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Autore: SAranel    08/08/2014    5 recensioni
Sherlock non avrebbe mai immaginato di averne così tanto bisogno, prima di ritrovarsela, suo malgrado, tra le mani.
Eppure, era soltanto una fotografia.
"Ho trovato la tua foto in un libro.
Non un bel libro. Soltanto uno di quelli che sfili via dal mucchio per perdere tempo, quando la noia è troppa e il tempo non sembra voler passare. Ho sollevato la copertina, sfogliato qualche pagina ed eccoti qui, senza motivo di esserci. Un pesce fuor d’acqua.
La fotografia è a colori. Tenui, sbiaditi dal tempo. Consumati dal biancore ormai giallastro delle stesse pagine. E’ incastrata lungo il bordo, dove i fogli sono saldamente incollati insieme. Sembra quasi che sia qui da sempre. A un’occhiata più approfondita, si potrebbe tranquillamente affermare che sia parte del libro stesso.
Le parole scritte, stampate in caratteri obsoleti, sul bordo superiore del pezzo di carta, sembrano quasi profetiche:
- Raccontami la storia della tua affascinante vita, pivello.[...]"
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera, splendido fandom del mio cuore!
Ta-dah! Sono sana e salva, soltanto reduce dagli ultimi mesi di Uni, che hanno praticamente prosciugato il tempo e forza vitale necessari per la scrittura.
Durante questi sprazzi d’estate però mi sono messa d’impegno, portandomi addirittura il portatile in vacanza pur di sfruttare il tempo libero per scrivere!
Da due notti insonni e un diluvio pomeridiano, è venuta fuori questa breve storia, ispirata a una fotografia intravista su un sito. Spero davvero, con tutto il cuore, che vi piaccia, soprattutto perché priva di qualunque traccia di angst. Solo fluff! Fluff e tanto amore!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

 

Focus
*



Per Nat, perché il fluff promesso va mantenuto.
Meglio tardi che mai <3

 

 

«This is no book;      
Who touches this, touches a man; 
(Is it night? Are we here alone?)    
It is I you hold, and who holds you;          
I spring from the pages into your arms[…]»

-W.Whitman

 

 

Ho trovato la tua foto in un libro.
Non un bel libro. Soltanto uno di quelli che sfili via dal mucchio per perdere tempo, quando la noia è troppa e il tempo non sembra voler passare. Ho sollevato la copertina, sfogliato qualche pagina ed eccoti qui, senza motivo di esserci. Un pesce fuor d’acqua.
La fotografia è a colori. Tenui, sbiaditi dal tempo. Consumati dal biancore ormai giallastro delle stesse pagine. E’ incastrata lungo il bordo, dove i fogli sono saldamente incollati insieme. Sembra quasi che sia qui da sempre. A un’occhiata più approfondita, si potrebbe tranquillamente affermare che sia parte del libro stesso.
Le parole scritte, stampate in caratteri obsoleti, sul bordo superiore del pezzo di carta, sembrano quasi profetiche:
-  Raccontami la storia della tua affascinante vita, pivello.
Sono quasi una didascalia. E’ come se qualcuno avesse voluto apporre al libro qualcosa di proprio, personale, in barba all’autore e ai suoi desideri.
Non ti ho scelto subito. A dire il vero non ti avrei scelto affatto se solo non avessi riscontrato, tra gli scaffali della Biblioteca del Barts, una preoccupante penuria di testi a me congeniali. Ho dubitato un po’ all’inizio, tra te e Il Gabbiano Jonathan Livingston.
Non eri una granché valida alternativa; in realtà, eri  soltanto uno scaffale più in basso.
Molly mi ha lanciato uno strano sguardo, quando mi ha visto con il tuo libro tra le mani.
“Il Giovane Holden?” mi ha domandato, abbastanza scioccamente, visto il titolo in bella vista sulla copertina totalmente bianca.
Non le ho risposto. Sinceramente, non  saprei nemmeno dire se una domanda di cui già si conosce la risposta necessiti di un’ulteriore conferma. Non sono molto bravo in certe cose. Così, l’ho ignorata. Lei ha abbassato lo sguardo e ha proseguito lungo il corridoio, senza più accennare all’argomento.
Riguardo te, sarò franco.
Mi piaci.
Non in senso puramente estetico. Non sono a mio agio, e in verità nemmeno granché capace, nel giudicare l’altrui aspetto.
Non saprei dirti, quindi, esattamente in che senso tu sia di mio gradimento. Forse è la luce nei tuoi occhi. Probabilmente il modo in cui non guardi dritto in camera, come se ti avessero colto del tutto alla sprovvista.
Io odio le fotografie.
Quando ero bambino, mia madre ne scattava a bizzeffe. Io in braccio ai miei nonni. Io sull’altalena in giardino. Io in classe chino su un libro. Io in lacrime sul dorso di un pony.
Era solita raccoglierle tutte in grossi album dalle copertine in pizzo bianco. Quelle che però detestavo più di tutte, erano quelle scattate di nascosto.
Quelle rubate durante un momento di distrazione, chino su un quaderno, sul piatto della cena, mezzo addormentato sul divano del salotto. Erano le fotografie a cui non potevi sfuggire. I momenti immortalati su pellicola che ti avrebbero per sempre mostrato al mondo come un perfetto idiota.
Tu però non sembri affatto un idiota. Piuttosto, sembri felice. Ecco. E’ questo, che mi piace.
Non so di che colore siano, i tuoi occhi. Forse azzurri. Magari cerulei, o verde scuro. La patina del tempo è inclemente, su di te: non mi permette di capire di che sfumatura siano in realtà. Le tue labbra, invece, sono sottili e rosse.
Non vedo molto altro di te. Hai uno strano taglio di capelli, da adolescente, ma probabilmente lo sei, in questa immagine. Non avrai più di sedici anni. La foto però è vecchia, e tu sei cresciuto. Avrai la mia età, oggi. Dai vestiti che indossi, dal maglioncino troppo largo e dalla puntata di Coronation Street che il televisore dietro di te sta trasmettendo, hai vent’anni di più, adesso. Non chiedermi come abbia fatto a riconoscerla.
Non so se sei vivo. Magari, sei morto da anni. Forse non sei nemmeno mai esistito. Forse la fiala di coca di ieri sera non era granché buona, e oggi sogno ad occhi aperti. Vedo senza avere realmente qualcosa da guardare.
Non so cosa eri e cosa sei diventato. Non ho idea se tu fossi un ragazzo svogliato, studioso, amante dei libri o soltanto del calcio, del rugby, o di qualunque sport trasmettano al pub il sabato sera.
Nella storia che ho creato per te, il calcio non ti piace. Giochi a rugby, però, nonostante la mia conoscenza di esso si limiti al nome e a qualche nozione appresa contro la mia volontà durante un caso.
Il tuo cibo preferito è la torta di mele. L’ho scelta perché è anche il mio, e voglio avere qualcosa in comune, con te, anche se soltanto facezie come questa. Comunque, non apprezzo poi così tanto la cucina da avere chissà quante opzioni in mente, tra cui scegliere. Così, ho imboccato la via più semplice.
Ti piacciono i libri. Ne leggi da quand’eri bambino e continui a farlo. In casa tua hai una libreria piena zeppa di volumi di ogni genere. Ti piacevano le storie di Pirati, da piccolo. A tutti i bambini piacciono. Piacevano anche a me, quando credevo che di persone così crudeli non ne esistessero poi tante, al mondo. Mi piaceva l’eccezione. Hanno smesso di piacermi quando sono cresciuto.
Il tuo libro preferito l’ho scelto adesso. Guarda caso, è Il Giovane Holden. Ti prego, però, di non parlarne mai con me.
La matematica però non è il tuo forte. I numeri ti confondono, e ti fanno pensare a tua madre, che l’ha insegnata per trent’anni e ancora non capisce come tu abbia potuto non ereditare la sua predisposizione. E’ una cosa che ti è sempre pesata da ragazzo, ma non t’importa più molto, adesso.
Anche mia madre insegnava Matematica. Scriveva anche libri ma non ne ho mai letto uno. Ogni tanto potremmo parlare di quest’altro dettaglio comune delle nostre esistenze, ma non mi va di riaprire una vecchia ferita. Quindi, sto zitto.
Mi piaci perché da grande, nella mia storia, hai deciso di studiare medicina. Mi piacciono i medici. Sono utili al mio lavoro e capiscono quello che dico. Parlare con loro non è affatto come farlo con Lestrade, probabilmente convinto che uno Stafilococco sia una sorta di bizzarro frutto tropicale.
Tu non hai deciso di farlo per cambiare il mondo. Più che altro, hai deciso di farlo affinché il mondo cambiasse te. Per questo ti sei arruolato. Per capire cosa realmente succedesse fuori dalla tua gabbia dorata. Per scoprire un mondo totalmente estraneo alle ginocchia sbucciate, ai prelievi di sangue e ai cuori auscultati.
Ti ammiro, anche se probabilmente non te lo dirò mai. I soldati non mi sono mai piaciuti, perché credo che nulla, men che meno la propria Nazione, valga un rischio così grande. A loro, in fondo, basta una cerimonia solenne e una medaglia per lavarsene le mani, già pronti a tirar fuori dal cilindro il prossimo inetto pronto a immolarsi per la patria.
Tu mi piaci, e lo ripeto, ma non illuderti di sentirlo ancora. Ho una certa reputazione, io, da mantenere più integra che posso.
Hai il viso di un futuro dottore. Rassicurante. Di quelli che guardi e dici: sono in mani sicure. Io non ho mai avuto un dottore così. I miei erano tutti spaventosi, con dita tozze e movimenti sgraziati. Il dottore più rassicurante che abbia mai conosciuto è Molly, ma non potrebbe importare di meno, ai pazienti che si è scelta.
Questa è una di quelle cose che non dirò mai ad alta voce. Tantomeno a lei.
Sei mio amico. Questo non lo avevo ancora detto, forse perché è una frase che non dico molto spesso. In realtà, credo che quelli che considero miei amici non sappiano nemmeno di esserlo.
Pensandoci, non riesco a ricordare esattamente chi siano, ma te lo dirò, quando mi verranno in mente.
Comunque tu lo sei. Almeno, rispondi a tutti i requisiti che dovrebbe possedere un amico, secondo i miei canoni. Sei qualcuno che mi accetta. Qualcuno a cui vado bene anche così. Anche se sbuffi, qualche volta.
Tu sei bravo, a farlo. Non sbuffare. Accettarmi.
C’è un’altra frase qui sotto, perché sto ancora sfogliando il libro, nonostante sia tutt’altro che piacevole. Piove ancora, fuori, e non ho voglia di uscire.
-La gente non si accorge mai di nulla.
E’ vero. Almeno in questo sono d’accordo.
Nessuno ci ha mai neppure provato, a cercare del buono in me. Eppure, basterebbe cosi poco. Basterebbe comportarsi come te, che sei una bella persona, anche se un’idiota, e non per la questione della matematica, o dell’esercito.
E’ che lo sono tutti. Semplicemente, giri con il resto del mondo, mentre io cammino nel verso opposto. Quello che ti distingue, però, è che a volte smetti di girare per aspettare che io ritorni.
Mi piaci. Prima ho affermato che sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei detto, ma ho mentito sapendo di farlo. Mi dispiace. Ammesso che ci sia qualcosa di cui dispiacersi.
Sono contento di averti conosciuto. Mi sento meglio, da quando l’ho fatto. Non credo di aver mai incontrato qualcuno anche soltanto simile a te. Ti ho raccolto nella segale¹, per ricollegarmi al titolo del libro, e sarà l’ultimo riferimento al riguardo che ti concederò.
Ti ho afferrato, stretto, compreso e fatto mio.
Ho trovato una tua foto e ho costruito intorno ad essa la storia di una vita, che è più mia che tua, nonostante tu ne sia protagonista. E’ difficile, ma posso affrontarlo.
Ti porterò con me. Non più tra le pagine sbiadite di Salinger, comunque, perché non mi piace. Forse, un giorno, ti dirò il motivo.
L’altro giorno ho dato un’occhiata a un appartamento, in centro. Ha due stanze, una per me, una per te. Mi piacerebbe che tu venissi. Mi piacerebbe che tu tornassi, da qualunque luogo in cui adesso ti trovi. Mi fa male, non sapere.
Anche questo non ti dirò mai.
Quello che mi spinge ad andare avanti, è la convinzione che prima o poi saprò cosa fare affinché tu faccia ritorno.
Un modo troverò, per farti esistere.

Ho infilato la foto in una tasca del cappotto e sono uscito dalla piccola biblioteca. Un dottore dai capelli rossi mi ha fissato, mentre uscivo, al di sopra delle lenti spesse, decidendo che non valeva la pena soffermarsi oltre sul mio volto. L’ho oltrepassato, alla volta del laboratorio.
Ho incontrato Molly. Mi ha sorriso, ma nient’altro. Credo si sia chiesta se avessi ancora il libro da qualche parte e, soprattutto, se avessi firmato il libro dei prestiti.
Da parte mia, non incoraggio la conversazione, e lei svolta l’angolo, tenendo ancora basso lo sguardo.
Non sono riuscito a concentrarmi granché. A dirla tutta, non ricordo nemmeno come si fa, da quando ti ho conosciuto. La cosa un po’ mi irrita ma non mi spaventa: ho affrontato situazioni peggiori.
Regolo lo zoom a caso, sul vetrino da analizzare, ignaro su cosa cercare, sperando in un colpo di fortuna. Volendola dire tutta, non so nemmeno se ci sia realmente qualcosa da cercare. Probabilmente, sto solo cercando una distrazione. La fotografia in tasca pesa, come se fosse una lamina d’acciaio. Ho voglia di rivederla, ma non cedo. Non posso, perché non farei altro tutto il giorno, se solo la sottraessi alla custodia di stoffa della mia tasca. Non so cosa mi hai fatto e, forse, non voglio nemmeno saperlo.
Non ho mai rinunciato a indagare su qualcosa per me incomprensibile.
Ritieniti lusingato, e non parlarne mai di fronte a me.

La mano si muove ancora sul microscopio. Poso la giacca, per non percepire di nuovo quel peso. Penso all’eventualità di andare a casa, ma non sono pronto alla prospettiva di non trovare te ad aspettarmi.
La porta poi si apre, e mi pento di non averla chiusa a chiave, o di non aver intimato a Molly di tenere alla larga eventuali scocciatori per una buona mezz’ora.
E’ Mike Stamford. Lo sento dalla voce. Con lui c’è qualcun altro e io alzo gli occhi al cielo perché non è di una chiacchierata fintamente cordiale che ho bisogno adesso, men che meno con uno come Mike.
Entrano. Io non alzo lo sguardo, come se non stabilire un contatto visivo con lo sconosciuto mi rendesse automaticamente invisibile ai suoi occhi.

“Un po' diverso dai miei tempi”
“Non sai nemmeno quanto”

La prima voce è quella dello sconosciuto. La seconda, quella di Mike.
Qualcosa accade, nell’arco di un secondo. Nel mondo quattro bambini vengono alla luce e un uomo muore, mentre io sollevo appena lo sguardo, con il cuore in gola e il respiro fermo da qualche parte tra i polmoni e la faringe.
Non so cosa mi abbia spinto a farlo. A cercarlo, contro ogni mia volontà. So solo che l’ho fatto ed è stato uno scatto violento, veloce, avido.
Non sono pronto, per quel che vedo. O meglio, sono talmente pronto da non esserlo affatto. Non veramente. Non così presto.
Mi accorgo che ho pensato a tutto, tranne a un nome. Un dettaglio tanto intimo avrebbe reso la mancanza più reale, la fantasia meno consistente. Nulla è più durevole, invece, di qualcosa che non puoi definire con una sola parola. O un nome, come nel mio caso.
Non riesco a parlare. Ho paura, nonostante allo stesso tempo io stia provando quanto di più simile a un briciolo di felicità io conosca.
Mi piaci ancora. Mi accorgo di non riuscire ad esprimere quanto, a parole. Sei più vecchio, ed è bello, perché sei vivo ed esisti.
Non mi chiedo come sia accaduto. Non mi domando se sia una coincidenza, o qualunque altra cosa, perché siamo tutti uniti da stringhe lunghissime e ogni tanto capita di inciampare in quella giusta. In quella per cui vale la pena, un ginocchio sbucciato.
Sono fondamentalmente un uomo razionale, nonostante tutto. Non smetterò di esserlo per te.
Mi dispiace, ancora una volta.
Non voglio parlare, ma la voce vien fuori da sé.
Me ne pento un istante dopo. E’ la cosa più stupida che avrei potuto dire, eppure non sono stato in grado di impormi di tacere. Non ho più controllo nemmeno su me stesso.
Mi ripeto che posso accettare tutto quello che verrà. L’importante è che tu non scompaia, quando tornerò del tutto sobrio. Quando sarò di nuovo in grado di scindere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Adesso, è tutto un potrebbe.
L’importante è che tu rimanga e che mi ascolti, per quanto io stia blaterando.
Per quanto io non stia nemmeno parlando con te, adesso. Perdonami, se puoi.

“Mike, mi presti il tuo cellulare? Il mio non prende.”

 

§


Nevica.
Ti piace molto, la neve, e a me piace guardarti mentre la osservi cadere.
E’ strano vederti così tranquillo, impegnato a contare ogni piccolo fiocco e a seguire il loro tragitto con attenzione, come se perderne uno comportasse il dover ricominciare daccapo.  Sembri un bambino, mentre lo fai. Pervaso di un innocenza che non ti appartiene più e che, forse, non hai mai realmente posseduto.
“Sta nevicando” ti dico, e tu distogli appena lo sguardo perché sai che lo sto facendo apposta. Sai che sto attirando volutamente la tua attenzione.
“E tu stai ribadendo l’ovvio” rispondi, come fosse un copione prestabilito, qualcosa che è mio e tuo, e basta. Nostro soltanto, e di nessun altro.
Entrambi potremmo non scambiarci più una parola per stasera, e andrebbe bene lo stesso. Ci è bastato sapere che siamo entrambi qui, ancora, insieme, e che anche questa serata non è frutto di uno strano delirio. Ogni tanto, abbiamo ancora bisogno di ricordare che tutto questo è reale.
Due anni.
Ho contato i giorni, ma non te lo dico, anche se di certo ne sei già al corrente, come per ogni piccolo segreto che cerco invano di tenerti nascosto. Settecentotrenta giorni esatti.
E’ straordinario pensare, ancora oggi, al nostro fortuito incontro. Al tuo volto tranquillo e  alle tue prime parole, nemmeno rivolte a me. Al tuo invito e al tuo nome, pronunciato in fretta, quasi il coraggio a cui avevi fatto appello per confessarmi quell’informazione ovvia e necessaria ad ogni nuova amicizia, fosse arrivato pericolosamente agli sgoccioli in una manciata di secondi. Mi chiedo ancora oggi cosa tu abbia provato, in quel momento. Cosa abbia spinto un uomo come te ad accettare tanto di buon grado nella propria vita qualcuno come me.
Non so cosa sia accaduto. So soltanto che te ne sono grato e, probabilmente, te ne sarò grato per tutta la vita.
Nel  frattempo, tu hai ripreso a contare. Daccapo, qualcosa mi dice.

Non ho voglia di chiamare Harriet e nemmeno di scrivere un messaggio a Greg per quella pinta, stasera. Ho voglia di restare a casa, a leggere un libro circondato dal calore morbido della mia poltrona e del caminetto acceso.
Ti lancio un’altra breve occhiata, mentre mi dirigo verso la nostra libreria, cercando di scorgere i miei libri tra la caterva di tomi da te consultati e non riposti nello scaffale.
Adesso mormori qualcosa che non riesco a comprendere. Lo fa spesso, quando osservi intensamente qualcosa. Ogni tanto poi mi guardi, come se mi sfidassi a chiedere. A domandare cos’è, che sussurri tanto sommessamente.
La verità è che non ho realmente bisogno di comprendere cosa dici. E’ qualcosa di tuo, unicamente, e non ho alcun desiderio di impormi con forza in quel mondo approfittando di un momentaneo black-out delle difese.
Rivolgo la mia attenzione nuovamente agli scaffali, e sfilo con un movimento lesto l’unico libro ancora al proprio posto che riesco a intravedere. Guarda caso, è il mio preferito.
“Non leggerlo” la tua voce giunge chiara e inaspettata, ridestatoti all’improvviso dalla tua trance. Io ti guardo, la domanda che sto per rivolgerti scritta a chiare lettere sul mio volto. Tu non mi permetti di portela. Dici soltanto, un’altra volta: “Non leggerlo.”
Stringendo la lisa copertina bianca del libro, sprofondo nella mia poltrona di fronte al camino, proprio mentre abbandoni la neve per porre la tua completa attenzione su di me.
Non ti chiederò il motivo. Non capisco ma lascio che sia tu a parlare, perché è di libertà  che hai un costante bisogno. Come se ne avessi compreso realmente il significato solo dopo il nostro primo incontro.
“E’ un bellissimo libro” io cerco di dirti, lasciando che un sorriso vada a increspare le mie labbra, “il mio preferito. Lo conosci?”
Quando parli, e lo fai prima di quanto mi sarei aspettato, non va poi così a mio vantaggio, quel che dici.
“Sì. E non mi piace” affermi sicuro, come se fossi io quello in difetto e tu il custode della verità assoluta. “Lo lessi da ragazzo, soltanto per noia.”
Mi viene in mente Dirty Dancing. Lo so, è sciocco, ma una frase s’impone su ogni altro pensiero, nella mia mente. E’ azzeccata, nonostante provenga da un film romantico anni ’80.
-Nessuno può mettere Baby in un angolo!
Con il medesimo impeto, vorrei prenderti per le spalle e dirti, occhi negli occhi, che:
-Non si legge Salinger per noia!
“Va bene” ti dico soltanto, certo che non gradiresti il chiaro riferimento a un filone cinematografico che non apprezzi. “E’ la tua opinione. Perché però non dovrei leggerlo neppure io?”
Abbassi lo sguardo. Ti mordi il labbro, quasi ti trovassi in tremenda difficoltà. E’ terribilmente ostico riconoscere sul viso del mio migliore amico qualcosa che non credo abbia mai realmente provato in vita sua.
“Puoi dirmelo, Sherlock?” poi chiedo, perché tutto quel che voglio è aiutarti, anche se non posso fare a meno di chiedermi cosa sia successo, esattamente, nell’arco di due minuti appena, per portarci ad un simile dibattito culturale, “Con me puoi parlare. Non ho alcuna intenzione di giudicarti.”
Dura un attimo ma lo vedo. Sorridi.
“Non lo fai mai” dici. Ho bisogno di un istante, per riprendermi da ciò che hai detto. A modo tuo, ha quasi più valore di un sentito ‘ti voglio bene e mi fido di te’.
Avvicini le mani al fuoco, per scaldarle. Sono bianche, livide, per il prolungato contatto con la pietra fredda del davanzale.
Mi guardi di nuovo, dopo. Sei pensieroso, meditabondo, più di quanto tu lo sia normalmente. Sembri quasi combattuto tra il desiderio di confidarti con me e l’esortazione della tua coscienza a tenere tutto quanto per te. Mi chiedo cosa sia. Nel frattempo, oso.
Chiedo il permesso di posare una mia mano sulla tua. Ovviamente non lo chiedo a voce, perché sarebbe stupido e impersonale, ma lo faccio tenendo una mano sollevata appena sul dorso della tua, abbastanza vicina perché tu ne percepisca il calore. Annuisci e la mia mano sfiora la tua. Non è la prima volta che ti tocco, certo. Mai però, mi hai permesso un contatto tanto intimo.
La sensazione ti piace. Chiudi gli occhi, come per assaporarla meglio. Prendi un respiro.
Hai fatto una scelta.

 

§

 

E’ arrivato.
Lo avevo tenuto in conto, dopotutto, e non sono granché sorpreso. Anche se credo che il mio viso stia mostrando molta più tensione di quanta io ne stia provando realmente. Lo vedo dai tuoi occhi: mi guardano preoccupati, pieni di un’ansia leggera che non vorresti mostrare per non spaventarmi ulteriormente. Vorrei dirti che non sono spaventato ma taccio, perché mi distrarrebbe dal concederti la risposta di cui hai bisogno.
“E’ che sono io” finalmente dico, e la mia voce è talmente bassa che ne percepisco soltanto la eco nel mio petto. “Lui è tutto ciò che sono stato, che ho fatto, che ho affrontato.”
Non ho bisogno di specificare di chi stia parlando. Tu mi ascolti e non controbatti, come se fossi abituato, come se non fosse affatto la prima volta che senti qualcuno equiparare la propria esistenza a quella di un personaggio di fantasia.
La tua mano non se ne sta più semplicemente sulla mia. Ci gira un po’ intorno, poi la stringe, dapprima esitante, come se anche stavolta ti occorresse il permesso. Te lo accordo, perché non esiste cosa al mondo che ti negherei.
“E cosa c’è, di tanto brutto, in questo?” domandi soltanto, con tutta la semplicità di questo mondo, come se Holden Caulfield fosse il più onesto tra gli uomini e la più retta tra le coscienze.
Ti fisso. Anticipo la mia incredulità.
“C’è di brutto” comincio, storcendo il naso a un termine tanto bambinesco, “che sono egoista. Dedito ai vizi, alla soddisfazione del mio ego, un uomo che trova mentire un’arte e la sincerità un ostacolo. C’è di brutto che per quanto a cambiare lui ci abbia provato, alla fine è morto e basta. Così com’era.”
Finalmente sembri capire, perché annuisci e stringi la presa. Questo mi sorprende, perché immaginando questo momento, avevo sempre creduto che te ne saresti andato. Che sarebbe stato troppo anche per uno come te.
“Io non ne sono sicuro” dici, e io non so esattamente cosa pensare. Mi spiazza, ogni volta che succede. Ti guardo. Tu ricambi lo sguardo e non aspetti il mio permesso per passare una mano tra i miei capelli. Il tuo gesto è così improvviso da mozzarmi il respiro.
“Di cosa, non sei sicuro?” è la mia domanda.
“Che lui sia morto” la tua risposta. “E, soprattutto, che rispecchiarsi in tutto e per tutto in qualcuno come Holden sia da considerarsi qualcosa di esecrabile.”
Non capisco. Non è il coscienzioso, saggio e ponderato Dottor Watson quello che in questo momento sta parlando. E’ piuttosto il soldato, quello che vien fuori in tutt’altre situazioni, quasi mai in casa, quasi mai in qualunque occasione non concerna una pistola puntata contro di noi. Non riesco a parlare. Dubito che riuscirò a ricordare come si fa entro un tempo relativamente breve.
“Voglio che tu sia sincero, Sherlock” esclami, e la tua voce è quella che usi con i bambini che piangono, quella che è rassicurante e autoritaria allo stesso tempo, “ti dispiace davvero, essere l’uomo che sei?”
Oh.
E’ di gran lunga una di quelle domande a cui non so rispondere. Semplicemente, perché nessuno me l’ha mai posta prima. Vorrei dirti quel che vorresti sentire, ma dovrei mentire e io non voglio. Cerco di farlo il meno possibile, con te, per quanto a volte sia estremamente complicato.
“No” dico, ed è la verità nuda e cruda, “non mi dispiace neanche un po’.”

 

§

 

Non dispiace nemmeno a me. In verità, sono felice come poche volte lo sono stato.
Voglio chiederti ancora una cosa. Una domanda semplice, ovvia, scontata dopo quel che mi hai appena confessato. Non sono nemmeno lontanamente così sicuro di me stesso da poter affermare di esser certo di quel che adesso dirai. So solo che lo desidero disperatamente.
Anche questa volta, non ho alcun bisogno di porti la mia domanda a voce.
“E’ per te, che non voglio esserlo” esclami. Sei in imbarazzo.
Dal canto mio, vorrei solo baciarti fino a perdere il respiro.
Potrei farlo. Potrei rischiare. Non cedo soltanto perché  l’ultima cosa che voglio è indurti ad aver timore di me.
Non riesco a smettere di parlare, comunque. Continuo ancora, e ancora, perché fermarmi sarebbe come dirti che hai ragione, e tu non hai ragione, nemmeno un po’. Oggi, Sherlock Holmes ha preso un’enorme, colossale, cantonata.
“Sai” ti dico, con voce lieve, quasi cantilenante “quando studiavo alla Barts, donai una copia di questo libro alla Biblioteca dell’Ospedale.”
La tua attenzione si desta. Le labbra si schiudono e io posso giurare, qui, davanti a un giudice e a Londra intera, che è la prima volta che scorgo una simile espressione sul tuo viso. Sembri sconvolto. Preso alla sprovvista. Sorpreso e sconcertato.
E’ l’ennesima sorpresa di questa serata.
Comunque, non parli. Mi lasci sulle spine e con la solita, usuale, domanda in sospeso nella testa.
-Stai fingendo?
Continuo. Fingo che tu mi abbia incoraggiato a farlo.
“Infilai una mia foto tra le pagine. Fu una cosa stupida in verità. Ero più giovane in quell’immagine, ma non ero cambiato poi molto, fondamentalmente” prendo un respiro e tu ti avvicini, “ma non fu per egocentrismo. Lo feci per uno scopo ben preciso, se vuoi saperlo.”
Non ti accorgi di aver stretto la mia mano nella tua, in un improvviso capovolgimento delle parti. Io non te lo faccio notare perché è meraviglioso e non voglio, affatto, che il nostro contatto s’interrompa.
“Voglio saperlo” esclami, a voce così bassa che lo sento appena.
Non ho motivo di non dirtelo, in fondo. Questa notte è fatta per le cose nascoste. Mi piace pensare che domani il mondo tornerà a girare come di consueto, senza che nessuno di noi due serbi ricordo di quel che sta tutt’ora accadendo.
“Ho messo in quel libro quella foto sperando che qualcuno la scoprisse” sussurro anche io, improvvisamente dimentico di come si adoperi un accettabile tono di voce, “che qualcuno che avesse amato quel libro quanto me, potesse interessarsi alla vita di quell’insignificante ragazzo talmente tanto da provare a cercarlo.”
Tu ti allontani, all’improvviso, come se non riuscissi più a tollerare una simile vicinanza e una tale intimità tra noi. Alzo le mani, mentre tu trovi sostegno contro la parete più vicina, poggiando la schiena e le mani contro la carta da parati bianca e nera.
Respiri a fatica, come se qualcuno ti avesse colpito al petto con un pugno. Sei sopraffatto, ma non posso in alcun modo, nonostante la mia indole mi spinga a correre in tuo soccorso, fermarmi adesso.
“Sognavo che qualcuno come lui mi trovasse” esclamo, tormentando il cuscino della poltrona con le unghie, “che qualcuno che, al contrario mio, avesse avuto il coraggio di essere come Holden potesse anche soltanto considerare l’idea di innamorarsi di uno come me.”
Tu rimani fermo lì, fisso, come una statua che se ne sta diritta sul suo piedistallo.

§

“Crederai che io sia uno sciocco” dici, ma non credo che tu lo sia. Non l’ho mai pensato nemmeno per un momento. Non per quel che mi hai appena confidato, almeno.
E’ più di quanto io possa sopportare, in verità. Tutto mi sembra troppo, eccessivo, diverso da come era appena mezz’ora fa, prima che tutto questo avesse inizio.
Fuori ha smesso di nevicare.
L’aria sembra troppo fredda, il fuoco troppo rosso, la mia stanza troppo lontana e tu troppo vicino.
E la cosa che mi spaventa, è che io voglio che tu sia cosi vicino. Lo desiderio contro ogni coerenza e raziocinio.
E’ tutto diverso da come lo avevo immaginato. Non trovo mai piacevole che le situazioni esulino da come le avevo esattamente programmate nella mia testa, ma questa faccenda è un fuori programma del tutto inaspettato.
Non ho detto una parola, eppure tu ti avvicini lo stesso. Non chiedi più il permesso, come hai fatto finora. L’espressione sul tuo volto è la stessa di quella fotografia: sei felice, eppure preso alla sprovvista. Allora, eri preoccupato che l’immagine sulla pellicola potesse non rendere giustizia a quel che eri in realtà. Adesso, sei preoccupato che io non riesca a comprendere chi sei ora.
Sei a un passo da me e mi porgi le tue mani. Io non muovo le mie dal loro rifugio contro il muro.
Tu però non demordi perché ottieni sempre quel che vuoi, quando non si tratta della cena, del fish and chips a notte fonda e del bucato. Il tuo sguardo dice che in fondo puoi fare a meno delle mie mani. E’ altro di cui hai bisogno, anche se vorresti intrecciare le tue dita con le mie.
“Capisci, quindi?” tu mi dici, mentre mi accorgo che fa così caldo che mi sento soffocare. “Capisci che non vorrei mai che tu fossi diverso da come sei?”
Sentirlo mi rende folle. C’è l’euforia di un caso da 9, l’eccitazione di una fuga, l’adrenalina conseguente a un colpo schivato. C’è una tale confusione di emozioni, o presunte tali, dentro di me, da farmi girare la testa. Quello che so, è che mi piace. Mi piace immensamente, come mai avrei creduto possibile.
Mi piaci tu. Mi sei sempre piaciuto e sempre mi piacerai.
“Sì” così rispondo, perché d’improvviso non so più come si faccia, a mentire, “credo proprio di aver capito.”
E ripenso alla fotografia mentre tu sorridi e penso che non esista, no davvero, un’immagine di te che non amerei alla follia. Ripenso a quel rettangolo di carta lucida e ingiallita anche mentre mi baci.
E’ un bel bacio. Il migliore di tutti.
Prendo coraggio e ti sfioro una spalla, e tu fai lo stesso, come fossimo riflessi speculari e uno specchio si frapponesse tra noi. Il bacio cambia, ed è più profondo, e io ti assecondo perché respirare è sempre noioso ma adesso, mentre è la tua bocca a saziarsi del mio respiro, ne farei a meno per sempre.
Mi piaci per come baci. Lo aggiungerò alla lista, più tardi.
Quando rompiamo il bacio, una parte di me sembra morire. Il freddo sovrasta il calore, e per giunta il camino è spento. Fin quando posso vederti però, va tutto bene.
Mi guardi ed è meraviglia, quella che illumina i tuoi occhi. Non credo di essere mai stato meraviglioso per nessuno. Comunque, lo sei anche tu. Ho voglia di dirtelo, così cerco le parole per farlo al meglio.
“Mi piaci” è quello che vien fuori. Alla fine te l’ho detto. Mi secca apparirti come un adolescente cotto del suo compagno di banco.
A te però sembra piacere. Probabilmente perché ami tutto quel che è spontaneo, anche se a me sembra solo stupido, quel che ho appena detto.
“Mi piaci anche tu” mi rispondi, e io sorrido anche se non dovrei, anche se dovrei ancora essere infuriato con me stesso, “e credo anche di essere irrimediabilmente innamorato di te.”
Il mondo intorno a me pare frenare bruscamente, come se ci fosse qualcuno a manovrarlo e questo avesse inchiodato all’improvviso. E’ qualcosa di totalmente nuovo. Qualcosa che nessuno mi ha mai detto prima, perché per quanto abbia cercato, in giro nella mia testa, non ho trovato nulla che fosse anche soltanto comparabile a questo.
Voglio rispondergli. Vorrei, in verità, ma non riesco.
Tu sembri comprendere la mia difficoltà. Tutto quello che fai è baciarmi di nuovo, a fior di labbra, un semplice sfiorarsi. E’ bellissimo ugualmente.
“Non c’è bisogno che tu dica niente, adesso” mi rassicuri, e io ti bacerei ancora soltanto per questo, soltanto perché sai sempre quello di cui ho bisogno, “abbiamo tutto il tempo di questo mondo.”
Poi qualcosa scatta, nella mia testa. Una luce s’illumina e io sorrido, contro la tua spalla, perché mi hai stretto in un abbraccio. Forse non avrò bisogno di parole, per dirtelo.
La tengo sempre con me, quella fotografia. E’ nella tasca della mia giacca ogni giorno, da due anni a questa parte.
Prendo la tua mano nella mia e tu mi guardi, curioso, mentre ti lasci guidare fino ai miei fianchi, fino a sfiorare la fodera interna della tasca. Ci vuole un po’ affinché tu riesca a comprendere cosa sia, quel pezzo di carta sgualcito. Quando poi realizzi, è splendido guardare la consapevolezza illuminare i tuoi occhi, scivolando lungo la curva del naso e andando a increspare le labbra, invitandole a piegarsi nel sorriso più bello che abbia mai visto.
La sfili dal suo rifugio di stoffa e con dolcezza la osservi, quasi non riconoscendoti nel ragazzo lì ritratto. Sei tu, John. Sei l’uomo che ho scelto ancor prima di conoscere.
La tieni stretta tra le mani, mentre torni a guardarmi, poggiando la tua fronte sulla mia.
Parlo di nuovo, e non dirò molto altro per questa sera.
“Ti basta?” ti chiedo, guardandoti negli occhi, perché è lì che voglio leggere la risposta prima di udirla dalla tua voce.
Non mi deludi. Non l’hai mai fatto, e non lo fai nemmeno adesso.
“Mi basta” dici, e la tua voce trema ed è bellissimo. “Basterà per sempre, Sherlock.”
Ed è per questo, che tutto è iniziato.
Sono sicura, certa, che sia per questo che quel libro non mi è mai piaciuto, perché un giorno qualcuno potesse piombare nella mia vita a dirmi che sbagliavo. Che poteva essere splendido, se interpretato con la giusta chiave di lettura.
Credo sia anche soltanto per questo unico, fuggevole attimo, che io abbia vissuto la mia vita così come ho fatto, prima di conoscerti. Perché tu mi insegnassi a renderla migliore.
Degna.
Fuori, ha ripreso a nevicare.

 

*

 

 

 

¹ In originale:  The Catcher in the Rye’. In caso foste interessati a un esaustivo riassunto della trama, cliccate pure qui.

  
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