a star lontani da quel luogo.

«Tori», la sua voce era troppo fioca, ma riuscii a leggere il labiale e sorrisi: «Sì, sono io».

«Non piangere» sussurrò, mentre continue smorfie di dolore gli contraevano il viso.

Piangere? Stavo piangendo? Nemmeno me ne ero resa conto.

Gli infermieri mi dicevano di allontanarmi, ma io non li ascoltai e lo baciai di nuovo, questa volta sulla bocca, piano.

«Non mi lasciare», gli dissi e lui mi sorrise.

Avrei preferito non sentire ciò che mi disse, soprattutto perché sapevo che quelle parole non avrebbero cambiato nulla, eppure lui, prima di chiudere gli occhi tra le mie braccia sussurrò:

«Ti amo».

Gli infermieri mi dissero che era solo svenuto e che l’avrebbero portato subito all’ospedale.

«Lei è parente?», mi chiesero.

Scossi la testa e, quelli di loro non impegnati nel trasportare i due feriti all’interno delle ambulanze, mi guardarono per poco, prima di scrutarsi tra loro e poi, quello più anziano disse: «La facciamo salire lo stesso, potrebbe svenire da un momento all’altro».

Il viaggio in ambulanza lo passai continuamente girata verso la rete che divideva me e Sam, osservando i tre infermieri intorno a lui; uno si occupava di fargli battere il cuore e della sua respirazione, il secondo fissava un laccio emostatico intorno alla gamba ferita e l’ultimo provava a fermare l’emorragia che aveva all’altezza della spalla sinistra.

Tutto quel sangue  era impressionante, tanto che rischiai di vomitare un paio di volte, mentre l’uomo accanto a me guidava come un pazzo, come se ne valesse della sua stessa vita.

Una volta all’ospedale persi di vista Sam, che venne portato con urgenza in sala operatoria, mentre io dovetti rimanere in sala d’attesa.

Non avevo il cellulare con me, ma un’infermiera mi portò quello di Sam, col quale chiamai Fiona, dicendole di venire subito all’ospedale; chiamai anche mio fratello, ma non rispose, così gli lasciai un messaggio in segreteria telefonica.

Ogni pochi secondi mi ritrovavo a fissare l’orologio che avevo al polso e, solo dopo un’ora mi decisi a prendere una rivista e leggerla, nel vano tentativo di distrarre me stessa dalla preoccupazione.

Avevo un nodo alla gola, come se fossi sul punto di piangere, ma le lacrime non uscivano e tutto ciò che riuscivo a fare era singhiozzare.

Donne e uomini intorno a me mi fissavano ad ogni sussulto delle spalle e mi rendevano ancora più nervosa.

Ogni volta che arrivavano dei dottori o infermieri mi alzavo per chiedere notizie di Sam, loro mi fissavano, mi chiedevano se fossi parente e alla mia risposta negativa mi liquidavano dicendo che potevano parlarne solo con dei parenti.

Io intanto diventavo sempre più impaziente e preoccupata, soprattutto quando vidi arrivare una mia compagna di scuola e capii che quella che avevo visto a terra semi cosciente era proprio sua madre.

Fiona  intanto non arrivava, ricevetti un messaggio sul cellulare di Sam, nel quale lei mi avvertiva di aver trovato problemi di traffico.

Mezz’ora dopo, con ben un’ora e quarantacinque minuti di ritardo da quando avevano portato Samuel in sala operatoria, Fiona arrivò.

Con una calma che da lei proprio non mi aspettavo, si avvicinò ad una delle tante infermiere e chiese notizie di Samuel.

«È una parente?», le chiese la donna, con voce arrogante.

«Sono la sorella».

Le due si allontanarono e rimasi nuovamente sola.

Mi risedetti e, sbirciai poco distante la mia compagna di classe, Emily, che, tra le lacrime, abbracciava un uomo che dedussi essere suo padre.

Quando una dottoressa venne a dire loro come stava la donna sentii tutto, e l’orrore mi rese come una statua di marmo per qualche secondo, insensibile al dolore.

«Mi dispiace, ma sua moglie aveva una commozione celebrale e ha perso molto sangue, abbiamo fatto il possibile, ma ormai era troppo tardi».

Emily  pianse ancora più forte e i miei singhiozzi privi di lacrime, che ero riuscita a far cessare poco prima, tornarono a scuotermi.

Quando tornò Fiona, mi disse che stavano facendo il possibile e che ancora non si sapeva nulla di preciso.

Rimanemmo a lungo sedute, una vicino all’altra, in attesa di qualche altra notizia.

La mia fronte era imperlata di sudore freddo e, per quanto ci provassi, non riuscivo a non stringere forte, tra le dita, il cellulare di Samuel.

“Combatti, Sam, combatti”, ripetei per qualche minuto, prima di iniziare a pregare.

Non ero mai stata una persona religiosa, ma ero pronta ad andare in chiesa tutte le domeniche se fosse servito a salvare il mio migliore amico.

“Ti prego, non me lo portare via, non lui. Come farei a sopravvivere senza il mio Sam? Gesù, ti prego, non lui...”

Continuai a singhiozzare senza lacrime per qualche secondo poi, sentii con fin troppa chiarezza una sensazione di torpore in tutto il corpo e dentro, da qualche parte nella mia anima, capii che lui non c’era più.

Una lacrima, bollente rispetto al freddo della mia pelle pallida, mi scese dall’occhio sinistro fino a fermarsi ed asciugarsi sulla guancia.

Quando, pochi secondi dopo, un dottore si avvicinò con un volto stravolto e un’espressione compassionevole mi resi conto che non c’erano davvero più speranze.

Non sentii ciò che disse, non provai nemmeno ad ascoltarlo, mi bastò sentire Fiona piangere forte accanto a me per capire che non potevo restare, se no sarei impazzita.

Dissi a Fiona che andavo a prendere una boccata d’aria, che non riuscivo a stare chiusa in quella stanza, ma in realtà me ne tornai a casa in autobus, ignorando tutto e tutti, persa in un mondo diverso; un mondo dove il mio migliore amico non c’era più.

Arrivata al mio palazzo salii, uno dopo l’altro, tutti i gradini, fino al pianerottolo che ospitava il mio appartamento e quello di Fiona.

Affondai la mano nella tasca dei pantaloni, afferrando le chiavi e pescai quella che apriva la porta alla mia sinistra, quella della casa di Sam.

Entrai nell’appartamento come un automa, il corpo totalmente intorpidito e le ginocchia che mi cedevano ad ogni passo.

La camera di Samuel era proprio uguale a come me la ricordavo, interamente blu, con mobili chiari e un poster dei My Chemical Romance appeso alla parete.

Mi inginocchiai accanto al letto, affondando le ginocchia nel tappeto peloso che lui amava tanto, per poter poggiare il capo contro le coperte fredde che profumavano di lui.

Solo in quel momento riuscii a riversare tutto il mio dolore nelle calde lacrime che mi scorrevano in viso; singhiozzavo, gemevo, mordevo e scuotevo ripetutamente la testa.

“Non è vero, non è vero”, pensavo, sfregando il viso contro le coperte: “È solo un incubo, solo un incubo... ora mi sveglierò e Sam sarà lì con me...”

Aprii gli occhi, gonfi di lacrime, ma la realtà non cambiò affatto.

“Me l’avevi promesso Sam: avevi detto che non te ne saresti andato, invece l’hai fatto...”

Le ginocchia mi dolevano,così mi alzai, le gambe continuavano a cedermi, ma ignorai la mia debolezza e cominciai a cercare tra i cassetti di Samuel.

Stavo cercando il suo album fotografico, quello pieno di foto mie e sue, quando tra le mani mi capitò una lettera indirizzata a me.

La sollevai, rigirandomela tra le dita, chiedendomi cosa potesse contenere.

Tirai su col naso e mi asciugai le lacrime con la manica della felpa che indossavo, prima di strappare la busta, trovando al suo interno un foglio di carta color lilla e la scrittura fitta di Samuel che la imbrattava d’inchiostro.

 

Cara Victoria,

so già che non avrò mai il coraggio di consegnarti questa lettera; è per questo che la conserverò in un cassetto, così da avere la vaga speranza che un giorno o l’altro tu la trovi e la legga.

Mi è venuto in mente di dirti la verità già da un po’  di tempo, ma non trovavo mai le parole giuste per dirti quanto io tenga a te, o la delicatezza necessaria per spiegarti che non potremo mai stare insieme, non come vorremmo entrambi almeno.

A volte sogno ciò che non potrò mai avere: una bella casa a due piani, te come mia moglie e un paio di bambini che girano per casa.

Lo sogni anche tu, amore mio? Un futuro migliore, con più luce...

Peccato che sia solo un sogno e sognare o sperare non basta per cancellare la verità.

Continuo a girarci intorno con le parole, ma il fatto è che mia madre, come ben sai, era drogata e alcolizzata, e mi ha trasmesso fin dalla nascita il virus dell’HIV. Ho scoperto di essere siero positivo all’età di dodici anni e, per molto tempo ho pensato di essere un mostro; tutte le volte che pensavo di non dover più toccare nessuno, così da non rischiare di contagiare qualcun altro, arrivavi tu che mi chiedevi di giocare, di andare a vedere un film o di passare semplicemente del tempo insieme.

Tu sei stata l’unica luce della mia vita, c’eri sempre e sempre mi hai aiutato, come io ho sempre cercato di aiutare te.

All’inizio, quando ci siamo baciati in secondo superiore pensavo di averti passato il virus, ero corso da mia sorella con le lacrime agli occhi dicendole cosa era successo e che temevo di averti contagiata.

Quando mi ha rassicurato che attraverso la saliva non c’è contagio  ci sono rimasto male.

L’avessi saputo prima ti avrei baciato  come ho sempre sognato di fare: tenendoti stretta tra le mie braccia ed esplorando quella tua bella bocca carnosa come se fosse  l’ultimo bacio della mia vita.

So che tu pensi di non esserlo, ma te lo voglio ripetere ancora una volta: tu sei bella. Bella come la rugiada la mattina, tu sei delicata e fredda proprio come la rugiada e sono fiero di essere l’unico in grado di scaldarti, di essere il tuo sole.

Vorrei avere più spazio in questa lettera,vorrei scriverne un po’ ogni giorno per poi consegnarti un volume intero che parla di quanto io ti ami e di quanto vorrei poterti dare ciò che meriti.

Ma non posso, e non perché non ti voglia o non abbia intenzione di combattere.

Non posso perché sono malato e non voglio farti soffrire.

Non so se ti ricordi, ma un giorno, quando eravamo più piccoli, mi chiedesti perché la vita ci porta via le persone a cui vogliamo bene, ti risposi che non lo sapevo; ora invece voglio dirti quello che avrei dovuto dirti quella volta: la vita è una roulette russa, Tori, non è né colpa sua né colpa nostra se, premendo il grilletto, moriamo. Non devi pensare alle persone perse, amore mio, pensa a quelle che hai e al fatto che ti vogliono bene.

Ora smetto di scrivere, tra poco arriverai con la torta che hai preparato per il mio compleanno e voglio godermi la tua compagnia il più a lungo possibile.

Ti amo, Tori.

Sam.

 

Mi sedetti sul letto, le gambe alla fine avevano ceduto del tutto e rimasi a fissare la parete davanti a me.

Era malato e non mi aveva mai detto nulla...

Era di questo che voleva parlarmi quando sarebbe tornato, dopo aver preso i dvd?

Strinsi quella lettera al petto e lasciai che le lacrime continuassero a scivolarmi lungo il viso.

Mi aveva scritto che dovevo pensare alle persone che mi volevano bene quando mi sentivo giù, ma per quanto ci provassi non ci riuscivo.

Non mi ci volle molto prima di finire tutte le lacrime. A quel punto rimasi ferma a contemplare la parete davanti a me, fino a quando una fredda ed indifferente calma si impadronì di me.

A quel punto mi alzai, piano e, con la lettera in mano, andai a casa mia dove, con altrettanta calma aprii l’armadietto dei medicinali.

Non pensavo a nulla, la mia mente era un vorticare confuso di pensieri privi d’importanza.

M’interessava solo trovare i sonniferi che prendevo un tempo per addormentarmi e chiudermi in camera mia.

Trovato ciò che cercavo mi fermai in bagno per prendere la mia lametta e poi, con un nodo all’altezza dello stomaco entrai in camera mia.

Con Sam se n’era andata la mia unica speranza di essere felice e non avevo intenzione di vivere chissà quanti anni di tristezza prima di morire.

Preferivo il suicidio.

Posai la lettera sul comodino di camera mia e la fissai per qualche istante poi le diedi un bacio proprio dove Sam aveva firmato.

«Anche io ti amo».

Presi un pezzo di carta e scrissi una breve e coincisa lettera a mio fratello:

 

Peter,

mi dispiace per tutto il dolore che ti sto causando, ma non ce la posso fare a continuare. La mia vita non era destinata a vedere la luce, ma spero per te di riuscire a raggiungere tutti i tuoi obiettivi.

Non piangere.

Ti voglio bene, Peter.

Victoria

 

Presi alcuni respiri profondi ed aprii la boccetta dei medicinali.

Mandai giù sette pastiglie di sonnifero, mi sedetti e spinsi la punta della  lametta contro i polsi, questa volta non perpendicolarmente alle vene, ma parallelamente.

Il sangue sgorgava, ma non me ne rendevo nemmeno conto.

Sentivo soltanto le orecchie tappate, gli occhi gonfi per le lacrime e una triste e desolante calma che mi permise di sdraiarmi e di chiudere gli occhi.

Sperai che Peter, trovando il biglietto, non mi odiasse più di quanto io odiassi me stessa.

Il mio ultimo pensiero era rivolto a Sam e al bacio che ci eravamo scambiati, se l’avessi incontrato nell’aldilà gli avrei chiesto di darmene un altro e di non lasciarmi mai più.

Poi il buio mi avvolse.

 

 

Fine

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: LazySoul