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Autore: RuboLaVitaDentroDiMe    11/08/2014    1 recensioni
Mi hanno amato in tanti, ne ho amati ben pochi e ho fatto male a tutti, in un modo o nell'altro.
Li ho uccisi, Sconosciuto. Uno per uno.
E li ho seppelliti.
Ora posso contare solo su di te.
"Déterre-les."
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Déterre

 

 

 

Elicriso fu uno dei tanti ad amarmi e il primo che amai.
Ero solo un soffio di vita, e piccolo com'ero se alzavo un dito potevo toccare il cielo, in quel modo che gli adulti dimenticano sempre, mano a mano che si alzano verso le nuvole; ero solo un bambino e lui era vecchio fuori ed eterno dentro, ma mi amava da sempre, anche quando io non esistevo, anche quando ancora non gli era capitato di vedermi. Mi aspettava.
Seppi che era mio, solo mio, quando lo vidi per la prima volta, inginocchiato in uno sterminato campo di girasoli morti, con la testa rivolta verso l'alto e le labbra che si muovevo a sillabare parole mute.
Accarezzava con le sue dita nodose e tremanti le teste chine dei fiori e le alzava, perché potessero seguire il sole per l'ultima volta, ma poi si voltava e guardava a terra, lasciando loro l'intimità di un ultimo disperato bacio che sapeva di bruciato e addio.
Piangeva anche piano, quando ascoltava il rumore di labbra e saliva alle sue spalle, e senza dire davvero una sola parola raccontava ai passeri posati accanto ai suoi pantaloni sporchi di terra che glielo doveva, che tutti avevano il diritto di dire arrivederci almeno una volta. Loro stavano lì e ascoltavano, perché nessuno dovrebbe mai piangere da solo, e alla fine volarono via solo quando videro che la mia mano inesistente si posava sulla sua spalla e lui sussultava, piegando la testa di lato e poggiando i capelli bianchi sulle mie dita affilate come rasoi.
“Finalmente.” sussurrò e fu la prima volta che sentii davvero la sua voce.
Elicriso non parlava quasi mai: i suoi girasoli raramente avevano bisogno che raccontasse loro favole e ricordi, ma per me faceva un'eccezione, di tanto in tanto e io non glielo dissi nemmeno mentre dormiva e non poteva sentirmi, che non ne aveva bisogno. Ed era vero: suoi occhi e le sue mani sapevano parlare come niente altro al mondo.
Nonostante tutto, però, adoravo la sua voce, forse proprio perché era uno spettacolo così raro. Non sapevo mai quando l'avrei ascoltata di nuovo, perciò stavo lì e mi beavo di quel suono, scivoloso e gorgogliante, con gli occhi socchiusi e la bocca spalancata. Assolutamente ipnotizzato e adorante.
Era completamente imprevedibile: a volte mi guardava fisso con i suoi occhi appannati e io ero sicuro che da un momento all'altro avrebbe tossito qualcosa e invece mi sorrideva soltanto, accarezzandomi la guancia e poggiando le sue labbra sottili sulle mie; a volte era di spalle e rabbrividiva di freddo, poi continuava il suo silenzio per ore e poi semplicemente parlava. Per questo avevo la sensazione che a volte lo facesse anche quando io non c'ero, dando semplicemente per scontata la mia presenza, e mi faceva male pensare che potevo essermi perso qualcuno dei suoi pensieri vorticosi.
Eravamo seduti sul bordo di un ruscello, con i piedi a mollo, l'ultima volta che lo sentii parlare e lui prese fra le sue mani la mia sinistra, rigirandola, sfiorando la linea delle vene dei polsi con i polpastrelli e il filo delle unghie spezzate. Chissà per quale motivo quella volta capii che era il momento.
“Le seconde possibilità non esistono.” disse, e per un momento mi sembrò che quelle dita non fosse mie, che se le fosse prese e non me le avrebbe più ridate “Ognuno di noi è solo un achenio, perciò bada bene: quando hai lasciato il tuo unico seme da qualche parte è semplicemente finita.”
Immagino potesse sbagliare anche lui, di tanto in tanto.
Elicriso era anche l'unico che ascoltava i miei sospiri e riusciva a sopportarli davvero, forse perché era abituato a vivere con quelli degli alberi abbattuti e io sapevo che erano cento, mille volte peggiori, perché una volta ne avevo sentito uno – solo per sbaglio, solo per un istante – ed ero scappato via. Lui mi aveva lasciato andare.
Lo faceva sempre. Lasciarmi andare, intendo. Ma io non riuscivo a smettere di amarlo, nemmeno quando non mi inseguiva e io avevo un malato bisogno che lo facesse, forse perché sapevo che quello – rimanersene a guardarmi mentre me ne andavo da lui – era il suo modo di dire che amava me.
Elicriso di solito ascoltava i miei respiri senza dire niente e io l'ho sempre adorato, per questo, ma una volta – oh, lo ricordo fin troppo bene – infilò di nascosto, nella tasca dei miei jeans logori, un biglietto macchiato di terra e spiegazzato.
Infuso di fiori di caprifoglio: 3g in 100 ml di acqua.
Era vero, me lo aveva detto – o forse anche no, ma non saprei esserne sicuro – mentre sfiorava la sommità delle sue gemme, che il caprifoglio aveva proprietà bechiche. E in fondo, pensandoci un po', che altro poteva mai essere, la malinconia, se non un piccolo disturbo delle vie respiratorie?
Elicriso a dire il vero non viveva per me, anche se mi sarebbe piaciuto fin troppo: viveva per le sue piante e credevo che in mezzo al cemento sarebbe morto soffocato, ma di tanto in tanto mi prendeva la mano e muoveva un passo, uno solo, e poi aspettava che io lo portassi nel mio mondo. Ma io continuavo a preferirlo lì, circondato dal verde, a parlare senza dire nulla, mentre si aggrappava alle mie spalle, a dirmi in silenzio che si fidava di me.
Elicriso morì una mattina di metà Novembre, per colpa mia: non ricordo perché io avessi tanta fretta di portarlo via, mentre lui si tendeva verso l'alto per prendere i frutti dai rami più bassi dell'alloro, ma gli strinsi comunque la mano e lo tirai verso di me.
Tirai verso di me troppo forte, troppo velocemente, Elicriso riuscì solo a guardare tristemente il mio viso, con una sorta di abbandonata consapevolezza. Non riuscii a impedirgli di perdere l'equilibrio e muoversi senza alcuna delicatezza: le sue radici si strapparono, tutte, vennero via dal terreno con il suono di una lacerazione secca, la stessa che in quel momento esplodeva nel mio petto, ed Elicriso si accasciò a terra, ai miei piedi, senza vita.
Piansi da solo, quella volta. Niente passeri a fissarmi con sguardo di accusa, né pioppi a lacrimare polline per me.
Lo seppellii ai piedi di un salice piangente, nodoso come lo era stato lui in vita, piegato verso il vuoto di un declivio dolce, quasi compassionevole.
Il vento fra le foglie sembrava suonare un incerto e stonato Requiem, ma per qualche motivo riuscivo persino ad illudermi che fosse la sua voce.

 

Tape du pied.
Vas-y, vas-y, tape du pied.

 

Tarantella era... strana, immagino.
Non si capiva bene chi fosse, ad essere sinceri, né tanto meno cosa fosse.
Non era una donna, credevo, ma non era nemmeno un uomo. Non era una pianta, ma nemmeno sembrava un animale.
Non entrava nella definizione di niente che avessi conosciuto fino a quel momento e fu proprio per questo che mi abbandonai fra le sue braccia, quando la vidi cantare e ballare nella piazza del paese, circondato da una folla di gente.
Camminare era difficile per me, a quei tempi. Era difficile camminare, pensare, respirare, mangiare, dormire, ridere o qualsiasi altra cosa, con il ricordo di quelle cicatrici che sfregiavano il mio corpo.
Erano successe tante cose, io ero solo e Tarantella non sembrava in grado di fare male a nessuno, non prima che qualcuno avesse capito che nome dare alla sua specie, perlomeno.
Non era assolutamente in grado di stare ferma, o fermo. Passava tutto il suo tempo a saltellare in giro, fischiettando tra sé una melodia strana, che qualche volta sembrava Blue suede shoes di Elvis, ma che a volte somigliava più a quella canzoncina per bambini di cui tutti conoscono solo la strofa del cuculo.
La sua mano, o almeno quella che assomigliava ad una mano, stava bene dentro alla mia, soprattutto perché ci si incastrava perfettamente. Era più piccola, appena appena, e stringeva le mie dita come se avesse paura di far loro del male, anche se molto probabilmente sarei stato io, quello che aveva più probabilità di ferirla. O ferirlo.
Non lo vedevo molto spesso, ma quando incontravo la macchia rossa sfocata dei suoi vestiti non potevo fare a meno di espirare, sollevato, e sentirmi quasi... felice.
E Tarantella, quando mi vedeva, non mi lasciava allontanare nemmeno un secondo, costringendomi a seguirla – o seguirlo – per ore e ore.Non era semplice: per camminare al suo fianco bisognava essere dei ballerini provetti e io zoppicavo ancora un po', soprattutto quando mi intimava di contare i quattro quarti del jive, ma di fronte alla sua risata cristallina la cosa non aveva alcuna importanza.
Tarantella aveva un sorriso fagocitante. Davvero. Mangiava via tutto quanto, quando stirava le labbra e mostrava appena i denti. Tristezza, malinconia, stanchezza, allegria, soddisfazione.
Rimaneva solo lei, o lui, totalizzante e unica. O unico.
Io le piacevo, forse gli, ma era evidente. Mi preferiva a chiunque altro e adorava avermi intorno, così improvvisava sempre un girotondo di benvenuto, coinvolgendo passanti e sconosciuti, freddi avvocati e senzatetto polverosi.
Questo porcellino è andato al mercato
Questo porcellino a casa è restato
” canticchiava, mentre vorticava attorno a me e agitava le dita dei piedi che portava sempre nudi, forse perché vederli che roteavano all'aria aperta la rendeva – o lo – anche più ilare del solito.
Rideva sempre, Tarantella, e quando non rideva sorrideva, il che era quasi peggio. E a me facevano male le labbra, ma quando la vedevo farlo non potevo fare a meno di seguirla. O seguirlo.
“Non mi piace, la tristezza.” mi aveva confessato una volta, in uno dei rari momenti in cui riprendeva fiato “Non so, la tristezza è come una malattia, e io odio essere malato. Ma odio ancora di più vedere malati gli altri. Così sorrido sempre, o rido, perché le persone quando mi vedono ridere fanno lo stesso. E mi prendo la loro tristezza, perché io so cosa farne, perché so dimenticarla e trasformarla in maracas di risate. Ma lo odio. Li odio. La odio. È per questo che ti adoro, sai? Perché hai talmente tanta tristezza addosso che non riesco a strappartela via, ma tu sorridi comunque.”
Non ricordo tanto di lei o di lui; a dire il vero credo di non aver mai saputo tanto. Le stavo solo accanto, gli, ascoltandola – ascoltandolo – parlare ininterrottamente di cose senza senso che entravano da una narice e uscivano da sotto le unghie, senza troppo interesse.
Ma l'ho amata. Magari era un lui e io l'ho amato comunque o soprattutto.
Non più degli altri, forse un po' meno, e forse proprio per questo è stato così facile.
E lo era davvero. Facile.
Tarantella morì e non saprei nemmeno quando, perché successe tutto talmente in fretta che non ebbi il tempo di capire dov'ero, che ora fosse, magari il giorno, o quale il mese.
È che stava ridendo e avevo appena visto le lacrime scavalcargli la ringhiera degli occhi e scenderle lungo le guance e semplicemente lo dissi, senza nemmeno rendermene conto.
“Ti amo.”
Lei si fermò, si fermò lui, mi guardò, una, uno, entrambi.
Sorrisero.
Ed esplosero.
La seppellii, lo seppellii, seppellii quei pochi pezzi che riuscii a rimettere assieme dentro una scatola di latta che una volta conteneva il mio caffé in polvere. E la cosa divertente è che passavo un sacco di tempo a scuoterla, perché quello che ci avevo pigiato dentro tintinnava e assomigliava in modo quasi impressionante alla sua risata. E come avevo sempre fatto non potevo fare a meno di imitarla.
O imitarlo.
Non potevo fare a meno di imitarli e scoppiare a ridere.

 

Fais du bruit.
Vas-y, vas-y, fais du bruit.

 

Négreto Ipno arrivò quando mi ero svegliato una mattina e avevo deciso che non volevo addormentarmi più, che avevo troppo poco tempo per sprecarlo annodando le lenzuola e soffocando i cuscini.
Strisciò fuori da sotto il letto come tutti i mostri che si nascondono negli incubi delle persone, proprio mentre mi infilavo in un paio di calzini marrone scuro, sottili, già bucati all'altezza dell'unghia del pollice. Si trascinò accanto a me, forse per sbaglio, forse per incoscienza, e io decisi di impedirgli di andarsene.
C'era qualcosa di affascinante, nel modo in cui giaceva scomposto in mezzo alle lenzuola sfatte, addormentato, l'ombra delle ciocche bluastre sui suoi lineamenti disciolti nel sonno. Sembrava Arte, forse. Il suo petto si alzava e si abbassava senza un ritmo apparente, fatto di respiri che duravano notti intere e altri che implodevano in un secondo. Le sue costole erano macchiate di tutte le formule matematiche che io ci avevo scarabocchiato sopra per calcolare a quale velocità andassero quei polmoni, l'accelerazione dei suoi respiri, l'energia potenziale che l'avrebbe portato via da me. La sua pelle era sporca d'inchiostro e della mia bocca, dei segni dei miei denti attorno al suo ombelico, delle mie labbra sul suo collo, della mia lingua sulle sue gambe pallide.
Négreto Ipno apparteneva al mio letto e io, che avevo giurato di non addormentarmi mai più, ci passavo le mie giornate con lui. Sveglio. Alzato sui gomiti. A guardarlo mentre sonnecchiava, stremato, con il mio odore addosso e qualche traccia dei miei respiri fra i capelli.
Riuscivo a resistere poco, di solito, prima di doverlo tirare di nuovo verso di me, di sentirlo biascicare ancora con la bocca impastata di sogni e di entrare dentro di lui, per strappare via ogni pensiero in cui non compariva la mia ombra.
Négreto Ipno dormiva davvero troppo, tutto considerato, e qualche volta riuscii persino ad arrabbiarmi con lui, per questo: forse per gelosia, forse per egoismo, forse solo perché sapevo che lui aveva bisogno di me, in un certo senso, ma comunque meno di quanto io avessi bisogno di lui.
Però durante la notte di solito si svegliava e allungava una mano a cercare la mia; potevo vedere i suoi occhi che brillavano nel buio della stanza e sentivo il suo respiro irregolare troppo lontano dalla mia bocca. Era allora che capivo. Ancora adesso non sono certo di cosa io abbia capito per tutto quel tempo, ma so solo che aveva il sapore del possesso nudo e crudo.
Ipno si stringeva al mio corpo, come se in quel momento fossi l'unica cosa reale della sua esistenza, e io lo stringevo a mia volta, senza osare fare altro. Poi parlavamo, con urgenza, mangiandoci a vicenda le parole e le labbra, cercando di arrivare a conoscerci anche se forse non ci saremmo riusciti mai.
Lui mi sussurrava quanto mi amava e io lo stringevo più forte, perché avevo dimenticato come rispondergli, ma speravo che capisse comunque.
Di giorno possedevo il suo corpo e di notte la sua anima. Non avevo bisogno di tanto altro.
Lui aveva paura del sole.
Non l'aveva mai visto, diceva, era nato al buio di un materasso, per spaventare i bambini e portare alla dannazione gli amanti, e la luce gli aveva sempre negato il sorriso: aveva paura di cosa sarebbe successo se solo si fosse sporto dal balcone e avesse provato a parlare al cielo.
Perciò le finestre erano sempre chiuse, in casa nostra, e le tapparelle sempre abbassate.
“Scusami.” implorava, ogni volta che poteva.
A me non importava.
Io avevo paura di perderlo.
Non sarebbe mai successo, mi diceva, ma io lo avevo legato comunque alla testiera del letto. Le corde erano abbastanza lunghe per far sì che si potesse muovere per tutta la casa, ma non abbastanza da fargli oltrepassare la soglia dell'ingresso. Mi aveva guardato con sguardo tradito, quando l'avevo fatto, forse anche un po' ferito, e lo faceva anche tutte le volte che mi assicuravo che i nodi fossero troppo stretti perché lui potesse provare a scioglierli.
Io non gli ho mai chiesto scusa.
Certo, a volte lo vedevo, assalito dalla tristezza, rannicchiato sul divano, più lontano di quanto mi piacesse pensarlo, ma in quei momenti mi sedevo sempre accanto a lui, posandogli la mano tra i capelli scuri, e mi convincevo che bastasse.
“Com'è, lì fuori?” chiedeva ogni tanto, alzando il mento per fissarmi con i suoi occhi liquidi. “Brutto.” dicevo io “Tu non ci sei.”, ma lui non rispondeva mai e tornava ad incassare la testa fra le braccia.
A volte invece toccava a me, sentirmi male. Era una sensazione strana, come di vuoto, come se lui mi stesse succhiando via la vita, giorno dopo giorno, amplesso dopo amplesso.
Fumavo una sigaretta, fissando il mio riflesso distorto nel vetro delle finestre chiuse, e ringhiavo alle tapparelle abbassate, finché lui non tirava fuori dallo scaffale qualche libro che io non avevo mai avuto e lo leggeva con la sua voce tremendamente erotica e oscena da far male, o finché non mi abbracciava da dietro e poggiava il mento sulla mia spalla e si scusava per qualcosa che non aveva fatto, mi prendeva la sigaretta dalle dita e se la spegneva sul braccio, mi chiedeva di tornare in camera con lui e tutto ricominciava da capo.
Lo amavo tanto da avere la nausea. Lo amavo da volermene andare via, a volte. A volte lo amavo da voler rimanere a guardare il suo profilo per sempre, magari divorato dalle fiamme e dalle urla.
Non gli avevo mai permesso di infilarsi alcun indumento, da quella prima volta che era strisciato, nudo, accanto i miei piedi, e ancora mi piaceva osservare i suoi muscoli che si contraevano quando si sedeva sul tavolo a bere il suo caffé, le natiche nude contro il ripiano di formica.
Négreto Ipno morì al tramonto, un giorno di non so quando, perché da che era arrivato lui io avevo perso la cognizione del tempo e dello spazio.
Ero uscito, solo per poco, solo per prendere le sigarette.
Non avevo mai pensato che anche Ipno potesse amarmi tanto da voler andar via, o che volesse semplicemente vedere il mondo fuori, perché io non glielo avevo mai permesso.
Aveva aperto la finestra della nostra camera, per guardarmi mentre uscivo dal condominio e andavo verso la tabaccheria, per vedere com'era fuori dalla sua gabbia. Aveva approfittato della mia assenza anche per vestirsi, una sola volta, drappeggiandosi addosso il lenzuolo che avevamo sporcato neanche un'ora prima. Aveva affrontato la sua paura del sole per poter fare tutto quello che io gli avevo proibito.
Io non me n'ero accorto. Non mi ero accorto che stesse così male.
E Négreto Ipno era finito in cenere e carbone, avvolto dal cotone che odorava di sesso, per colpa di quel sole che aveva sempre temuto. Solo per avere uno scorcio di mondo.
E io non ero nemmeno mai riuscito a dirgli quanto lo amavo.
Lo seppellii, allora. Raccolsi le sue ceneri con il palmo della mano e ne feci un mucchietto sotto il mio cuscino. Poi ricominciai a dormire, sperando che almeno nel sonno io potessi sentire il suono dei suoi gemiti, dei suoi sospiri o anche solo il calore del suo corpo.

 

Comme tu veux.
Vas-y, vas-y, comme tu veux.

 

Di Léte non c'è molto da dire. Forse solo che è stata uno degli errori più grandi della mia vita.
Stava alla fine di un pontile, guardando il mare che sciabordava davanti a lei, e urlava, talmente forte che la sua voce arrivava fino alla riva.
La sentii, più che vederla, e per questo decisi di andare da lei.
Capii che l'avrei amata quando, seduto ad aspettare, vidi i suoi capelli biondi, quelli che lei stava quasi cercando di strapparsi via, e le sue guance rosse, a chiazze, come se nemmeno la sua rabbia riuscisse ad essere armoniosa. Magnificamente deforme, nella sua furia. Terrificante e grottesca.
Orribilmente bella.
Poi, così come urlava da sempre, smise in un nulla e si voltò a guardarmi.
“Chi sei?” mi chiese, ringhiando.
“Non lo so.” risposi, scrollando le spalle.
E bastò questo, a legare due anime da buttare via, la mia – rattoppata e debole, ormai sul punto di sfaldarsi – e la sua – stanca di tutta quella roba che lei chiamava (Dio, come suonava bene!) merda.
A quel punto ero io, ad essere vecchio, e lei quella giovane. Non capivo più da tanto tempo cosa spinge un'anima a combattere. Mi ero arreso ai moti rivoluzionari ellittici intorno al sole.
Léte riuscì a cancellare tutto quanto e a disegnare un nuovo me. Un me peggiore, deforme quanto lei, grottesco e così sfregiato da popolare i miei incubi peggiori. Ma mi diede nuova vita e di questo non posso che ringraziarla.
Era stata derubata, un tempo, capii mentre la seguivo senza che lei si voltasse a guardarmi. Qualcuno aveva scassinato la sua pancia e si era portato via tutto quanto: niente più fegato, pancreas, reni, intestino, utero, polmoni... cuore.
Léte aveva dovuto riempire quell'enorme vuoto e l'unica cosa abbastanza economica era stata l'odio.
Perché era quello che la teneva in piedi. L'odio.
Léte odiava quando il sole sorgeva ad Est, odiava il ticchettare degli orologi e anche quando il tempo scorreva muto, odiava le grucce appendiabiti vuote, ma lasciava sempre i suoi vestiti sparsi sul pavimento, e odiava quando erano stropicciati, e odiava doverli stirare. Odiava l'odore dell'erba appena tagliata e odiava vedere i prati soffocati dal cemento. Odiava Shakespeare perché scriveva in rima e rimproverava a Nabokov di non averlo fatto. Detestava indossare i pantaloni, ma non sopportava il modo in cui le gonne le svolazzavano attorno. Non le piacevano i capelli lunghi, ma quelli corti le facevano venire voglia di aprire una finestra e buttarsi giù.
Odiava andare in montagna, ma il mare le era insopportabile e la città, urlava sempre, era terribilmente soffocante.
Odiava quando qualcuno parlava a bassa voce e anche quando la gente gridava per farsi sentire.
Odiava i sorrisi, ma quando qualcuno piangeva correva fuori dalla stanza per non doverlo uccidere, e poi semplicemente schiaffeggiava i volti vuoti e apatici.
I dolci erano odiosi, come lo erano le escursioni nei boschi, tutto ciò che respirava era detestabile e inaccettabile se non lo faceva. Non riusciva a dormire senza coperte, ma neanche con. Le lenzuola neanche le metteva perché erano mostruose.
Odiava dipingere, scrivere e ascoltare musica. Odiava prendere l'auto, ma anche camminare.
Odiava i parenti, odiava la madre e la sorella, odiava i vicini di casa, odiava i compagni di lavoro, odiava il lavoro, odiava le vacanze e soprattutto i week-end. Odiava vivere e odiava l'idea di dover morire per forza.
Odiava il modo in cui mi scostavo i capelli dagli occhi. Odiava il colore delle mie iridi, anche se le mie almeno un colore lo avevano. Le sue no, e lei lo odiava. Odiava il rumore che facevo bevendo la minestra, odiava quando mi alzavo da tavola e la sedia grattava sul pavimento, odiava aspettare che io uscissi dal bagno e odiava quando lei veniva prima di me, a letto, cosa che succedeva sempre, o quasi.
Odiava me, in tutte le mie sfaccettature e gradazioni.
Io la amavo.
Di un amore contorto, malato, soffocante e forse sbagliato. La amavo come si amano i vetri dello specchio che hai appena rotto quando ti tagliano la mano. La amavo come si ama un temporale che imperversa contro di te. La amo come una barca affondata ama il mare.
Avevo imparato a dirglielo ringhiando, perché era capace di ascoltarmi solo così, e avevo imparato anche ad odiarla, perché era più semplice dargli un nome. Amore non suonava bene.
“Io ti odio perché per te non sento niente. Perché per colpa tua non riesco più a sentire niente, cazzo.” mi aveva detto una volta e io non avevo capito. Ma poi avevo smesso di fare l'idiota e mi ero messo ad ascoltare – il mio corpo, la mia testa, la mia vita – e allora tutto era diventato più chiaro.
Quando lei era nei paraggi tutto perdeva sensibilità.
Non esistevano più i colori, non sentivo alcun odore, né sapore, i rumori si disperdevano e il tatto suonava come un concetto vuoto nella mia mente.
E a quel punto avevo capito anche che era inevitabile, che non poteva andare diversamente: Léte mi distruggeva ogni giorno, nella misura in cui lei mi permetteva di distruggerla.
Io la mordevo forte, finché sentivo il sapore del suo sangue in bocca, lei mi graffiava le guance e mi pestava i piedi, finché le unghie non diventavano viola e cadevano giù. I suoi occhi erano sempre pesti e le mie costole perennemente incrinate.
Conoscevo le sue mani meglio di qualunque altra cosa al mondo, perché le avevo avute addosso per troppo tempo, e quelle poche volte in cui lei piangeva e mi afferrava piano per il polso, io non potevo fare a meno di sentirla un'estranea, almeno fino a quando non singhiozzava e mi lanciava il dorso contro la guancia.
“Eccola qui.” mi dicevo allora “Sei davvero tu.”
E noi continuavamo ad amarci e odiarci così. Senza sentire niente.
Léte morì il 13 Maggio, alle 18.35. E il suo ultimo respiro cavalcò i 45 e i 46 secondi.
Lo so perché l'ho uccisa io. Ho portato le dita attorno al suo collo e ho stretto. L'ho guardata mentre diventava rossa, poi bluastra, poi viola e poi basta. Ho visto i capillari scoppiarle negli occhi, l'ho mista mordersi la lingua gonfia, ho visto i suoi piedi calciare l'aria e le unghie affondare nelle mie mani. Ho sentito il suo intestino sciogliersi e il suo odio colare a terra.
E l'ho sentita cadere giù dalla mia vita.
La seppellii, ma non so dove. Mi ci feci portare da qualcuno, la lasciai nel buco nero di un pozzo vuoto, chiusa in un sacco per la spazzatura, e me andai con gli occhi chiusi, per non poter ritrovare la strada.
Volevo solo riuscire a dimenticarla. E così feci.

 

Abandonne.
Vas-y, vas-y, abandonne.

 

Poi sei arrivato tu, quando credevo che ormai fosse quasi ora di girare nuovamente la clessidra e cominciare tutto da capo.
Eri traslucido, quasi trasparente, e la vita pareva scorrerti dentro senza riuscire ad avvolgerti tra le sue spire. Correvi e attraversavi il ponte e giravi l'angolo e poi scomparivi fino al giorno seguente.
Ti osservai per mesi, fare solo quello: attraversare il ponte e sparire.
Nessuno sembrava guardarti come ti guardavo io, nessuno sembrava vederti e forse non c'eri nemmeno, forse eri solo il fantasma delle mie mille vite passate che mi mostrava quante persone se n'erano andate, lasciandomi solo.
Ti ho amato più di ogni altro, Sconosciuto. Probabilmente proprio perché non ti ho mai parlato, perché non ho mai avuto la possibilità di conoscerti, di farti marcire, di lasciare che affondassi le tue dita nelle mie viscere. Ti ho amato come si può amare l'infinita gamma di possibilità di un feto in formazione, di un amore in utero.
Ho lasciato in pace la tua fragilità, la tua esistenza così precaria, quel richiamo che dal Nulla ti arricciava i capelli. Ti ho lasciato vivere così, senza di me, sapendo che se mi fossi avvicinato tu un giorno saresti morto per colpa mia e io ti avrei dovuto seppellire.
E io avevo già pianto troppe persone, nella mia vita.
Ma alla fine mi sono arreso, quando ho capito che mancava poco. Ho deciso che ti volevo, anche solo per avere qualcuno che mi stringesse la mano mentre chiudevo gli occhi. Allora ti ho rincorso sulle mie ginocchia traballanti e ti ho sfiorato appena la mano con le mie dita artritiche.
Aspettavo la tua morte, aspettavo di doverti seppellire e avevo già deciso di farlo nella tasca del mio cappotto, per poterti portare sempre con me.
Ma il tuo corpo è svanito semplicemente nell'aria, Sconosciuto. È corso via assieme al vento. E io non sapevo il tuo nome. Non sapevo nemmeno se tu fossi esistito davvero.

 

Alla fine sono morto anche io, Sconosciuto.
Avevo solo bisogno di ricordare quello che era stato, ma le margherite mi deridevano tutte, quando tentavo di strapparle dal prato e spogliarle dei petali.
Ambarabaciccicoccò questo vecchio, chi l'amò? chiedevano sempre, cantilenando.
Così i miei ultimi minuti li ho passato rifugiato in un vecchio supermercato, a strappare uno dietro l'altro tutti i biglietti segna-coda, al banco affettati.
256. M'amava.
257. Ci siamo amati.
258. L'ho amato.
259. Mi odiava.
260. Lo amo ancora.

Mi hanno seppellito sotto quella montagna di bigliettini di persone che mi avevano regalato un pezzo di anima e cuore, che io ho calpestato o tenuto al sicuro dentro la credenza.
Ora posso contare solo su di te, Sconosciuto.
Perché non so chi sei, non so dove sei, non so se sei vivo o se ti hanno seppellito da qualche parte.
Ma ancora ti amo.
E ti aspetto.

 

 

Déterre.
Déterre-les.
Déterre-toi.
Déterre-moi.

  
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