Buonasera,
splendido fandom del mio cuore!
Ta-dah! Sono sana e salva, soltanto reduce dagli ultimi mesi di Uni,
che hanno
praticamente prosciugato il tempo e forza vitale necessari per la
scrittura.
Durante questi sprazzi d’estate però mi sono messa
d’impegno, portandomi
addirittura il portatile in vacanza pur di sfruttare il tempo libero
per scrivere!
Da due notti insonni e un diluvio pomeridiano, è venuta
fuori questa breve storia,
ispirata a una fotografia intravista su un sito. Spero davvero, con
tutto il
cuore, che vi piaccia, soprattutto perché priva di qualunque
traccia di angst.
Solo fluff! Fluff e tanto amore!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
Focus
*
Per Nat,
perché il
fluff promesso va mantenuto.
Meglio tardi che mai <3
«This is
no book;
Who touches this, touches a man;
(Is
it night? Are
we here alone?)
It is I you hold, and who holds you;
I spring from the pages into your arms[…]»
-W.Whitman
Ho
trovato la tua foto in un libro.
Non un bel libro. Soltanto uno di quelli che sfili via dal mucchio per
perdere
tempo, quando la noia è troppa e il tempo non sembra voler
passare. Ho
sollevato la copertina, sfogliato qualche pagina ed eccoti qui, senza
motivo di
esserci. Un pesce fuor d’acqua.
La fotografia è a colori. Tenui, sbiaditi dal tempo.
Consumati dal biancore
ormai giallastro delle stesse pagine. E’ incastrata lungo il
bordo, dove i
fogli sono saldamente incollati insieme. Sembra quasi che sia qui da
sempre. A
un’occhiata più approfondita, si potrebbe
tranquillamente affermare che sia parte del libro stesso.
Le parole scritte, stampate in caratteri obsoleti, sul bordo superiore
del
pezzo di carta, sembrano quasi profetiche:
- Raccontami
la storia della tua affascinante vita, pivello.
Sono quasi una didascalia.
E’
come se qualcuno avesse voluto apporre al libro qualcosa di proprio,
personale,
in barba all’autore e ai suoi desideri.
Non ti ho scelto subito. A dire il vero non ti avrei scelto affatto se
solo non
avessi riscontrato, tra gli scaffali della Biblioteca del Barts, una
preoccupante penuria di testi a me congeniali. Ho dubitato un
po’ all’inizio,
tra te e Il Gabbiano Jonathan Livingston.
Non eri una granché valida alternativa; in
realtà, eri soltanto
uno scaffale più in basso.
Molly mi ha lanciato uno strano sguardo, quando mi ha visto con il tuo libro tra le mani.
“Il Giovane Holden?” mi ha domandato, abbastanza
scioccamente, visto il titolo
in bella vista sulla copertina totalmente bianca.
Non le ho risposto. Sinceramente, non
saprei nemmeno dire se una domanda di cui già
si conosce la risposta
necessiti di un’ulteriore conferma.
Non sono molto bravo in certe cose. Così, l’ho
ignorata. Lei ha abbassato lo
sguardo e ha proseguito lungo il corridoio, senza più
accennare all’argomento.
Riguardo te, sarò franco.
Mi piaci.
Non in senso puramente estetico. Non sono a mio agio, e in
verità nemmeno
granché capace, nel giudicare l’altrui aspetto.
Non saprei dirti, quindi, esattamente in che senso
tu sia di mio gradimento. Forse è la luce nei tuoi occhi.
Probabilmente il modo in cui non guardi dritto in camera, come se ti
avessero
colto del tutto alla sprovvista.
Io odio le fotografie.
Quando ero bambino, mia madre ne scattava a bizzeffe. Io in braccio ai
miei
nonni. Io sull’altalena in giardino. Io in classe chino su un
libro. Io in
lacrime sul dorso di un pony.
Era solita raccoglierle tutte in grossi album dalle copertine in pizzo
bianco.
Quelle che però detestavo più di tutte, erano
quelle scattate di nascosto.
Quelle rubate durante un momento di distrazione, chino su un quaderno,
sul
piatto della cena, mezzo addormentato sul divano del salotto. Erano le
fotografie a cui non potevi sfuggire. I momenti immortalati su
pellicola che ti
avrebbero per sempre mostrato al mondo come un perfetto idiota.
Tu però non sembri affatto un idiota. Piuttosto, sembri felice. Ecco. E’ questo, che mi
piace.
Non so di che colore siano, i tuoi occhi. Forse azzurri. Magari
cerulei, o
verde scuro. La patina del tempo è inclemente, su di te: non
mi permette di
capire di che sfumatura siano in realtà. Le tue labbra,
invece, sono sottili e
rosse.
Non vedo molto altro di te. Hai uno strano taglio di capelli, da
adolescente,
ma probabilmente lo sei, in questa immagine. Non avrai più
di sedici anni. La
foto però è vecchia, e tu sei cresciuto. Avrai la
mia età, oggi. Dai vestiti
che indossi, dal maglioncino troppo largo e dalla puntata di Coronation Street che il televisore
dietro di te sta trasmettendo, hai vent’anni di
più, adesso. Non chiedermi
come abbia fatto a
riconoscerla.
Non so se sei vivo. Magari, sei morto da anni. Forse non sei nemmeno
mai
esistito. Forse la fiala di coca di ieri sera non era
granché buona, e oggi sogno
ad occhi aperti. Vedo senza avere
realmente qualcosa da
guardare.
Non so cosa eri e cosa sei diventato. Non ho idea se tu fossi un
ragazzo
svogliato, studioso, amante dei libri o soltanto del calcio, del rugby,
o di
qualunque sport trasmettano al pub il sabato sera.
Nella storia che ho creato per te, il calcio non ti piace. Giochi a
rugby,
però, nonostante la mia conoscenza di esso si limiti al nome
e a qualche
nozione appresa contro la mia volontà durante un caso.
Il tuo cibo preferito è la torta di mele. L’ho
scelta perché è anche il mio, e
voglio avere qualcosa in comune, con te, anche se soltanto facezie come
questa.
Comunque, non apprezzo poi così tanto la cucina da avere
chissà quante opzioni
in mente, tra cui scegliere. Così, ho imboccato la via
più semplice.
Ti piacciono i libri. Ne leggi da quand’eri bambino e
continui a farlo. In casa
tua hai una libreria piena zeppa di volumi di ogni genere. Ti piacevano
le
storie di Pirati, da piccolo. A tutti i bambini piacciono. Piacevano
anche a
me, quando credevo che di persone così crudeli non ne
esistessero poi tante, al
mondo. Mi piaceva l’eccezione.
Hanno
smesso di piacermi quando sono cresciuto.
Il tuo libro preferito l’ho scelto adesso. Guarda caso,
è Il Giovane Holden. Ti
prego, però, di non parlarne mai
con me.
La matematica però non è il tuo forte. I numeri
ti confondono, e ti fanno pensare
a tua madre, che l’ha insegnata per trent’anni e
ancora non capisce come tu abbia
potuto non ereditare la sua predisposizione. E’ una cosa che
ti è sempre pesata
da ragazzo, ma non t’importa più molto, adesso.
Anche mia madre insegnava Matematica. Scriveva anche libri ma non ne ho
mai
letto uno. Ogni tanto potremmo parlare di quest’altro
dettaglio comune delle
nostre esistenze, ma non mi va di riaprire una vecchia ferita. Quindi,
sto
zitto.
Mi piaci perché da
grande, nella mia
storia, hai deciso di studiare medicina. Mi piacciono i medici. Sono
utili al
mio lavoro e capiscono quello che dico. Parlare con loro non
è affatto come farlo con
Lestrade, probabilmente
convinto che uno Stafilococco sia
una
sorta di bizzarro frutto tropicale.
Tu non hai deciso di farlo per cambiare il mondo. Più che
altro, hai deciso di
farlo affinché il mondo cambiasse te.
Per questo ti sei arruolato. Per capire cosa realmente succedesse fuori
dalla
tua gabbia dorata. Per scoprire un mondo totalmente estraneo alle
ginocchia
sbucciate, ai prelievi di sangue e ai cuori auscultati.
Ti ammiro, anche se probabilmente
non
te lo dirò mai. I soldati non mi sono mai piaciuti,
perché credo che nulla, men
che meno la propria Nazione, valga un rischio così grande. A
loro, in fondo,
basta una cerimonia solenne e una medaglia per lavarsene le mani,
già pronti a
tirar fuori dal cilindro il prossimo inetto pronto a immolarsi per la
patria.
Tu mi piaci, e lo ripeto, ma non
illuderti di sentirlo ancora. Ho una certa reputazione, io, da
mantenere più
integra che posso.
Hai il viso di un futuro dottore. Rassicurante.
Di quelli che guardi e dici: sono in mani
sicure. Io non ho mai avuto un dottore così. I
miei erano tutti spaventosi,
con dita tozze e movimenti sgraziati. Il dottore più
rassicurante che abbia mai
conosciuto è Molly, ma non potrebbe importare di meno, ai
pazienti che si è
scelta.
Questa è una di quelle cose che non dirò mai ad
alta voce. Tantomeno a lei.
Sei mio amico. Questo non lo avevo
ancora detto, forse perché è una frase che non
dico molto spesso. In realtà,
credo che quelli che considero miei amici non sappiano nemmeno di
esserlo.
Pensandoci, non riesco a ricordare esattamente chi siano, ma te lo
dirò, quando
mi verranno in mente.
Comunque tu lo sei. Almeno, rispondi a tutti i requisiti che dovrebbe
possedere
un amico, secondo i miei canoni. Sei qualcuno che mi accetta. Qualcuno
a cui
vado bene anche così. Anche se sbuffi, qualche volta.
Tu sei bravo, a farlo. Non sbuffare. Accettarmi.
C’è un’altra frase qui sotto,
perché sto ancora sfogliando il libro, nonostante
sia tutt’altro che piacevole. Piove ancora, fuori, e non ho
voglia di uscire.
-La gente non si accorge mai di nulla.
E’ vero. Almeno in questo sono d’accordo.
Nessuno ci ha mai neppure provato, a cercare del buono in me. Eppure,
basterebbe cosi poco. Basterebbe comportarsi come te, che sei una bella
persona, anche se un’idiota, e non per la questione della
matematica, o
dell’esercito.
E’ che lo sono tutti. Semplicemente, giri con il resto del
mondo, mentre io
cammino nel verso opposto. Quello che ti distingue, però,
è che a volte smetti
di girare per aspettare che io ritorni.
Mi piaci. Prima ho affermato che sarebbe stata l’ultima volta
che lo avrei
detto, ma ho mentito sapendo di farlo. Mi
dispiace. Ammesso che ci sia qualcosa di cui dispiacersi.
Sono contento di averti conosciuto. Mi sento meglio, da quando
l’ho fatto. Non
credo di aver mai incontrato qualcuno anche soltanto simile a te. Ti ho
raccolto nella segale¹, per
ricollegarmi
al titolo del libro, e sarà l’ultimo riferimento
al riguardo che ti concederò.
Ti ho afferrato, stretto, compreso
e
fatto mio.
Ho trovato una tua foto e ho costruito intorno ad essa la storia di una
vita,
che è più mia
che tua, nonostante tu
ne sia protagonista. E’ difficile, ma posso affrontarlo.
Ti porterò con me. Non più tra le pagine sbiadite
di Salinger, comunque, perché
non mi piace. Forse, un giorno, ti dirò il motivo.
L’altro giorno ho dato un’occhiata a un
appartamento, in centro. Ha due stanze,
una per me, una per te. Mi piacerebbe che tu venissi. Mi piacerebbe che
tu tornassi, da qualunque luogo in
cui adesso
ti trovi. Mi fa male, non sapere.
Anche questo non ti dirò mai.
Quello che mi spinge ad andare avanti, è la convinzione che
prima o poi saprò
cosa fare affinché tu faccia ritorno.
Un modo troverò, per farti esistere.
Ho
infilato la foto in una tasca del cappotto e sono uscito
dalla piccola biblioteca. Un dottore dai capelli rossi mi ha fissato,
mentre
uscivo, al di sopra delle lenti spesse, decidendo che non valeva la
pena
soffermarsi oltre sul mio volto. L’ho oltrepassato, alla
volta del laboratorio.
Ho incontrato Molly. Mi ha sorriso, ma nient’altro. Credo si
sia chiesta se
avessi ancora il libro da qualche parte e, soprattutto, se avessi
firmato il
libro dei prestiti.
Da parte mia, non incoraggio la conversazione, e lei svolta
l’angolo, tenendo ancora
basso lo sguardo.
Non sono riuscito a concentrarmi granché. A dirla tutta, non
ricordo nemmeno come si fa, da
quando ti ho conosciuto. La
cosa un po’ mi irrita ma non mi spaventa: ho affrontato
situazioni peggiori.
Regolo lo zoom a caso, sul vetrino da analizzare, ignaro su cosa
cercare,
sperando in un colpo di fortuna. Volendola dire tutta, non so nemmeno
se ci sia
realmente qualcosa da cercare. Probabilmente, sto solo cercando una distrazione. La fotografia in tasca
pesa, come se fosse una lamina d’acciaio. Ho voglia di
rivederla, ma non cedo.
Non posso, perché non farei altro tutto il giorno, se solo
la sottraessi alla custodia
di stoffa della mia tasca. Non so cosa mi hai fatto e, forse, non
voglio
nemmeno saperlo.
Non ho mai rinunciato a indagare su
qualcosa per me incomprensibile.
Ritieniti lusingato, e non parlarne mai
di fronte a me.
La mano si muove ancora sul microscopio. Poso la giacca, per non
percepire di
nuovo quel peso. Penso all’eventualità di andare a
casa, ma non sono pronto
alla prospettiva di non trovare te
ad
aspettarmi.
La porta poi si apre, e mi pento di non averla chiusa a chiave, o di
non aver
intimato a Molly di tenere alla larga eventuali scocciatori per una
buona
mezz’ora.
E’ Mike Stamford. Lo sento dalla voce. Con lui
c’è qualcun altro e io alzo gli
occhi al cielo perché non è di una chiacchierata
fintamente cordiale che ho
bisogno adesso, men che meno con uno come Mike.
Entrano. Io non alzo lo sguardo, come se non stabilire un contatto
visivo con
lo sconosciuto mi rendesse automaticamente invisibile ai suoi occhi.
“Un po' diverso dai miei
tempi”
“Non sai nemmeno quanto”
La
prima voce è quella dello sconosciuto. La seconda, quella
di Mike.
Qualcosa accade, nell’arco di un secondo. Nel mondo quattro
bambini vengono
alla luce e un uomo muore, mentre io sollevo appena lo sguardo, con il
cuore in
gola e il respiro fermo da qualche parte tra i polmoni e la faringe.
Non so cosa mi abbia spinto a farlo. A cercarlo,
contro ogni mia volontà. So solo che l’ho fatto ed
è stato uno scatto violento,
veloce, avido.
Non sono pronto, per quel che vedo. O meglio, sono talmente pronto da
non
esserlo affatto. Non veramente. Non così presto.
Mi accorgo che ho pensato a tutto, tranne a un nome. Un dettaglio tanto
intimo
avrebbe reso la mancanza più reale, la fantasia meno consistente. Nulla è
più durevole, invece, di qualcosa che non puoi
definire con una sola parola. O un nome,
come nel mio caso.
Non riesco a parlare. Ho paura,
nonostante allo stesso tempo io stia provando quanto di più
simile a un
briciolo di felicità io
conosca.
Mi piaci ancora. Mi accorgo di non riuscire ad esprimere quanto,
a parole. Sei più vecchio, ed è bello,
perché sei vivo ed esisti.
Non mi chiedo come sia accaduto. Non mi domando se sia una coincidenza,
o
qualunque altra cosa, perché siamo tutti uniti da stringhe
lunghissime e ogni
tanto capita di inciampare in quella giusta. In quella per cui vale la
pena, un
ginocchio sbucciato.
Sono fondamentalmente un uomo razionale, nonostante tutto. Non
smetterò di
esserlo per te.
Mi dispiace, ancora una volta.
Non voglio parlare, ma la voce vien
fuori da sé.
Me ne pento un istante dopo. E’ la cosa più
stupida che avrei potuto dire,
eppure non sono stato in grado di impormi di tacere. Non ho
più controllo nemmeno
su me stesso.
Mi ripeto che posso accettare tutto quello che verrà.
L’importante è che tu non
scompaia, quando tornerò del tutto sobrio.
Quando sarò di nuovo in grado di scindere ciò che
è vero da ciò che non lo è.
Adesso, è tutto un potrebbe.
L’importante è che tu rimanga
e che
mi ascolti, per quanto io stia blaterando.
Per quanto io non stia nemmeno parlando con te,
adesso. Perdonami, se puoi.
“Mike, mi presti il tuo cellulare?
Il mio
non prende.”
§
Nevica.
Ti piace molto, la neve, e a me piace guardarti mentre la osservi
cadere.
E’ strano vederti così tranquillo, impegnato a
contare ogni piccolo fiocco e a seguire
il loro tragitto con attenzione, come se perderne uno comportasse il
dover ricominciare daccapo. Sembri un bambino, mentre
lo fai. Pervaso di
un innocenza che non ti appartiene più e che, forse, non hai
mai realmente
posseduto.
“Sta nevicando” ti dico, e tu distogli appena lo
sguardo perché sai che lo sto
facendo apposta. Sai che sto attirando volutamente
la tua attenzione.
“E tu stai ribadendo l’ovvio” rispondi,
come fosse un copione prestabilito,
qualcosa che è mio e tuo, e basta. Nostro soltanto, e di
nessun altro.
Entrambi potremmo non scambiarci più una parola per stasera,
e andrebbe bene lo
stesso. Ci è bastato sapere che siamo entrambi qui, ancora,
insieme, e che anche
questa serata non è frutto di uno strano delirio. Ogni
tanto, abbiamo ancora
bisogno di ricordare che tutto questo è reale.
Due anni.
Ho contato i giorni, ma non te lo dico, anche se di certo ne sei
già al
corrente, come per ogni piccolo segreto che cerco invano di tenerti
nascosto. Settecentotrenta
giorni esatti.
E’ straordinario pensare, ancora oggi, al nostro fortuito
incontro. Al tuo
volto tranquillo e alle
tue prime
parole, nemmeno rivolte a me. Al tuo invito
e al tuo nome, pronunciato in fretta, quasi il coraggio a cui avevi
fatto
appello per confessarmi
quell’informazione ovvia e necessaria ad ogni nuova amicizia,
fosse arrivato
pericolosamente agli sgoccioli in una manciata di secondi. Mi chiedo
ancora
oggi cosa tu abbia provato, in quel momento. Cosa abbia spinto un uomo
come te
ad accettare tanto di buon grado nella propria vita qualcuno come me.
Non so cosa sia accaduto. So soltanto che te ne sono grato e,
probabilmente, te
ne sarò grato per tutta la vita.
Nel frattempo, tu
hai ripreso a contare.
Daccapo, qualcosa mi dice.
Non ho voglia di chiamare Harriet e nemmeno di scrivere un messaggio a
Greg per
quella pinta, stasera. Ho voglia di restare a casa, a leggere un libro
circondato dal calore morbido della mia poltrona e del caminetto
acceso.
Ti lancio un’altra breve occhiata, mentre mi dirigo verso la
nostra libreria,
cercando di scorgere i miei libri tra la caterva di tomi da te
consultati e non
riposti nello scaffale.
Adesso mormori qualcosa che non riesco a comprendere. Lo fa spesso,
quando osservi
intensamente qualcosa. Ogni tanto poi mi guardi, come se mi sfidassi a
chiedere. A domandare cos’è, che sussurri tanto
sommessamente.
La verità è che non ho realmente bisogno
di comprendere cosa dici. E’ qualcosa di tuo, unicamente, e
non ho alcun
desiderio di impormi con forza in quel mondo approfittando di un
momentaneo black-out delle difese.
Rivolgo la mia attenzione nuovamente agli scaffali, e sfilo con un
movimento
lesto l’unico libro ancora al proprio posto che riesco a
intravedere. Guarda
caso, è il mio preferito.
“Non leggerlo” la tua voce giunge chiara e
inaspettata, ridestatoti all’improvviso
dalla tua trance. Io ti guardo, la domanda che sto per rivolgerti
scritta a
chiare lettere sul mio volto. Tu non mi permetti di portela. Dici
soltanto,
un’altra volta: “Non leggerlo.”
Stringendo la lisa copertina bianca del libro, sprofondo nella mia
poltrona di
fronte al camino, proprio mentre abbandoni la neve per porre la tua
completa
attenzione su di me.
Non ti chiederò il motivo. Non capisco ma lascio che sia tu
a parlare, perché è
di libertà che hai un costante bisogno.
Come se ne avessi
compreso realmente il significato solo dopo il nostro primo incontro.
“E’ un bellissimo libro” io cerco di
dirti, lasciando che un sorriso vada a
increspare le mie labbra, “il mio preferito. Lo
conosci?”
Quando parli, e lo fai prima di quanto mi sarei aspettato, non va poi
così a
mio vantaggio, quel che dici.
“Sì. E non mi piace” affermi sicuro,
come se fossi io quello in difetto e tu il
custode della verità assoluta. “Lo lessi da
ragazzo, soltanto per noia.”
Mi viene in mente Dirty Dancing. Lo
so, è sciocco, ma una frase s’impone su ogni altro
pensiero, nella mia mente.
E’ azzeccata, nonostante provenga da un film romantico anni
’80.
-Nessuno può mettere Baby in un
angolo!
Con il medesimo impeto, vorrei prenderti per le spalle e
dirti, occhi negli
occhi, che:
-Non si legge Salinger per noia!
“Va bene” ti dico soltanto, certo che non
gradiresti il chiaro riferimento
a un filone cinematografico che non apprezzi. “E’
la tua opinione. Perché però
non dovrei leggerlo neppure io?”
Abbassi lo sguardo. Ti mordi il labbro, quasi ti trovassi in tremenda
difficoltà. E’ terribilmente ostico riconoscere
sul viso del mio migliore amico
qualcosa che non credo abbia mai realmente provato in vita sua.
“Puoi dirmelo, Sherlock?” poi chiedo,
perché tutto quel che voglio è aiutarti,
anche se non posso fare a meno di chiedermi cosa sia successo,
esattamente,
nell’arco di due minuti appena, per portarci ad un simile dibattito culturale, “Con me
puoi parlare. Non ho alcuna intenzione
di giudicarti.”
Dura un attimo ma lo vedo. Sorridi.
“Non lo fai mai” dici. Ho bisogno di un istante,
per riprendermi da ciò che hai
detto. A modo tuo, ha quasi più valore di un sentito
‘ti voglio bene e mi fido di
te’.
Avvicini le mani al fuoco, per scaldarle. Sono bianche, livide, per il
prolungato contatto con la pietra fredda del davanzale.
Mi guardi di nuovo, dopo. Sei pensieroso, meditabondo, più
di quanto tu lo sia
normalmente. Sembri quasi combattuto tra il desiderio di confidarti con
me e l’esortazione
della tua coscienza a tenere tutto quanto per te. Mi chiedo cosa sia.
Nel
frattempo, oso.
Chiedo il permesso di posare una mia mano sulla tua. Ovviamente non lo
chiedo a
voce, perché sarebbe stupido e impersonale, ma lo faccio
tenendo una mano
sollevata appena sul dorso della tua, abbastanza vicina
perché tu ne percepisca
il calore. Annuisci e la mia mano sfiora la tua. Non è la
prima volta che ti
tocco, certo. Mai però, mi hai permesso un contatto tanto
intimo.
La sensazione ti piace. Chiudi gli occhi, come per assaporarla meglio.
Prendi
un respiro.
Hai fatto una scelta.
§
E’
arrivato.
Lo avevo tenuto in conto, dopotutto, e non sono granché
sorpreso. Anche se
credo che il mio viso stia mostrando molta più tensione di
quanta io ne stia
provando realmente. Lo vedo dai tuoi occhi: mi guardano preoccupati,
pieni di
un’ansia leggera che non vorresti mostrare per non
spaventarmi ulteriormente.
Vorrei dirti che non sono spaventato ma taccio, perché mi
distrarrebbe dal concederti
la risposta di cui hai bisogno.
“E’ che sono io”
finalmente dico, e
la mia voce è talmente bassa che ne percepisco soltanto la
eco nel mio petto.
“Lui è tutto ciò che sono stato, che ho
fatto, che ho affrontato.”
Non ho bisogno di specificare di chi stia parlando. Tu mi ascolti e non
controbatti, come se fossi abituato, come se non fosse affatto la prima
volta
che senti qualcuno equiparare la propria esistenza a quella di un
personaggio
di fantasia.
La tua mano non se ne sta più semplicemente sulla mia. Ci
gira un po’ intorno,
poi la stringe, dapprima esitante, come se anche stavolta ti occorresse
il
permesso. Te lo accordo, perché non esiste cosa al mondo che
ti negherei.
“E cosa c’è, di tanto brutto, in
questo?” domandi soltanto, con tutta la
semplicità di questo mondo, come se Holden Caulfield fosse
il più onesto tra
gli uomini e la più retta tra le coscienze.
Ti fisso. Anticipo la mia incredulità.
“C’è di brutto”
comincio, storcendo
il naso a un termine tanto bambinesco,
“che sono egoista. Dedito ai vizi, alla soddisfazione del mio
ego, un uomo che
trova mentire un’arte e la sincerità un ostacolo.
C’è di brutto che per quanto
a cambiare lui ci abbia provato,
alla
fine è morto e basta. Così com’era.”
Finalmente sembri capire, perché annuisci e stringi la
presa. Questo mi
sorprende, perché immaginando questo momento, avevo sempre
creduto che te ne
saresti andato. Che sarebbe stato troppo anche per uno come te.
“Io non ne sono sicuro” dici, e io non so
esattamente cosa pensare. Mi spiazza,
ogni volta che succede. Ti guardo. Tu ricambi lo sguardo e non aspetti
il mio
permesso per passare una mano tra i miei capelli. Il tuo gesto
è così
improvviso da mozzarmi il respiro.
“Di cosa, non sei sicuro?” è la mia
domanda.
“Che lui sia morto” la tua risposta. “E,
soprattutto, che rispecchiarsi in
tutto e per tutto in qualcuno come Holden sia da considerarsi qualcosa
di esecrabile.”
Non capisco. Non è il coscienzioso, saggio e ponderato
Dottor Watson quello che
in questo momento sta parlando. E’ piuttosto il soldato, quello che vien fuori in
tutt’altre situazioni, quasi mai
in casa, quasi mai in qualunque occasione non concerna una pistola
puntata
contro di noi. Non riesco a parlare. Dubito che riuscirò a
ricordare come si fa
entro un tempo relativamente breve.
“Voglio che tu sia sincero, Sherlock” esclami, e la
tua voce è quella che usi
con i bambini che piangono, quella che è rassicurante e
autoritaria allo stesso
tempo, “ti dispiace davvero, essere l’uomo che
sei?”
Oh.
E’ di gran lunga una di quelle domande a cui non so
rispondere. Semplicemente, perché
nessuno me l’ha mai posta prima. Vorrei
dirti quel che vorresti sentire, ma dovrei mentire e io non voglio.
Cerco di
farlo il meno possibile, con te, per quanto a volte sia estremamente complicato.
“No” dico, ed è la verità
nuda e cruda, “non mi dispiace neanche un
po’.”
§
Non
dispiace nemmeno a me. In verità, sono felice come poche
volte lo sono stato.
Voglio chiederti ancora una cosa. Una domanda semplice, ovvia, scontata dopo quel che mi hai appena
confessato. Non sono nemmeno lontanamente così sicuro di me
stesso da poter
affermare di esser certo di quel che adesso dirai. So solo che lo
desidero disperatamente.
Anche questa volta, non ho alcun bisogno di porti la mia domanda a voce.
“E’ per te, che non voglio esserlo”
esclami. Sei in imbarazzo.
Dal canto mio, vorrei solo baciarti fino a perdere il respiro.
Potrei farlo. Potrei rischiare. Non cedo soltanto perché l’ultima cosa
che voglio è indurti ad aver timore
di me.
Non riesco a smettere di parlare, comunque. Continuo ancora, e ancora,
perché
fermarmi sarebbe come dirti che hai ragione, e tu non hai ragione,
nemmeno un
po’. Oggi, Sherlock Holmes ha preso un’enorme, colossale, cantonata.
“Sai” ti dico, con voce lieve, quasi cantilenante
“quando studiavo alla Barts,
donai una copia di questo libro alla Biblioteca
dell’Ospedale.”
La tua attenzione si desta. Le labbra si schiudono e io posso giurare,
qui,
davanti a un giudice e a Londra intera, che è la prima volta
che scorgo una
simile espressione sul tuo viso. Sembri sconvolto. Preso alla
sprovvista.
Sorpreso e sconcertato.
E’ l’ennesima sorpresa di questa serata.
Comunque, non parli. Mi lasci sulle spine e con la solita, usuale,
domanda in
sospeso nella testa.
-Stai fingendo?
Continuo. Fingo che tu mi abbia incoraggiato a farlo.
“Infilai una mia foto tra le pagine. Fu una cosa stupida in
verità. Ero più
giovane in quell’immagine, ma non ero cambiato poi molto,
fondamentalmente”
prendo un respiro e tu ti avvicini, “ma non fu per
egocentrismo. Lo feci per
uno scopo ben preciso, se vuoi saperlo.”
Non ti accorgi di aver stretto la mia mano nella tua, in un improvviso
capovolgimento delle parti. Io non te lo faccio notare
perché è meraviglioso e
non voglio, affatto, che il nostro contatto s’interrompa.
“Voglio saperlo” esclami, a voce così
bassa che lo sento appena.
Non ho motivo di non dirtelo, in fondo. Questa notte è fatta
per le cose
nascoste. Mi piace pensare che domani il mondo tornerà a
girare come di consueto,
senza che nessuno di noi due serbi ricordo di quel che sta
tutt’ora accadendo.
“Ho messo in quel libro quella foto sperando che qualcuno la
scoprisse”
sussurro anche io, improvvisamente dimentico di come si adoperi un
accettabile
tono di voce, “che qualcuno che avesse amato quel libro
quanto me, potesse
interessarsi alla vita di
quell’insignificante
ragazzo talmente tanto da provare a cercarlo.”
Tu ti allontani, all’improvviso, come se non riuscissi
più a tollerare una
simile vicinanza e una tale intimità
tra noi. Alzo le mani, mentre tu trovi sostegno contro la parete
più vicina,
poggiando la schiena e le mani contro la carta da parati bianca e nera.
Respiri a fatica, come se qualcuno ti avesse colpito al petto con un
pugno. Sei
sopraffatto, ma non posso in alcun modo, nonostante la mia indole mi
spinga a
correre in tuo soccorso, fermarmi
adesso.
“Sognavo che qualcuno come lui
mi
trovasse” esclamo, tormentando il cuscino della poltrona con
le unghie, “che
qualcuno che, al contrario mio, avesse avuto il coraggio di essere come
Holden
potesse anche soltanto considerare l’idea di innamorarsi di
uno come me.”
Tu rimani fermo lì, fisso, come una statua che se ne sta
diritta sul suo
piedistallo.
§
“Crederai
che io sia uno sciocco” dici, ma non credo che tu
lo sia. Non l’ho mai pensato nemmeno per un momento. Non per
quel che mi hai
appena confidato, almeno.
E’ più di quanto io possa sopportare, in
verità. Tutto mi sembra troppo,
eccessivo, diverso da come era appena mezz’ora fa, prima che
tutto questo
avesse inizio.
Fuori ha smesso di nevicare.
L’aria sembra troppo fredda, il fuoco troppo rosso, la mia
stanza troppo
lontana e tu troppo vicino.
E la cosa che mi spaventa, è che io voglio
che tu sia cosi vicino. Lo desiderio contro ogni coerenza e raziocinio.
E’ tutto diverso da come lo avevo immaginato. Non trovo mai
piacevole che le
situazioni esulino da come le avevo esattamente programmate nella mia
testa, ma
questa faccenda è un fuori
programma
del tutto inaspettato.
Non ho detto una parola, eppure tu ti avvicini lo stesso. Non chiedi
più il
permesso, come hai fatto finora. L’espressione sul tuo volto
è la stessa di
quella fotografia: sei felice, eppure preso alla sprovvista.
Allora, eri preoccupato che l’immagine sulla pellicola
potesse
non rendere giustizia a quel che eri in realtà. Adesso, sei
preoccupato che io
non riesca a comprendere chi sei ora.
Sei a un passo da me e mi porgi le tue mani. Io non muovo le mie dal
loro
rifugio contro il muro.
Tu però non demordi perché ottieni sempre quel
che vuoi, quando non si tratta
della cena, del fish and chips a notte fonda e del bucato. Il tuo
sguardo dice
che in fondo puoi fare a meno delle mie mani. E’ altro di cui
hai bisogno, anche se vorresti
intrecciare
le tue dita con le mie.
“Capisci, quindi?” tu mi dici, mentre mi accorgo
che fa così caldo che mi sento
soffocare. “Capisci che non vorrei mai
che tu fossi diverso da come sei?”
Sentirlo mi rende folle.
C’è
l’euforia di un caso da 9, l’eccitazione di una
fuga, l’adrenalina conseguente
a un colpo schivato. C’è una tale confusione di
emozioni, o presunte tali,
dentro di me, da farmi girare la testa. Quello che so, è che
mi piace. Mi piace
immensamente, come mai avrei creduto possibile.
Mi piaci tu. Mi sei sempre piaciuto e sempre mi piacerai.
“Sì” così rispondo,
perché d’improvviso non so più come si
faccia, a mentire,
“credo proprio di aver capito.”
E ripenso alla fotografia mentre tu sorridi e penso che non esista, no
davvero,
un’immagine di te che non amerei alla follia. Ripenso a quel
rettangolo di
carta lucida e ingiallita anche mentre mi baci.
E’ un bel bacio. Il migliore di tutti.
Prendo coraggio e ti sfioro una spalla, e tu fai lo stesso, come
fossimo
riflessi speculari e uno specchio si frapponesse tra noi. Il bacio
cambia, ed è
più profondo, e io ti assecondo perché respirare
è sempre noioso ma adesso,
mentre è la tua bocca a saziarsi del mio respiro, ne farei a
meno per sempre.
Mi piaci per come baci. Lo aggiungerò alla lista,
più tardi.
Quando rompiamo il bacio, una parte di me sembra morire. Il freddo
sovrasta il
calore, e per giunta il camino è spento. Fin quando posso
vederti però, va
tutto bene.
Mi guardi ed è meraviglia,
quella che
illumina i tuoi occhi. Non credo di essere mai stato meraviglioso per
nessuno.
Comunque, lo sei anche tu. Ho voglia di dirtelo, così cerco
le parole per farlo
al meglio.
“Mi piaci” è quello che vien fuori. Alla
fine te l’ho detto. Mi secca apparirti
come un adolescente cotto del suo compagno di banco.
A te però sembra piacere. Probabilmente perché
ami tutto quel che è spontaneo,
anche se a me sembra solo stupido, quel che ho appena detto.
“Mi piaci anche tu” mi rispondi, e io sorrido anche
se non dovrei, anche se
dovrei ancora essere infuriato con me stesso, “e credo anche
di essere irrimediabilmente innamorato
di te.”
Il mondo intorno a me pare frenare bruscamente, come se ci fosse
qualcuno a
manovrarlo e questo avesse inchiodato all’improvviso.
E’ qualcosa di totalmente
nuovo. Qualcosa che nessuno mi ha mai detto prima, perché
per quanto abbia
cercato, in giro nella mia testa, non ho trovato nulla che fosse anche
soltanto
comparabile a questo.
Voglio rispondergli. Vorrei, in
verità, ma non riesco.
Tu sembri comprendere la mia difficoltà. Tutto quello che
fai è baciarmi di
nuovo, a fior di labbra, un semplice sfiorarsi.
E’ bellissimo ugualmente.
“Non c’è bisogno che tu dica niente,
adesso” mi rassicuri, e io ti bacerei
ancora soltanto per questo, soltanto perché sai sempre
quello di cui ho
bisogno, “abbiamo tutto il tempo di questo mondo.”
Poi qualcosa scatta, nella mia testa. Una luce s’illumina e
io sorrido, contro
la tua spalla, perché mi hai stretto in un abbraccio. Forse
non avrò bisogno di
parole, per dirtelo.
La tengo sempre con me, quella fotografia. E’ nella tasca
della mia giacca ogni
giorno, da due anni a questa parte.
Prendo la tua mano nella mia e tu mi guardi, curioso, mentre ti lasci
guidare
fino ai miei fianchi, fino a sfiorare la fodera interna della tasca. Ci
vuole
un po’ affinché tu riesca a comprendere cosa sia,
quel pezzo di carta
sgualcito. Quando poi realizzi, è splendido guardare la
consapevolezza
illuminare i tuoi occhi, scivolando lungo la curva del naso e andando a
increspare le labbra, invitandole a piegarsi nel sorriso più
bello che abbia
mai visto.
La sfili dal suo rifugio di stoffa e con dolcezza la osservi, quasi non
riconoscendoti nel ragazzo lì ritratto. Sei tu, John. Sei
l’uomo che ho scelto ancor
prima di
conoscere.
La tieni stretta tra le mani, mentre torni a guardarmi, poggiando la
tua fronte
sulla mia.
Parlo di nuovo, e non dirò molto altro per questa sera.
“Ti basta?” ti chiedo, guardandoti negli occhi,
perché è lì che voglio leggere
la risposta prima di udirla dalla tua voce.
Non mi deludi. Non l’hai mai fatto, e non lo fai nemmeno
adesso.
“Mi basta” dici, e la tua voce trema ed
è bellissimo. “Basterà per sempre,
Sherlock.”
Ed è per questo, che tutto è iniziato.
Sono sicura, certa, che sia per
questo che quel libro non mi è mai piaciuto,
perché un giorno qualcuno potesse
piombare nella mia vita a dirmi che sbagliavo. Che poteva essere splendido, se interpretato con la giusta
chiave di lettura.
Credo sia anche soltanto per questo unico, fuggevole attimo, che io
abbia
vissuto la mia vita così come ho fatto, prima di conoscerti.
Perché tu mi
insegnassi a renderla migliore.
Degna.
Fuori, ha ripreso a nevicare.
*
¹
In originale: ‘The
Catcher in the Rye’. In
caso foste interessati a un esaustivo riassunto della trama, cliccate
pure qui.