Anime & Manga > Capitan Harlock
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Autore: Targaryen    02/08/2014    9 recensioni
Harlock lascia il timone, si volta e abbandona il ponte, mentre l’equipaggio scarica tensione e paura attraverso abbracci e grida di gioia. I suoi uomini credono che ci sia una ragione per festeggiare, ma lui avverte su di sé un nuovo peso e pare quasi che sia lui, e non la sua Arcadia, a trainare le cento bombe a vibrazione che sanciranno la fine e l’inizio di tutto. E la sua definitiva dannazione.
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harlock, Miime
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il Canto delle Stelle'
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Un passo nel vuoto
 

Durante la guerra di ComeHome l’intera galassia brulicava di armamenti di ogni genere e ciascuna fazione possedeva depositi pesantemente difesi da cui attingere. Quando le ostilità cessarono e l’avvento della Gaia Sanction pose la parola fine agli scontri che stavano falcidiando il genere umano, gran parte di essi vennero smantellati e il loro contenuto requisito e riutilizzato. E, talvolta, rubato.
Ma gli armamenti dotati di maggiore potenziale distruttivo non sostarono mai all’interno di quei depositi e non furono le fazioni in lotta a costruirli, bensì la stessa Gaia Sanction. Le bombe a vibrazione dimensionale, ideate dal personale scientifico del nuovo ordine costituito, erano niente rispetto a congegni quali il Kaleido Star System o il Jovian Blaster, eppure per qualcuno nessun armamento aveva più valore delle 100 bombe sigillate nella sede della Gaia Sanction. E impadronirsene divenne il suo principale obbiettivo.

 
***
 

Nero intorno a lui, un nero disumano che lacera il suo sguardo e che divora lo spazio in cui è sospeso. Il vuoto lo circonda e da ogni direzione lo attira verso abissi senza fondo. Ogni cellula del suo corpo si ribella di fronte a questa visione innaturale e il senso dell’orientamento lo abbandona. 
Il silenzio è totale. Respira, ma non avverte nulla. Nessun rumore e nessuna sensazione di movimento del torace. I polmoni si espandono, consumano aria che non percepisce e la rilasciano. E’ immobile, e quando cerca di abbassare le palpebre si accorge di aver dimenticato come fare. Ha il controllo dei soli pensieri e il terrore lo assale.
Inizia sempre così. Lo stordimento e poi la paura, perché sa cosa verrà dopo e una parte di lui ancora crede che, dando voce alla disperazione, potrà evitare di rivivere quello strazio senza fine.
Ma non è così, e anche questa volta il pianeta  brucia sotto di lui, i mari svaniscono inghiottiti dalla terra e colonne di fuoco freddo scendono dal cielo dando inizio all’apocalisse.
Harlock lotta furiosamente contro la mano invisibile che gli impedisce ogni azione, ma solo dopo un tempo che gli pare interminabile riesce a muovere le labbra. Da lontane distanze avverte sé stesso gridare e si sveglia.
Come la notte prima, e come quella che verrà.
 
***


L’Arcadia è un’ombra scura che si staglia nella luminescenza polverosa del disco galattico. Una vicina stella risplende nascosta dal castello di poppa, e la sua luce calda crea contorni definiti dando forma a ciò che potrebbe confondersi con le tante stranezze di quel mare senza confini.
Harlock siede sul suo seggio, ombra tra le ombre, e aspetta. Dal suo volto non traspare alcuna emozione e la sua immobilità è tale da renderlo quasi parte del silenzio che lo circonda. Alle sue spalle il cuore verde della nave pulsa, ritagliandosi il suo bozzolo di luce in quell’oscurità quasi palpabile.
Anche i suoi uomini attendono. L’ansia scivola sulla loro pelle in rivoli di sudore freddo, le mani strette intorno a tutto ciò che può fornire un appiglio e la loro mente protesa verso l’attimo che seguirà.
Alcuni di loro sono lì solo da pochi mesi, ma hanno già imparato a conoscere almeno in parte colui che hanno deciso liberamente di seguire. Gli stessi ideali ne hanno determinato le scelte e nel loro cuore ha messo radici la stessa voglia di cambiare un mondo che si è addormentato. Per questo sono reietti come lui, loro credono, e ripartire da zero è il loro più grande desiderio. Ripartire da zero e forgiare un futuro migliore.
Il cicalio di una comunicazione in arrivo pone fine a quello stato bizzarro di calma autoimposta e raggiunge i membri dell’equipaggio sotto forma di scariche di adrenalina, costringendoli a respirare di nuovo. Kei preme un pulsante ed ascolta, quindi scandisce un secco “ricevuto” nel microfono della sua consolle e si volge.
“Yattaran è pronto, capitano.”
Questi non dice nulla, ma si alza e copre la breve distanza che lo separa dal timone attraverso pochi, misurati passi. Il suo sguardo accarezza il legno della grande ruota e le mani la afferrano, salde. Tori-san non è lì ad accompagnarlo con il suo gracchiare disordinato, ma lui non si sorprende e costringe sé stesso a soffocare remore e dubbi in quel baratro di disperazione che è divenuta la sua vita. Non c’è altra via, ripete a sé stesso, e quella mezza verità che ha condiviso con l’equipaggio non può che essere l’ennesima goccia d’acqua che finirà inghiottita dall’oceano della sua colpa. O almeno è questo ciò di cui cerca senza sosta di convincersi.
“In- Skip!”, ordina.
Mani diafane prendono ad intrecciare aria e luce, plasmando comandi che solo colei che le muove può vedere. Un bagliore attraversa le tenebre per un istante e percorre veloce gli enormi tiranti. Colossali ingranaggi circolari cominciano a ruotare con crescente rapidità. Qualcosa, polvere che non è polvere, offusca le stelle e la nave inizia a muoversi senza tuttavia trasmettere alcuna sensazione di movimento. Poi, all’improvviso, si ferma, mentre lo spazio in cui è sospesa assume i connotati bizzarri di nubi tempestose in continua formazione e dissoluzione, in una vertiginosa assenza di realtà.
Gli uomini sussultano, ma non vacillano. Nonostante le tante volte in cui hanno sperimentato gli effetti provocati dal motore a materia oscura, nessuno di loro è ancora riuscito a superare il lieve senso di apprensione che li coglie ogni qualvolta si avventurano in quella terra di nessuno, dove anche spazio e tempo diventano parole prive di significato.
Harlock, invece, non teme ciò che sta fuori, ma ciò che si cela dentro di lui e che i suoi compagni non conoscono. Solo una persona in tutto l’universo lo conosce, solo una.
In un fruscio di veli che soltanto l’abitudine gli permette di percepire, avverte Meeme scivolare al suo fianco e si accorge, in un misto di sorpresa e di gratitudine, di come abbia fatto un passo in più del solito e di come abbia ridotto di un soffio la distanza che li separa.
Sente improvviso il desiderio di volgersi e di dirle che andrà tutto bene, ma sarebbe una menzogna e non lo fa.
Il tempo scorre lento. Paiono giorni, mesi, anni, ma in realtà sono solo minuti dilatati dall’apprensione. Ad un tratto l’Arcadia riprende ad avanzare e qualcosa intorno a loro cambia. Harlock serra le labbra. Sa che la prua sta emergendo dalla nube di materia oscura e che gli allarmi sono già scattati. E sa esattamente cosa deve fare.
Con tutta la forza di cui è capace ruota il timone nella giusta direzione, e quasi rischia di perdere l’equilibrio a causa dell’azione combinata del trascinamento del grande volano e dell’inclinazione che la nave assume in seguito all’impatto. Fuoco e rottami saturano il campo visivo e la corazzata stride mentre si assesta in quella nuova, singolare posizione di equilibrio.
Dal ponte inferiore qualcuno avvisa che la squadra di Yattaran attende il suo segnale.
“Fuori!”, ordina Harlock, la voce calma e decisa.
Il cielo sopra l’installazione che penetra nel suolo di Marte è nero come pece e nulla riesce ad attraversare la densa coltre. La sabbia rossa sollevata dall’urto e il metallo scioltosi per il calore e poi ricondensatosi in gocce microscopiche sono intrisi di materia oscura, un aerosol che disturba le comunicazioni e che rappresenta la loro più efficace protezione nel cuore del dominio delle Gaia Sanction.
I sistemi di difesa automatici sparano senza sosta e sottili fasci di luce si fanno strada tra la polvere, impattando sulle fiancate dell’Arcadia senza tuttavia produrre danni significativi. Le postazioni non sono progettate per affrontare un avversario simile materializzatosi dal nulla, e le uniche forze di difesa che potrebbero creare loro qualche problema sono ancora lontane. Arriveranno, ma Harlock ha scommesso con il destino che non lo faranno in tempo.
La nave è ferma, talmente vicina alla superficie del pianeta da sembrare appoggiata su di esso, e il teschio di prua è svanito, assorbito dal corpo dell’alta torre su cui ha impattato.
I minuti corrono ora veloci e la tensione traspare da ogni gesto e da ogni parola. Harlock attende, silenzioso ed apparentemente estraneo alla concitazione del momento.
I messaggi scambiati tra il ponte di comando e la squadra di incursione si alternano al flusso di informazioni trasmesse da entrambi i fronti. Yattaran ha incontrato resistenza, ma non troppa. L’effetto sorpresa ha sortito il risultato sperato e i suoi uomini sono penetrati nel deposito entro i tempi prestabiliti. I microscopici generatori di campo sono stati piazzati già per metà. Quattro uomini, venticinque generatori per ciascuno e venticinque testate su cui posizionarli.
Qualcuno segnala vascelli in avvicinamento rapido e i cannoni della nave ruotano puntando il bersaglio. Non possono sparare al complesso per la presenza dei compagni e per non saltare per aria insieme agli ordigni presenti, ma possono far fuoco su chi si avvicina mentre i loro avversari devono usare cautela. Un colpo sbagliato e insieme all’Arcadia finisce in cenere mezzo pianeta.
Harlock quasi sorride quando l’artiglieria entra in azione. Non vede nulla oltre la coltre di fumo, ma non serve. I sistemi di rilevamento sostituiscono alla perfezione il suo occhio e tutti in plancia sanno che ogni bordata è andata a segno.
Non c’è tempo per una seconda raffica. La voce di Yattaran comunica la fine dell’applicazione dei dispositivi e il capitano si volge verso Meeme. Non occorrono ordini. Lei sa esattamente cosa fare.
In silenzio raggiunge la sua postazione e sfiora una serie di pulsanti ovali seguendo un ordine preciso. Essi si illuminano al contatto e l’oscurità si arrende dinanzi alla loro verde luminescenza.
Yattaran segnala l’avvenuto rientro. Nessuna perdita e un colpo che ha ferito di striscio un compagno. Fortuna o bravura, ad Harlock non importa. Sono tutti salvi, e questo gli basta per non aggiungere un altro granello di sabbia al deserto del suo rimorso.
Senza esitare dà l’ordine e i motori ruggiscono, estraendo la nave dal metallo e facendo tornare alla luce la prua e le sue orbite di fiamma.
Impavida ed apparentemente dissennata, l’Arcadia si dirige contro la flotta in avvicinamento, mentre alle sue spalle emerge dal nulla un traino costituito da due cerchi concentrici e, su di essi, cento nicchie di contenimento che non contengono ancora nulla.
Harlock chiude l’occhio per un istante. Ha già deciso, ma non riesce ancora a mettere completamente a tacere quella sensazione di tradimento nei confronti del genere umano e di Tochiro.
“Averle non significa doverle usare”, gli aveva detto qualche giorno prima Meeme, ma Harlock sa che in fondo neppure lei crede nei miracoli.
Tochiro no, lui ancora spera.
Ma Tochiro non ha una colpa che lo schiaccia e una morte che non risponde alle sue suppliche, e non deve rimediare ad alcun crimine. E non è l’ultimo di una specie ormai estinta a cui solo una nuova partenza può ridare speranza. Harlock si domanda per l’ennesima volta se tutto ciò valga il prezzo che dovranno pagare e di nuovo non trova risposta. Forse Meeme conosce la risposta, ma non rivela altro se non la sua scelta, e a lui deve bastare. Per ora.
“Richiamale”, ordina, la voce poco più di un sussurro.
Meeme abbassa le palpebre per un istante, come se anche lei dovesse mettere a tacere qualcosa, quindi muove le dita e completa la sequenza.
Una luce intermittente comincia a lampeggiare frenetica alla destra di Kei, per poi fissarsi sul rosso.
Le nicchie, ora, sono piene.
L’Arcadia continua ad avanzare lungo la sua rotta di collisione, imperterrita, e quando i primi colpi sparati dalle navi nemiche sono sul punto di raggiungerla il traino si nasconde tra le dimensioni insieme al suo prezioso carico, dileguandosi, mentre la nave svanisce inghiottita dalla polvere da cui era emersa.
Harlock lascia il timone, si volta e abbandona il ponte, mentre l’equipaggio scarica tensione e paura attraverso abbracci e grida di gioia. I suoi uomini credono che ci sia una ragione per festeggiare, ma lui avverte su di sé un nuovo peso e pare quasi che sia lui, e non la sua Arcadia, a trainare le cento bombe a vibrazione che sanciranno la fine e l’inizio di tutto. E la sua definitiva dannazione.
Meeme lo guarda svanire ma non lo segue, e si concede per una volta di non nascondere il dolore. In fondo nessuno di coloro che sono rimasti saprebbe riconoscerlo nel verde dei suoi occhi. Solo lui può farlo, ma lui ora deve affrontare Tochiro a modo suo.

 
***


Harlock è fermo sulla soglia, il capo chino e i capelli ribelli a nascondere il volto più di quanto sia suo solito.
“Amico mio …”, sussurra.
Nel silenzio avverte le innumerevoli luci del computer centrale volgersi verso di lui, eppure ad un osservatore esterno nulla parrebbe cambiato.
Un ronzio prende vita simultaneamente da ogni punto della stanza, emergendo dalla quiete apparente che lo circonda e tramutandosi in una modulazione metallica che assume quasi i connotati di un lungo monologo.
“Sì, lo siamo”, si sovrappone lui dopo un lungo istante, la voce bassa ma risoluta.
Il ronzio si interrompe e poi riprende con maggiore decisione, continua per qualche secondo e si spegne all’improvviso.
Harlock si volta in direzione del vasto corridoio con il chiaro intento di lasciare quel luogo. Sembra esitare in principio, quindi muove un passo e poi un altro e la sua voce si perde nel silenzio che lo avvolge.
“Non ha più importanza ormai …”
L'uomo la cui essenza abita la grande macchina osserva attraverso occhi che appartengono solo alla memoria di coloro che ricordano. Il nuovo flusso di pensiero illumina di rosso la sala e l’aria quasi vibra, ma Harlock non si ferma e la sua figura viene inghiottita dalle tenebre non appena la porta slitta di lato.
Ciò che rimane di Tochiro sa che l’amico ha udito, ma sa anche che non ha ascoltato. Da tanto tempo, ormai, non ascolta.
Come lei, ma per ragioni diverse.

 
***


In piedi dinanzi alle vetrate Meeme attende, lo sguardo catturato dallo spazio distorto dal motore che spinge l’Arcadia e la mano sollevata ad accarezzare il metallo dell’arpa senza tuttavia sentirlo.
Un fumo nero, denso, avvolge lo scafo e si contorce come fosse dotato di vita propria, mentre scariche di luce trasudano violente dalle fratture dello spazio – tempo.
Lei conosce ogni segreto della materia oscura che rimbalza da una dimensione all’altra, tramutando la nave in una fluttuazione di probabilità che cerca frenetica la sua meta. La loro destinazione è lontana e occorrerà tempo, perché maggiore è la distanza tra partenza ed arrivo e più numerose sono le variabili da prendere in considerazione. I calcoli sono più lunghi, le alternative molteplici, ma alla fine tutte convergeranno verso un’unica soluzione e lo spazio emergerà di nuovo da quella matassa confusa di numeri e vettori.
Le candele sono spente e l’alloggio è immerso in una semioscurità vinta solo a tratti dai bagliori rilasciati dalla falsa tempesta che li accompagna.
Alle sue spalle Harlock si libera del mantello con gesti automatici e lo abbandona ai suoi piedi. Corpetto e cinturoni lo seguono e incontrano il legno del pavimento con un tonfo sordo.
Si avvicina al lungo tavolo e riempie entrambi i calici posti su di esso. Meeme si volge, e lo osserva svuotare il primo tutto d’un fiato mentre le porge il secondo. In silenzio allunga la mano e avvolge le dita intorno al cristallo, ma lui non lascia la presa e non la guarda. La sua mente sembra distante, perduta in pensieri che paiono aggiungere alla maturità del suo volto una nuova manciata di anni.
“Harlock …”
Restano immobili in quella posa, quasi il fotogramma su cui si è arrestata la pellicola delle loro vite.
“Mi ha domandato se siamo sicuri di ciò che stiamo facendo”, sussurra lui.
“Cosa gli hai risposto?”
Harlock volge lo sguardo verso il bicchiere che stanno stringendo insieme. Un sorriso doloroso velato di ironia si dipinge sul suo volto.
“Ho mentito.”
“Non sei bravo a mentire”, sospira Meeme in maniera quasi umana.
“Non c'è altra via.”
Un lungo silenzio e la mano di lui che scivola liberando la presa.
Meeme fissa il liquido quasi nero che si confonde con le ombre. La sua voce è flebile e basterebbe un solo passo in più tra di loro per impedire ad Harlock di sentirla.
“Forse no”, dice.
Si ferma per un istante, quindi depone il calice senza toccarne il contenuto e raggiunge il ripiano posto ad un lato della sala. Su di esso vi è un piccolo becher pieno di terra scura, il cui vetro è stato ricomposto meticolosamente dopo essere andato in frantumi.
Meeme solleva con delicatezza la brocca posta a lato e versa un po’ di acqua sul terreno. Sa che Harlock le si è avvicinato e che è fermo alle sue spalle, lo sguardo catturato da quella preziosa reliquia e immagini di vita passata dinanzi ai suoi occhi.
“Perché continui a fare questo?”, chiede.
Lei sorride, in quel suo modo alieno che solo lui sa riconoscere.
“Perché noi non sappiamo nulla del futuro e ciò che riteniamo giusto oggi forse si rivelerà sbagliato domani. C’è ancora tempo.”
Lui scuote il capo, in un gesto che racchiude in sé rassegnazione e stanchezza.
“Tempo per cosa?”
La domanda non esige risposta. Meeme depone la brocca e si volta. La sua mano si solleva e le dita percorrono i contorni del volto che ha di fronte.
“Non servirà a nulla”, sussurra lui, ripetendo sul viso di lei quello stesso gesto.
Le loro fronti si avvicinano e si toccano, le palpebre si abbassano e il tempo si ferma.
Sul ripiano l’acqua raggiunge il fondo del vasetto e alcune gocce filtrano attraverso le superfici incollate, scivolando sul legno scuro come le lacrime che la Terra piange per ciò che è andato perduto. Colui che vive nel cuore metallico dell’Arcadia le segue per un istante attraverso i sensi della nave di cui da tempo fa parte. Piangerebbe anche lui se potesse, per la Terra e per l’amico che non è più in grado di ascoltarlo davvero, ma non può. Lo vede stretto a lei e ritira la sua coscienza, lasciandoli soli e sperando che un giorno entrambi possano capire. Un giorno, prima che sia troppo tardi, per l’Universo e per loro.

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Nota: Poiché non è plausibile che il traino con le bombe a vibrazione sia semplicemente mascherato mediante tecniche olografiche durante i combattimenti, in questo racconto ho ipotizzato che esso sia “fuori fase”, ossia che venga di solito mantenuto al di fuori del nostro continuum per essere poi richiamato quando occorre. Ho supposto inoltre che anche il motore a materia oscura funzioni secondo lo stesso principio e che l’Arcadia si sposti in una sorta di mondo adimensionale, dal quale l’universo appare come una sovrapposizione di infinite probabilità da dipanare per scegliere quella giusta e per riemergere nel luogo e nel tempo prestabiliti. Infine, per giustificare la presenza di Yattaran e di Kei al fianco di Harlock durante l'incursione, mi sono presa la libertà di collocare la "conclusione della guerra" citata da Ezra molti anni dopo la distruzione della Terra. La guerra di ComeHome, infatti, è dichiaratamente in corso quando la materia oscura ammanta il pianeta ed è altamente improbabile che termini con questo evento.


 
  
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