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Autore: Kim_Pil_Suk    11/08/2014    0 recensioni
Dal primo capitolo:
Con gli anni avevo imparato che cambiare città era sempre faticoso. C'erano diversi motivi: il fuso orario da un paese all'altro, nuovi e vecchi amici, affetti, città, amori e chi più ne ha più ne metta.
Ma, comunque la si metta, cambiare città, casa, scuola e affetti è sempre difficile. E chi dice che questi spostamenti non portano mai cattive emozioni allora mente. Solo che alcune volte questi cambiamenti possono portare a qualcosa di bello.
Quell'anno ci eravamo trasferiti in Giappone, il paese natale di mio padre.
Quello era stato il cambiamento che più mi aveva sconvolta e devastata. Avevo abbandonato la città più affascinante che avessi visto e la persona che credevo avrei amato per tutta la vita.
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Quando feci il mio ingresso in classe si alzò una marea di borbottii e sussurri.
- Buongiorno. Mi chiamo Maggy. Ho 16 anni. Ho vissuto in Inghilterra prima di venire qua tre settimane fa. - dissi recitando a memoria la parte che mi ero preparata fino a notte.
- Come fai di cognome? - chiese qualcun altro mentre cercavo di calmarmi.
Ripresi fiato e risposi. - Mi chiamo Maggy. Maggy Kya Sohma.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Momiji Soma, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fruit Juice

Capitolo 1

 

Con gli anni avevo imparato che cambiare città era sempre faticoso. C'erano diversi motivi: il fuso orario da un paese all'altro, nuovi e vecchi amici, affetti, città, amori e chi più ne ha più ne metta.

Ma, comunque la si metta, cambiare città, casa, scuola e affetti è sempre difficile. E chi dice che questi spostamenti non portano mai cattive emozioni allora mente. Solo che alcune volte questi cambiamenti possono portare a qualcosa di bello.

Quell'anno ci eravamo trasferiti in Giappone, il paese natale di mio padre.

Quello era stato il cambiamento che più mi aveva sconvolta e devastata. Avevo abbandonato la città più affascinante che avessi visto e la persona che credevo avrei amato per tutta la vita. Ma, a causa del lavoro dei miei genitori, ogni protesta era stata inutile. Ci eravamo trasferiti, avevamo affittato una piccola villetta, ai margini di un boschetto, in una città di cui non mi interessava nemmeno il nome e mi ero iscritta ad una scuola superiore il cui nome mi sfuggiva.

Ci eravamo trasferiti verso la metà di Marzo, tre settimane prima dell'inizio della scuola. Avevo passato la prima settimana a dormire a ore indecenti a causa del fuso orario, e le altre due a piangere la perdita di tutto ciò che avevo lasciato indietro.

Avevo messo piede fuori casa sì e no una dozzina di volte per buttare la spazzatura, andare a comprare qualcosa quando avevo fame nel bel mezzo della notte o sotto costrizione di mia madre. Ma per la maggior parte del tempo rimanevo chiusa in casa, a leggere. Mia mamma pensava che stessi diventando depressa e da lì iniziò a fare convinzioni come “Ha il cancro, me lo sento!” o “E' afflitta da bullismo, me lo sento!” oppure “Mia figlia è malata, me lo sento!”. Insomma, si sentiva un sacco di cose. Invece mio padre, quando lei lo scosse a cena, mentre io guardavo il mio piatto con uno sguardo fra l'assente e l'assonnato, e gli disse “Guardala! Va avanti così da giorni!”, mio padre mi lanciò uno sguardo, sospirò e disse semplicemente “Sta soltanto passando una fase dell'adolescenza in cui ci si deprime anche per un unghia rotta... oppure è il fuso orario.” e se ne tornò al suo piatto di carne e verdure. Ma mia madre non cedette, mi portò da un dottore, dove io mi addormentai sulla barella mentre i due parlavano. Mia madre mi aveva creduta morta, in quanto difficile da risvegliare. Le dissi solo che nonostante i nostri continui viaggi non mi ero ancora abituata al fuso orario. E il dottore aveva convenuto con me che era solo a causa del fuso orario.

L'ultimo giorno di Marzo mia madre mi consegnò un blocco di fogli mentre, affondata nelle coperte, con un pacchetto di fazzoletti e un drama in pausa, la guardavo perplessa.

I fogli mi illustravano il programma scolastico, la mappa della città, i nomi dei vicini di tutto il quartiere – come se una cosa così mi interessasse in quel momento – e la strada per arrivare alla mia scuola.

- Pensavo che mi accompagnassi te in macchina a scuola! - le dissi aggrottando le sopracciglia mentre mi asciugavo le lacrime dalle guance.

- Infatti. Ma se non potessi accompagnarti a scuola dovrai imparare la strada. - disse lei sedendosi sulla sedia della scrivania.

Non le dissi niente. L'ultima cosa che volevo era che si mettesse a farmi la ramanzina su quanto fossi viziata a voler andare in macchina a scuola. Così riportai lo sguardo al blocco e lo sfogliai.

- What? - gridai scaraventando la coperta sul letto; ogni tanto mi scappavano parole nelle lingue dei posti in cui avevo vissuto e non sapevamo più che lingua parlare in casa. - I giapponesi sono pazzi? Come fanno a reggere certi orari di scuola, certe organizzazioni, questo stress! - dissi ancora più sconvolta mentre con agitazione sfogliavo il blocco alla ricerca di qualcosa che mi avrebbe salvato da quella scuola da inferno.

Mia madre, dalla sua postazione alla mia scrivania, sospirò. Si lasciò andare sulla poltrona e appoggiò i gomiti sulla scrivania.

- A quanto pare i ragazzi qua fanno sempre queste cose. L'istruzione qui è molto importante. - iniziò lei con voce stanca. - Molti di loro scelgono scuole più lontane per ciò che insegnano o per la fama. Ci sono scuole che ti preparano meglio all'università. - disse con un gesto distratto della mano. - Te non hai questo problema. Abbiamo scelto la scuola superiore più vicina ma con una buona fama.

- Con la fortuna che ho potrei anche non finire l'anno qui. - borbottai mentre raccoglievo la coperta scivolata a terra e mi ci rinfagottavo.

Mia mamma alzò la testa e mi guardò. Decise di ignorare la mia frase. - Sotto tua richiesta non ti abbiamo iscritto ad una scuola privata. Sappiamo quanto le odi. - aveva detto raddrizzando appena la schiena e sistemandosi il maglione rosa fatto dalla nonna.

La mia esperienza con le scuole private non era stata buona. Ero stata in due scuole private in due paesi diversi. In Canada e in Corea. E nessuna delle due si era rivelata essere il nido di storie di amore con fighi bastardi con un passato oscuro alle spalle, come vengono descritte spesso nelle fanfiction. Invece si erano rivelate essere per quello che erano: dei pollami. Pieni di galline e oche con una fabbrica di trucchi sul viso e delle borse firmate piccole come sacchetti per il congelatore, e pavoni pieni di se che più volte avevano provato a comprarmi con i soldi e che credevano di essere delle specie di Draco Malfoy asiatici o mori. Così avevo categoricamente vietato ai miei genitori di iscrivermi ad un'altra di quelle scuole, in quanto sono solo una perdita di tempo, soldi e pazienza. Li convinsi dicendo loro che avrebbero solo speso una barca di soldi, che potevano usare per altro, e un sacco di capelli quando sarei stata sospesa per aver picchiato un altro figlio di papà.

Proprio in quel momento, mentre io e mia mamma sospiravamo all'unisono, mio padre passò davanti alla porta della mia camera e si affacciò ricordandosi di qualcosa.

- Oh. Tesoro, hai dato a Mag quella cosa? - chiese a mia madre.

Li guardai sorpresi. - Quale cosa?

Mia madre scosse la testa e tirò fuori dalla tasca un piccolo libricino. Me lo lanciò sul letto e io mi stirai per raggiungerlo.

Lessi il titolo e poi guardai male i miei genitori. - “Learn Japanese in 30 days”? Are you joking, Dad? - gli chiesi sarcastica.

Lui scosse la testa. - No, non scherzo affatto. Nuova città, nuova lingua. Fra una settimana hai la scuola e devi almeno capire cosa dicono. - disse appoggiandosi allo stipite della porta. E quando stavo per rispondergli che probabilmente saremmo rimasti poco più di 6 mesi lui mi interruppe. - Probabilmente non ci trasferiremo più. Oppure dovremmo andare in un altra città senza superare il confine del Giappone.

Alzai gli occhi al cielo. Diceva così ogni volta e ogni volta infrangeva le mie speranze e eravamo a costretti a trasferirci in un'altra città. Ma sapevo che non era colpa sua ma bensì del suo lavoro.

Papà era un uomo alto, piazzato, con una faccia severa e le spalle larghe. Aveva gli occhi a mandorla e i capelli neri liscissimi, e la pelle di un colore simile a quello della maionese. Io non avevo ereditato nulla da lui, se non la bravura con i pc e la mancanza del senso dell'umorismo. Se passeggiavamo per strada non pensavano nemmeno lontanamente che fossimo figlia e padre. Io assomigliavo alla mamma. Ero magra e bassa come la mamma, invece che robusta come papà, avevo i capelli dello stesso colore dell'oro e lunghi. Avevo la pelle pallida come la porcellana e le labbra carnose e rosee, mentre mio padre le aveva sottili e chiare.

Mia madre era una bella donna e non mi stupiva che mio padre si fosse innamorato di lei.

Mio padre non era particolarmente bello e nemmeno spiritoso, ma era intelligente e dolce. Sapeva prendersi cura di noi e del lavoro senza trascurare niente.

Un'altra cosa che avevo ereditato da mio padre erano gli occhi. Avevo gli occhi dal taglio orientale come il suo e le iridi di un caldo colore cioccolato.

Così sembra che io mi vanti. Dico questo perché il papà lo diceva sempre alla mamma quando ero piccola. E mi diceva che io ero bella e uguale alla mamma. E questo mi aveva resa un po' egocentrica. Problema che poi è passato quando a New York, durante il periodo delle medie, avevo ricevuto diversi insulti in cui mi dicevano che ero grassa e brutta. Poi avevo scoperto che erano solo gelosi del fatto che io avessi i soldi e loro no, ma la mia avversione con i complimenti ( e gli autoapprezzamenti ) non era sparita. Avevo anche avuto problemi di anoressia, che ancora non erano spariti completamente.

Tornando a mio padre... lui lavorava in una compagnia. Era proprietario di una grande azienda di computer. Aveva fatto carriera verso i 25 anni, il più giovane di tutto il Giappone, e poi era diventato l'uomo di famiglia e imprenditore meraviglioso di adesso. Ma sembra che anche prima di diventare così famoso vivesse in una famiglia ricca e che non avesse problemi di soldi.

Io non conoscevo nessuno della sua famiglia. Ne i nonni ne gli zii, ma non ne avevo mai sentito la mancanza, visto che non avevano nemmeno provato a sapere come stavo. Però ero sempre stata curiosa sulla sua famiglia. Ma quando avevo provato a chiedergli qualcosa di loro lui aveva sviato dicendo che non erano importanti e che non dovevo preoccuparmi di loro.

Invece la mamma era una famosa stilista di una agenzia coreana che si era espansa in tutto il mondo. Aveva venduto un sacco e la maggior parte dei miei vestiti li aveva disegnati lei. Si occupava maggiormente di vestire idol. Spesso partiva per una settimana o più e tornava piena di regali e lavoro.

La sua famiglia la conoscevo molto bene. Una famiglia ordinaria. Dei nonni in pensione che mi chiamavano per le feste, uno zio single che lavorava come imprenditore immobiliare e una zia felicemente sposata che faceva la casalinga. Insomma, la classica famiglia da cui non ti aspetti nessuna sorpresa.

Mi concentrai di nuovo su quel piccolo manuale.

- L'ho comprato prima di partire per il Giappone. - disse mia mamma, ignorando la mia faccia disgustata. - Siccome sai l'inglese lo imparerai dall'inglese. Vedi te come organizzarti. - disse alzandosi dalla sedia con un sospiro. Si sistemò il maglione extra-large sopra la gonna bianca da ufficio e guardò papà. - Io vado a lavorare. Devo finire quei 40 modelli per domani. - disse uscendo dalla stanza.

Mio padre rimase sulla porta a guardarmi divertito.

- Perché devo imparare 'sta roba, Otosan? - dissi come per dimostrargli che sapevo le cose. - Le basi le so. Non ho bisogno di questa roba. - dissi sventolando il libro.

Lui rise e si sedette accanto a me sul letto. - Sai chiamarmi papà, ma sai chiedere “quanto fa 7 x 8” alla professoressa?

- Anzitutto a che mi serve chiederlo? Rischierei solo di passare per ignorante. - replicai, ma lui mi sfidò con lo sguardo. Sospirai. - Gyosu 7 x 8 eun eolma ibnikka? - dissi con nonchalance, poi mi fermai a pensare. - Ah, no! Quello è coreano, aish! - dissi con una smorfia.

Mio padre mi sorrise. - Bene. Vedi che hai bisogno del libro?

Lo presi, riluttante. - Ok. - sospirai.

Mio padre mi sorrise, scompigliandomi i capelli e poi guardò il mio schermo. - E' Boys Over Flower? - chiese sistemandosi accanto a me. Annuii mentre lui faceva ripartire la scena che avevo fermato. - Accidenti, odio la mamma di lui. - disse lui prima di ridere.

Scossi la testa, arrendendomi e sorrisi. Io e mio padre guardammo tutto l'episodio insieme e ridemmo tanto. Lo scoprii perfino ad asciugarsi gli occhi quando alla fine lei aveva pianto per lui. - Appa! Stai piangendo? - gli dissi mentre asciugavo le mie, di lacrime.

- No. - disse lui tirando su col naso. - E' il polline. Sai, la Primavera. - disse soffiandosi il naso.

Lanciai uno sguardo alla finestra, constatando che era chiusa e che era impossibile che il polline – al quale eravamo allergici entrambi – entrasse in camera. Ma lasciai perdere.

In queste settimane mi era sembrato così sotto stress e preoccupato che non volevo farlo arrabbiare. Ma non avevo capito cosa lo turbasse così tanto.

Finito l'episodio mi disse che appena lo avessero rifatto in tv, e io avessi imparato il giapponese, lo avremmo visto insieme.

 

Una settimana dopo, il giorno dell'inizio dell'anno nuovo, mi alzai presto.

Mi tolsi il libricino di giapponese dalla faccia, che avevo passato tutta la notte a studiare e lo lanciai contro la sveglia, che aveva smesso di suonare. Mia mamma era stata costretta a chiamarmi quattro volte, prima di tirarmi una cuscinata, per potermi svegliare.

Arrabbiata, assonnata e maledettamente infastidita ero andata a fare colazione, ero salita in macchina e in un arrabbiato silenzio avevamo raggiunto la scuola.

Mia madre si era girata verso di me e mi aveva sorriso. - Fai del tuo meglio! - disse dandomi un bacio sulla guancia. Le sorrisi, sempre assonnata, mentre osservavo i ragazzi che, curiosi, cercavano di guardare attraverso i vetri oscurati della macchina.

- Vado, prima che pensino che siamo la mafia. - le dico prendendo la cartella.

- La Yakuza. La mafia è italiana. Sei rimasta a qualche anno fa. - mi disse lei con una risata.

Io avevo scosso la testa e aperto lo sportello. Ma prima che potessi uscire mia mamma mi chiamò di nuovo. - Tesoro. - disse. - Tieni. - mi porse il mio libricino di giapponese che pensavo di aver dimenticato a casa.

- Grazie. Ci vediamo a pranzo, mom. - le dissi chiudendo la porta, mentre la vedevo aprire bocca per dire qualcosa. Troppo tardi.

Guardando la scuola da fuori la macchina mi venne un po' di nervoso.

- Mag, calma. Non è la prima volta che ti presenti a scuola. - dissi nervosa, in inglese, inspirando dal naso.

Alcuni studenti mi guardarono come se fossi pazza. Li guardai male e poi quando se ne andarono sospirai.

Entrai nella scuola, stringendo una bretella della cartella in una mano – a quanto pare avevo sbagliato cartella perché avevo preso quella che usavo prima di venire qui – e il libricino nell'altra. Seguii la folla, che si dirigeva verso una grande sala con un palco.

Rimasi seduta su una sedia di plastica per più di un ora e quando mi alzai sentii la circolazione ripartire nella zona dei glutei. E, mentre tiravo un sospiro soddisfatto e mi stiracchiavo in quel modo che i giapponesi probabilmente trovavano maleducato e poco femminile, mi incamminai fuori dalla sala, convinta che la riunione fosse finita.

Passeggiai per la scuola, venendo additata più volte per i capelli.

- Signorina! - gridò qualcuno dietro di me.

Mi voltai, curiosa di sapere chi era lo sfortunato teppistello che stava per finire nei guai. E mi accorsi che un signore basso e con pochi capelli si avvicinava a me. Ero io la sfortunata teppistella, alla fine.

Il signore si mise davanti a me e iniziò a parlare a raffica. Capii solo qualche parola, imparata dal libro. Intendiamoci, per me non era affatto difficile imparare una lingua e il giapponese non era niente in confronto al cinese, ma quel signore parlava così veloce, mangiandosi le parole. E non credo che le parole capelli, Yankee, teppista, matricole, senza permesso, avessero un senso.

Mi grattai il collo, sotto stress, senza sapere che dire. E su uno dei fogli del blocco c'era scritto che bisognava portare rispetto ai più grandi. E ricordandomi un altro consiglio del foglio mi inchinai in segno di scuse.

- Signor preside. Respiri. - fu la voce di qualcuno a salvarmi.

Quando guardai il preside vidi accanto a lui un ragazzo con i capelli scuri che gli diceva di calmarsi.

Tirai un sospiro di sollievo e guardai adorante il mio nuovo salvatore.

- Preside, se parla veloce non la capirà. - disse lui, calmo ma convincente.

Il preside riprese fiato e mi guardò. - Tu. Piccola teppista. - disse respirando di nuovo, come se avesse corso. - Non puoi usare quella cartella e devi cambiarti le scarpe agli armadietti. E sistemi quel colletto. E non puoi indossare una felpa così sopra alla divisa. - disse sventolando un fazzoletto che usava per tamponarsi la fronte verso la mia felpa da giocatore di football.

Lo guardai sconvolta, inconsapevole di star infrangendo così tante banali regole.

Feci una smorfia, cercando allo stesso tempo di non scordare qualche parola o movimento che dovevo usare. - Ehm... Sì. Certo. - dissi non molto convinta, con ancora quella smorfia preoccupata e confusa sulla faccia.

Il preside riprese a guardarmi male. - E non accettiamo i capelli tinti di biondo qua! - disse con veemenza.

Raddrizzai la schiena, aggrottando le sopracciglia. - I miei capelli non sono tinti! Sono bionda naturale. - dissi offesa. “E possibile che nessuno capisce che si dice non accettiamo i capelli stinti di biondo?”

Il preside mi guardò fra il confuso e l'arrabbiato.

- Sei straniera? - disse il ragazzo di prima.

- Yes! - dissi contenta. Mi portai una mano alla bocca, sorpresa che il mio inglese cercasse di tornare a galla, e annuii.

Il ragazzo mi sorrise e guardò il preside. Lui mi stava guardando stranito.

- Vengo dall'Inghilterra, signore. Sono la nuova studentessa. Sono sicura che mio padre l'ha chiamata prima dell'inizio della scuola. - dissi con un inchino. - E chiedo scusa per lo zaino, non sapevo funzionasse così. E vado subito a cambiarmi le scarpe.

- Ti accompagno io. - disse il ragazzo, indicandomi la strada sotto lo sguardo ancora perplesso del preside.

Annuii, in silenzio.

Lo seguii fino all'entrata della scuola. Mi spiegò come funzionavano gli armadietti delle scarpe e mi accompagnò fino al mio.

- Grazie per avermi accompagnata. - dissi mentre mi sfilavo le mie ballerine per sostituirle con quelle della scuola.

- Non c'è di che. - disse lui sorridendo appena. Mi guardò infilarmi le scarpe poi mi fece una domanda. - Sei una delle matricole?

- Matricole? - chiesi cercando di capire la parola. - Ah. Sì. Sono del primo anno, ma ho 16 anni. Dovrei essere in seconda, ma a quanto pare non lo sono. - dissi con una smorfia divertita. - Piacere, mi chiamo Maggy, ma per favore, chiamami Mag, o qualsiasi modo tu voglia. Ma non Maggy. - gli dissi porgendogli la mano.

Lui prima la guardò confuso, poi io la allontanai, ricordandomi che da loro ci si inchinava. Lo feci e poi sorrisi, imbarazzata.

Lui sorrise appena. - Io sono Yuki. - disse mentre iniziammo a camminare per la scuola. - Per qualsiasi cosa chiedi pure.

- Certo. Thanks! - dissi contenta di essermi fatta un nuovo amico già all'inizio.

- Allora, da quanto sei in Giappone?

- Tre settimane. Giorno più, giorno meno. - dissi vagamente.

- Però la parli proprio bene la nostra lingua. - disse lui, sorpreso.

- Questo perché ho studiato tanto grazie a questo libricino e io sono piuttosto allenata ad imparare in fretta le lingue. - dissi tirando fuori dalla tasca il libricino. - E perché mio padre è giapponese.

Yuki annuì, pensieroso. - Comunque complimenti, lo parli come se fossi una nativa.

- Gracias! - mi lasciai sfuggire. - Ops. Sarò anche brava ma ogni tanto mi scappano le lingue. - dissi imbarazzata.

Yuki mi sembrò divertito.

Mi salutò dicendo che doveva andare in classe e io mi diressi verso la sala insegnanti, per farmi accompagnare nella mia nuova classe. Consegnai un blocco di fogli, la mia pagella e tutto, ai professori, senza dire niente.

- Wow, che pagella! - esclamò la professoressa. - Questa qui è proprio brava! - disse alla sua collega, forse pensando che non la capissi. - Hai dei voti eccellenti. - disse lentamente come se fossi una demente.

- Grazie mille. Ho frequentato diverse scuole e ho dovuto cambiare spesso città per cui potrei metterci un po' ad imparare. Vi prego di avere pazienza con me. - dissi con un inchino.

- Certo. - disse lei meravigliata.

Mi accompagnò per la scuola, mostrandomela. Poi mi condusse verso la mia nuova aula. Tutti i corridoi erano uguali e sperai vivamente che non mi sarei persa.

- Aspetta qua fuori. Ti presento ai compagni e poi entri. - mi disse la professoressa.

Annuii e ingoiai un groppo. Entrò e mi annunciò, come aveva detto.

Quando feci il mio ingresso in classe si alzò una marea di borbottii e sussurri.

Guardala. E' bionda!

Ma sarà asiatica?

Sembra una modella!

Secondo me è rifatta!

Che carina!

Guarda come è magra e che bei capelli che ha! Vorrei tingermeli anche io così.

Secondo te da dove viene?

Spostai il peso da un piede all'altro, alterata dai diversi commenti e stressata da tutte quelle attenzioni.

Mi presentai. - Konbanwa! - mi bloccai, in imbarazzo. Avevo sbagliato anche il saluto!

Ci furono dei risolini per la stanza, che scemarono grazie alla professoressa.

- Buongiorno. - iniziai, inspirando aria e convincendomi che non era diverso dalle altra volte. - Mi chiamo Maggy, ma vi prego di chiamarmi Mag, o come volete. Ho 16 anni ma faccio la prima a causa dei diversi spostamenti della mia famiglia. Ho vissuto in Inghilterra prima di venire qua tre settimane fa. - dissi recitando a memoria la parte che mi ero preparata fino a notte fonda.

- Che lavoro fa tuo padre? E tua madre? - chiese una voce.

- E' il capo di un azienda di computer. Mia madre è una stilista.

- Hai viaggiato in altri paesi? - chiese un altra voce.

- Sì.

- Dove?

- Ho vissuto in America, in Cina, in Italia, in Spagna, in Corea e in Africa. Ho frequentato una scuola a Londra prima di venire qui. - dissi sentendomi un po' più a mio agio fra le domande che fra i commenti.

- Che lingua parlano in Africa? - chiese qualcuno.

- Sei giapponese? - chiese qualcun altro.

- Sono per metà inglese. Mio padre è giapponese. Ma non ho mai vissuto prima in Giappone. - dissi mentre nella mia mentre rispondevo “E gli africani parlano per la maggior parte l'inglese... non lo sanno?”.

- Wow! Cioè sei una mezzosangue e sei anche intelligente se hai imparato così in fretta il giapponese. - disse qualcuno.

Mi guardai attorno, nervosa. Non volevo che mi facessero i complimenti e non volevo che commentassero niente di me. Non si potevano limitare a fare domande?

- Come fai di cognome? - chiese qualcun altro mentre cercavo di calmarmi.

Ripresi fiato e risposi. - Mi chiamo Maggy. Maggy Kya Sohma. - dissi tutto d'un fiato.

In quel momento il brusio di voci si chetò lentamente e nessuno parlò, mentre mi fissavano sorpresi.

- Un altro di loro. - disse adorante una ragazza mentre mi guardava fra il sorpreso e l'ammirato.

 

 

Avevo passato la mattina a seguire le lezioni mentre notavo più di una volta qualcuno che mi fissava.

Non avevo chiesto il significato della frase Un altro di loro, e non avevo intenzione di attirare l'attenzione su di me più quanto i miei capelli non facessero.

All'ora di pranzo avevo fatto appena in tempo a infilare il libro in cartella che un gruppo di persone mi si era avvicinato. I miei compagni mi circondarono e iniziarono a parlare a raffica, senza che io ci capissi qualcosa.

Probabilmente dovevo avere una faccia spaventata o confusa perché qualcuno disse di parlare piano e di non starmi addosso.

- Come ti trovi in Giappone? - chiese una ragazza cercando di parlare lentamente.

- Bene. Per adesso non ho trovato niente di cattivo. Almeno voi avete i negozi aperti di notte e delle strade pulite. - risposi io, lentamente, sorridendo appena.

- Sei bionda naturale? - chiese un altra.

- Sì.

- Parli proprio bene il giapponese! Sembra che tu lo parli da sempre. - disse un ragazzo.

- Grazie. - dissi poco convinta.

- Sei anche molto bella! Come fai ad avere una pelle così chiara? - chiese una ragazza.

- Mia mamma mi ha fatta così... - dissi a bassavoce mentre cercavo di farmi piccola sulla mia sedia.

- Parli altre lingue?

- Sì.

- Quali?

- L'inglese, il coreano, il cinese, l'italiano, lo spagnolo, il francese e il tedesco. - dissi sistemandomi agitata sulla sedia.

- Wow! Allora sei proprio intelligente! - disse una ragazza mentre mi sorrideva.

Le sorrisi, nervosa.

Quando se ne andarono a pranzare ringraziai Dio per averli mandati prima che scoppiassi a piangere davanti a tutti e lo maledissi per non avermi fatto sapere che dovevo portarmi il pranzo da casa.

Uscii dall'aula con il portafoglio e il cellulare in tasca e feci il giro dei corridoi. Per ogni corridoio c'era un ragazzo che mi guardava o una ragazza che mi additava. Allungai il passo alla ricerca delle macchinette che avevo intravisto stamattina.

Le trovai dopo 15 minuti di giri a vuoto. Presi il portafoglio dalla tasca e scelsi del latte al cacao. Sempre con lo sguardo alle macchinette per vedere se mi andava da mangiare presi il telefono e composi il numero che conoscevo a memoria. Me lo portai all'orecchio e aspettai che rispondessero.

- Hello? - chiese la voce familiare della mia amica più cara che avevo lasciato a Londra.

- Hi, Yankee. - dissi ridendo appena.

- Mac Donald? Are you? - disse sorpresa facendomi ridere per il soprannome che mi aveva dato un anno fa.

- Yes, I am. How are you, darling? - risposi ridacchiando e appoggiandomi alla macchinetta, decisa a non mangiare

Dall'altra parte del telefono sentii dei gridolini e la mia migliore amica gridare “Mom, is Maggy! She is in Japan!”. Risi per la sua reazione.

- Come stai te piuttosto! - chiese lei sovreccitata, in inglese.

- Tutto bene. Sono in Giappone e sono la nuova arrivata della scuola. Qui mi guardano tutti come se fossi un mostro o qualcosa da mettere in vetrina. Mi avranno additata un miliardo di volte i capelli mentre venivo a prendere da bere alle macchinette e a quanto pare non sono permessi i capelli tinti a scuola. Che idiozia. Se vedessero Ian gli prenderebbe un infarto! Questi sciocchi giapponesi supereducati. - borbottai sicura che se anche fosse passato un giapponese non avrebbe capito niente di ciò che dicevo.

Lei rise alla mia allusione a Ian, suo fratello maggiore, che si tingeva i capelli dei colori più strani vantandosi di come lo additassero per strada.

- Mac Donald, perché non mi hai chiamata prima? - mi chiese con un tono di voce arrabbiato.

- Scusa, Annie, ma sono stata rintontita per due settimane e ancora adesso non capisco cosa ci faccio qui in Giappone. Non sai come mi rintontisce il fuso orario. - dissi incominciando a camminare per i corridoi, mentre mi fissavo le scarpe della scuola.

- Fa niente. Ma chiamami Annabeth, sai che odio il soprannome che mi dai sempre. - disse con finta offesa.

Risi. - Certo... Annie. - dissi prendendola in giro senza dare molta attenzione alla massa di persone che si aggiravano per i corridoi.

- Uffa! - sbuffò lei. Fece una pausa durante la quale io non smisi di sorridere. - Mi sei mancata, testa di cipolla. - disse lei con un tono di voce gentile.

E proprio mentre aprivo la bocca per risponderle sbattei contro qualcuno e caddi a terra.

Quando alzai lo sguardo mi accorsi di essere andata a sbattere contro una ragazza e entrambe eravamo cadute a terra. Accanto a me il latte era caduto tutto, rovesciandosi e quando guardai il cellulare lanciai un grido.

Il cellulare, nuovo di zecca e all'avanguardia, era per terra aperto come un kebab e riuscivo a vedere tutti i circuiti. Sospirai pensando “Ora Annabeth non saprà mai che mi manca anche lei.” mentre mi alzavo e guardavo il telefono nella mia mano, fra lo sconsolato e l'adirato.

- Ommiddio! Ti sei fatta male? - mi chiese una voce, velocemente.

La ragazza contro la quale avevo sbattuto mi guardava preoccupata.

La guardai perplessa, senza capire cosa avesse detto.

- What? - chiesi confusa. - Cosa hai detto? - chiesi di nuovo.

- Ti sei fatta male? - chiese, stavolta più lentamente.

- No. Tu?

- No, per fortuna. - rispose. Poi lanciò un grido. - Il tuo cellulare! E' rotto, mi dispiace! - disse preoccupata.

Guardai il mio cellulare poi lei. - Non è niente. Lo posso sempre ricomprare. - dissi stringendolo fra le mani.

- Sicura? - disse lei non molto convinta. Annuii cercando di sorriderle incoraggiante.

 

 

 

Un quarto d'ora dopo, poco prima che suonasse la campanella, io e quella ragazza eravamo per i corridoi a parlare. Si era scusata infinite volte e infinite volte le avevo detto che non faceva niente. Ma non mi ascoltava.

- Comunque piacere di conoscerti. Io mi chiamo Maggy. - dissi ricordandomi di inchinarmi.

- Piacere mio. Io sono Tohru, Honda Tohru. - disse lei sorridendomi. - Mi dispiace ancora per il tuo cellulare.

- Ti ho detto che non è niente, tranquilla. - le dissi calma.

Entrammo in un aula.

- Questa è la mia aula. Ti va di venire un po' con me? - mi chiese gentilmente. Annuii. - Hai mangiato?

- No. - dissi. Lei mi guardò attentamente poi sorrise.

- Hai fame? Potrei darti un po' del mio pranzo. - mi propose.

- No no, grazie. Non ho fame. - le dissi con un sorriso agitando le mani.

Mi guardai attorno in classe. Era identica alla mia. Pochi alunni erano rimasti dentro.

Poi notai un ragazzo, seduto ad un banco vicino alla finestra, che leggeva un libro. Era concentrato e non mi notò quando mi avvicinai a lui.

- Yuki? - chiesi attirando la sua attenzione. Alzò lo sguardo e mi guardò, sorpreso.

- Maggy? - mi sorrise. - Come mai qui?

- Sono qui con Tohru. - dissi indicando Tohru, che si stava avvicinando a noi. Lo guardò e ci salutò entrambi.

Yuki le sorrise e io spostai lo sguardo da uno all'altro. Sorrisi appena pensando chi c'era qualcosa e poi mi schiarii la gola.

- Tohru mi ha portata qui. Ci siamo incontrate-- o dovrei dire scontrate nel corridoio. - dissi stringendo la carcassa del mio cellulare in mano e infilandola in tasca.

Tohru ridacchiò e poi guardò Yuki. - Come mai vi conoscete?

- L'ho incontrata stamattina. Stava discutendo con il preside e penso si fosse persa. - disse Yuki.

Tohru guardò me per una conferma e io annuii sorridendole. - Sì. Il preside pensava fossi una teppista. E che avessi i capelli tinti. E in effetti sì, mi ero persa. Grazie ancora per questa mattina. Questa scuola è tutta uguale! - dissi con un gesto della mano.

I due sorrisero.

- A Londra, e in tutti gli altri posti in cui sono stata, almeno i corridoi sono differenti. - borbottai imbarazzata.

Tohru rise e mi guardò, perplessa. - Londra? Sei inglese?

Annuii. - Per metà. Papà è giapponese, però. Ci siamo trasferiti qua tre settimane fa da Londra. Ho dovuto imparare il giapponese piuttosto in fretta e spero di ambientarmi velocemente al vostro stile di vita. - dissi con un sospiro.

- Wow, brava! - si complimentò Tohru facendomi spostare il peso da un piede all'altro, nervosa. - Comunque ti sei ambientata davvero bene al nostro paese. - continuò.

- Non penso. - dissi con una smorfia. - A quanto pare non posso usare ne il mio zaino ne la mia giacca da giocatore di football. E se vado a giro per scuola gli studenti pensano che io sia una teppista ad andare a giro con i capelli biondi. Spero di non essere scambiata per una ribelle. - dissi sospirando. - E poi voi giapponesi siete così rispettosi. Vi inchinate sempre, vi date suffissi ai nomi, siete così calmi. Non ci sono affatto abituata.

I due mi sorrisero di nuovo. - Ti abituerai in fretta. - disse Yuki.

Proprio in quel momento la campanella suonò e alcuni ragazzi iniziarono a rientrare in classe.

Sospirai. - Io vado, sperando che non mi perda. Ci vediamo Yuki, Tohru. - dissi salutandoli con una mano.

Tohru rise. - Ti accompagno io. - si voltò verso Yuki. - Torno subito, Sohma. - disse allegra.

Io, che mi stavo dirigendo verso la porta, mi voltai, mi riavvicinai e lo guardai attentamente.

- Ti chiami Yuki Sohma? - gli chiesi aggrottando le sopracciglia. Lui annuì, perplesso. - Strano... - lui mi guardò con un espressione ancora più confusa.

- Come mai?

- Il mio nome completo è Maggy Kya Sohma. - mi guardò sorpreso. - Hai il mio stesso cognome.

 

 

 

 

 

 

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