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Autore: fireslight    14/08/2014    3 recensioni
{Fury!Centric, Hill!Centric| dramatic, angst| post-TheAvengers}
«Dov’è l’agente Hill?»
«Sotto i ferri, signore.»
Era stato come se una voragine gli avesse scavato il petto.
Come se il mondo intero − lui, lei, loro − gli fosse caduto miseramente addosso e lui non aveva potuto fare niente per fermarlo.
[..]
Fury si era alzato dalla panchina, le aveva teso una mano.
Maria aveva accettato quella mano una seconda volta, quando lui l’aveva scelta diversi anni prima all’Accademia, − quando l’aveva raccolta dalla strada, come un gatto indifeso, e l’aveva portata con sé. −
E si era fidata, si era sempre, sempre, fidata di lui.

{Nick Fury/Maria Hill♥}
Genere: Fluff, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Maria Hill, Nick Fury
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Di caffè, missioni pericolose e giardini newyorkesi.
 
 
 

S.H.I.E.L.D  Central,
New York City.
Ore: 10.35
 
 
C’era qualcosa, dopotutto, che Maria amava quasi quanto il suo lavoro allo SHIELD, sempre troppo presa da missioni su traffici illegali di armi, terroristi psicopatici e altre cose di cui fortunatamente, non doveva occuparsi.
Amava l’aroma di caffè, quella sostanza speziata che alla mattina prendeva neanche fosse una medicina, qualcosa che doveva tenerla in vita durante le prossime ore, qualcosa che le impedisse di concentrarsi su altro.
«Gradisce qualcosa, un caffè, magari?» Fury aveva alzato il volto in direzione del suo, in attesa di una risposta che potesse farle intuire su cosa, il direttore stesse lavorando con tanto accanimento ormai da diverse ore.
L’aveva fissata, - il suo unico occhio ad analizzare con rigorosa precisione i tratti del suo giovane viso, - ed aveva annuito, distratto, congedandola con un gesto della mano.
Si era sentita quasi offesa, Maria, del fatto che il direttore non le avesse mostrato più attenzione di quanta lei non ne avrebbe riservato al cadavere di un terrorista, appunto, - odiava, odiava, essere trattata così da lui – e come se non bastasse, odiava i terroristi. Non che, in fin dei conti, fosse abituata a chissà quale trattamento speciale da parte di Fury, anche se di fatto, odiava anche i trattamenti speciali, da chiunque essi provenissero.
Semplicemente, tutti quelli che avevano avuto l’ardire di provocarla, - offenderla, guardarla male, non faceva poi molta differenza – erano finiti congelati in qualche missione in Siberia.
Uscendo a passo di marcia dall’elegante ufficio di Fury, l’espressione determinata di chi non si fa mettere i piedi in faccia da nessuno, non si era accorta dell’impercettibile smorfia di approvazione, - sorriso, l’avrebbe più tardi definito – del direttore Fury al suo indirizzo.
 
Sapeva riconoscere i segni di una delusione, di qualcosa in grado di compromettere la fiducia dei suoi collaboratori più fidati, ma lei non era certo chiunque, o un qualsiasi collaboratore fidato.
Non si era mai domandato davvero perché preferisse che a passargli relazioni o documenti vari fosse lei, lei e nessun’altro; forse, semplicemente, perché andava bene così e perché probabilmente, - il condizionale era d’obbligo, in quelle situazioni – sapeva con certezza, di potersi fidare esclusivamente di lei.
Quei fascicoli relativi a reperti alieni ritrovati per caso dopo la battaglia di New York, stavano mettendo a serio repentaglio la sua sanità mentale e l’unico occhio buono che gli rimaneva.
Aveva richiuso con uno scatto la terza pagina di quell’infinita serie di congetture infondate, gettando uno sguardo distratto all’altro capo dell’enorme ufficio, accertandosi che lei fosse ancora lì, dietro quella scrivania in mogano cui teneva particolarmente, - segreto regalo per il suo compleanno – osservandola attentamente, mentre scriveva qualcosa al Pc, o rispondeva al telefono che squillava ogni dieci secondi, con un’aria professionale da far invidia a chiunque, - forse persino a lui -  rigirandosi con aria stanca una matita fra le dita sottili.
Come diavolo faceva, poi, a fare tutte quelle cose insieme?
Fra loro, - così lontani, eppure così sorprendentemente vicini, nonostante tutto – una tazza di caffè italiano.
 
 
 
 
 
 
 Constitution Avenue,
Washington D.C.
Ore: 11.42
 
 
Tre ore.
Tre sole, brevissime ore per raggiungerlo a Washington e lei era praticamente dall’altro capo del mondo.
Era abituata alle richieste lunatiche di Fury, naturalmente, ma perché tanta urgenza di raggiungerlo nella capitale?
Era sempre stata brava a capire le persone, i loro stati d’animo dal tono della voce, ben addestrata a qualsiasi cambiamento le si potesse presentare in missione o nella vita reale. Dopo diverse ore, l’aereo di linea per Washington era finalmente atterrato, lei era già in macchina diretta al Triskelion e andava tutto bene.
Questo finchè l’ennesima chiamata di Fury non le aveva fatto alzare gli occhi al cielo.
«Agente Hill.»
«Signore, va tutto bene?»
«Non andare al Triskelion.»
Aveva rapidamente frenato nel bel mezzo del traffico, svoltando poi in una stradina secondaria.
«Ma, signore..»
«Hai un posto sicuro dove andare?» Non erano molte, del resto, le volte in cui le dava del tu, anzi, ciò accadeva solamente nell’eventualità in cui fossero in pericolo.
«Ce l’ho, signore. Cosa sta succedendo, e perché quel graffio in viso?»
Naturalmente, il dispositivo di chiamata interattiva non le consentiva di vedere precisamente ciò che voleva vedere, ma era certa che fosse successo qualcosa, qualcosa di cui il direttore si ostinava a non volerle parlare.
«Va’ immediatamente in questo posto sicuro, non rispondere a nessuno e per nessuna ragione, intesi?»
«Solo se mi spiega cosa sta succedendo.» Non si era mai neppure immaginata che un giorno avrebbe disobbedito apertamente a un ordine, ma evidentemente, quel giorno era arrivato.
«Maria.. » Quando la chiamava per nome, − ed era assai raro che accadesse − poteva soltanto immaginare quanto fossero in mezzo a certi casini. «È complicato. Non è sicuro parlarne adesso. Dove sei?»
«Ero diretta al Triskelion, ma adesso non più. Sono ferma in una stradina secondaria, a nord della Indipendence Avenue. Signore, lei dove si trova?»
Dall’altro capo della comunicazione, intento ad iniettarsi l’ennesima siringa di antidolorifico per il polso, c’era silenzio. «Sto arrivando.»
 
 
 



 
Indipendence Avenue,
Washington D.C.
Ore: 11.47
 
 
Se c’era qualcosa che odiava dopo il cibo messicano, le auto sprovviste di GPS, la musica degli anni ’50, erano certamente le false pattuglie della polizia. L’aveva individuata facilmente, su un’anonima BMW appena uscita sul mercato che sicuramente, non avrebbe destato sospetti, certo, ma l’aveva trovata.
Quando era entrato in macchina, poggiando il capo al sedile passeggero, si era sentito al sicuro.
Di nuovo, come se non bastasse.
«Allora?» L’aveva osservata di sbieco, deducendo che fosse irrimediabilmente sospettosa del fatto che avesse chiuso la chiamata in quel modo brusco, − vagamente preoccupata, ma non ne era sicuro − e seriamente arrabbiata, in attesa che si degnasse di spiegargli perché fosse ridotto in quello stato pietoso.
«Ha per caso disinfettante e kit di pronto soccorso, nel posto sicuro di cui parlavamo prima?»
Maria non aveva neanche voltato il capo, concentrata a fare marcia indietro e a reinserirsi nel caos del traffico di metà mattinata.
Dopo aver guidato per quelli che aveva contato essere cinque minuti scarsi, si era fermata nei pressi di un altrettanto anonimo condominio di quattro piani. Ne osservava le aiuole piene di erbacce, la vernice scrostata dagli infissi all’entrata e il ragazzino che doveva fungere da portiere.
«Pensavo che il compenso per essere il mio braccio destro valesse di più che un vecchio appartamento all’ultimo piano.»
Lei non aveva risposto, concedendosi un sorriso che volle definire enigmatico.
Si era pentito dell’ultima frase detta poco dopo che era sceso con evidente difficoltà dall’auto, rifiutando più o meno gentilmente la possibilità di farsi aiutare da lei, e rimanendo piacevolmente sorpreso da quello che si era rivelato non essere esattamente un vecchio appartamento all’ultimo piano. Era una buona copertura, dopotutto, fingere di essere l’ennesima abitante tranquilla e indifferente di un quartiere poco in voga.
L’arredamento era moderno, essenziale, per niente in linea con ciò che aveva immaginato dall’esterno; i colori che potevano vantare precedenza su altri erano il bianco, il beige e il mogano dei mobili, vi erano libri sparsi ovunque, − testi capaci di conservare il proprio ordine, ad ogni modo −.
Le finestre erano ampie, gli ambienti luminosi.
«Cos’è successo?» gli aveva chiesto, posando sul tavolino del salone un kit di pronto soccorso. «Danni permanenti?»
Maria osservava il polso che teneva a contatto con il petto ormai da diversi secondi, finchè lui non aveva dovuto ammettere che era slogato, e lei aveva ribadito con cipiglio serio che era sicuramente rotto. Dopo averlo fasciato stretto, si erano seduti in cucina, davanti a due caffè.
Di nuovo, Nick si era trovato a constatare quanto quella situazione fosse surreale, per due come loro.
«L’ultimo caffè che ho bevuto non avrebbe mai potuto competere con questo.» aveva detto, ed entrambi sapevano bene, − Maria l’aveva fissato come se oltre al polso rotto, ci fosse una commozione celebrale − che si riferiva alla mattina precedente.
 
 
«Chi erano?»
«Non ne ho idea, ma non erano poliziotti.» Lei continuava ad osservarlo distrattamente, quasi non le importasse più di tanto.
Fury sapeva, che dietro quella maschera di apparente distrazione, i sensi della sua protetta erano avanti anni luce, impegnati a captare qualsiasi cosa potesse esserle utile per capire.
«Ero al Triskelion, prima, volevo dare un’occhiata a cosa ci fosse effettivamente nella chiavetta che la Romanoff aveva prelevato insieme alle informazioni sulla Lemurian Star
«E..?»
«I file erano criptati e non c’era modo di decriptarli.»
«Ma, signore, lei è l’unico che avrebbe potuto dare autorizzazioni in merito e gestire quei file.»
Fury aveva alzato lo sguardo dalla tazzina a motivi marini, fissando il suo unico occhio buono in quelli di lei.
«Non chiamarmi signore, quando siamo soli, mi fa sentire vecchio e dammi del tu, intesi?»
«D’accordo. Sei sicuro di non aver passato autorizzazioni ad altri?»
«Avrei potuto passarle a te, ma non l’ho fatto. Quindi, in teoria, non dovrebbe averle nessuno, ma evidentemente qualcosa non quadra. Stando a sentire il programma di decrittazione, sarei stato io stesso a negarmi ogni accesso a quei documenti..»
«.. il che significa che qualcuno, ai piani alti, non vuole che tu scopra cosa ci sia in quei file. Avranno cancellato il tuo riconoscimento vocale e oculare, in modo da farti apparire come una qualunque recluta incapace di decrittare qualcosa in mano a terzi.»
«Come puoi dire che quel qualcuno è ai piani alti?»
Fury l’aveva vista accigliarsi, come se lui stesso negasse di vedere l’evidenza di ciò che avevano intorno.
«È l’unica ipotesi. Cosa potrebbe saperne qualcuno di livello 7, di progetti segreti quali Insight o ciò che riguarda il tuo coinvolgimento a proposito della Lemurian Star
Come al solito, Maria sapeva stupirlo con ragionamenti che non facevano una piega. Aveva avuto ragione su tutto sin dall’inizio, aveva intravisto immediatamente il suo potenziale, come avrebbe potuto farsela sfuggire?
«L’altro giorno, a proposito del progetto Insight, ho chiesto a Pierce di sospendere tutto. Ho una sensazione, come del fatto che qualcun’altro possa usufruire in maniera sconsiderata di tutto ciò che quel progetto potrebbe significare.»
«Non potrebbe essere Alexander Pierce ad averti negato ogni accesso ai file sulla Lemurian Star
«Perché avrebbe dovuto farlo?» Dopotutto, anche se era restio ad ammetterlo a sé stesso, c’era qualcosa, ultimamente, che non gli tornava. Come il fatto che Pierce stesse facendo di tutto per informarlo poco e niente sulle riunioni del Consiglio, o sugli ipotetici passi in avanti di Insight.
Maria aveva incrociato le braccia sul tavolo, pensierosa.
«Perché non avrebbe dovuto farlo? Interessi personali? Possibile che stesse indagando sulla faccenda della Lemurian Star ancor prima che tu decidessi di assoldare quei mercenari?»
«Non avrebbe potuto saperne niente; mi sono premurato di cancellare ogni cosa, ogni cosa e sai che se decido di cancellare ogni cosa, ciò è definitivo.»
Adesso, c’era una traccia di rimprovero nel suo sguardo, come se si stesse riferendo al fatto che se avesse voluto, sarebbe potuto sparire nell’ombra come quelle informazioni e niente e nessuno sarebbe riuscito a trovarlo.
 
Era calato il silenzio, interrotto solo dall’acqua del lavandino in marmo e dal tintinnare delle tazzine bianche.
«Maria.» Si era voltata di poco, l’aria interrogativa di chi non capisce del tutto cosa potesse essere successo, ma che riesce comunque ad immaginarlo nitidamente.
«Cos’altro?»
«Ho dovuto prendere uno dei tunnel sotterranei per arrivare nel vicolo dove ti trovavi.»
«E per quale ragione, l’auto supertecnologica progettata con Stark non andava bene?»
Si era lasciata sfuggire un vago sorriso, interrotto dall’espressione seria di Fury.
«D’accordo, suppongo che questa vena ironica non sia adatta al tuo braccio destro.» aveva detto, quasi scusandosi. «Cosa ti ha impedito di usarla?»
«Me l’hanno distrutta, in effetti.»
«Inutilizzabile?»
«L’unica cosa utilizzabile era l’aria condizionata.»
Avevano sorriso entrambi.
Poi, lei aveva ripreso ad indagare. «L’hanno distrutta i falsi poliziotti, quindi.»
«Non del tutto, ma hanno dato una mano a chi ha cercato di farmi fuori.»
«C’era qualcun altro ad aspettarti.» Un’affermazione, di quelle capaci a mettere in allarme chiunque. «Chi era, Nick?»
Probabilmente non aveva fatto molto caso a ciò che aveva appena detto; quelle rare volte, quando si davano del tu, non erano mai arrivati ai nomi, o perlomeno lei non aveva voluto arrivarci. Fury aveva impiegato ben poco a comprendere quanto fosse giusto che parlassero come amici, non esclusivamente come capo e agente, o come due persone viventi in simbiosi con il proprio lavoro.
Peccato, comunque, che se ne fosse accorta dopo e che in seguito al suo silenzio, − silenzio che le aveva confermato di non aver sbagliato, a chiamarlo in quel modo − non era riuscita a trovare qualcosa da dire per rimediare al danno che sentiva di aver ipoteticamente fatto.
«Non l’avevo mai visto. Ma era veloce, forte, aveva una maschera sul viso e un braccio bionico.»
Maria si era fermata improvvisamente, fissandolo. «Maschera e braccio bionico.» aveva sussurrato, pensierosa. «Può essere soltanto..»
Fury aveva annuito. «Il soldato d’inverno.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
S.H.I.E.L.D Medical Center,
New York City.
Ore: 00.26
 
 
«Dov’è l’agente Hill?»
«Direttore!» La voce di Coulson l’aveva raggiunto con malcelato fastidio, facendogli alzare gli occhi − l’occhio − al soffitto asettico dell’immensa struttura ospedaliera qualche piano sotto gli uffici amministrativi. Giusto qualche metro sotto terra, per non rischiare fughe di batteri e cose varie.
Erano già diverse ore che era arrivato lì di tutta fretta, chiedendo ad ogni singolo essere umano che aveva avuto la fortuna, − o sfortuna, a seconda dei punti di vista − di incrociare in giro per i corridoi.
«Sono due ore che nessuno si degna di darmi notizie, Coulson, portamene una decente o puoi anche togliere il disturbo.» Il tono calmo, freddo, imperturbabile di chi tiene sotto controllo tutto e tutti.
«Abbiamo recuperato le due squadre in missione a Giakarta, abbiamo avuto qualche ferito, è vero, ma niente di..»
«Dov’è l’agente Hill?»
Coulson l’aveva fissato, il dispiacere malcelato di chi non vuol dare una brutta notizia. Fury gli si era avvicinato, squadrandolo attentamente, poi aveva ripetuto: «Dove si trova l’agente Hill?»
«Sotto i ferri, signore.»
Era stato come se una voragine gli avesse scavato il petto.
Come se il mondo intero − lui, lei, loro − gli fosse caduto miseramente addosso e lui non aveva potuto fare niente per fermarlo.
 
 
 
 
 



S.H.I.E.L.D Medical Center,
New York City.
Ore: 6.50
 
 
Guardava l’enorme stanza in cui l’avevano trasferita, praticamente sotto i suoi occhi, attraverso quel vetro nero dal quale poteva vedere ogni cosa, ma dal quale ogni cosa non avrebbe potuto vedere lui.
Non un medico, infermiere, anestesista, era uscito per quasi sette ore da quella sala operatoria, e lui non aveva distolto neanche per un istante la sua attenzione dal vetro nero, la visuale ben coperta dai camici immacolati dei chirurgi e Dio solo sapeva chi o cosa c’era lì dentro.
«Signore?» La voce di Coulson era sfocata, qualcosa che non aveva voglia di sentire. «Ci sono due agenti della mia squadra, lì dentro, andrà bene.»
In effetti, ricordava di avergli sentito dire che ci fossero due medici, qualcosa come Fitz e Simmons, ma non era sicuro fossero quelli, i nomi. Agenti della sua squadra, certo, ma chi gli dava la certezza che tutto sarebbe andato bene? Nessuno.
Non avrei mai dovuto consentirle di andare in missione.
Qualche minuto dopo, le porte della sala si era aperta e due delle trenta persone lì dentro, − non era sicuro neanche del fatto che fossero così tanti, ma tra neurologi, chirurgi più o meno specializzati in cose di cui non voleva conoscere l’esistenza, infermieri ed anestesisti, potevano essere benissimo più di trenta − erano uscite con una cartellina in mano, diretti nel punto dove aveva deciso di mettere radici − perfettamente davanti il vetro nero −.
«Fitz, Simmons, come sta?» Coulson appariva così fiducioso, così ottimista, che per una attimo ebbe la sensazione di mal di stomaco, ma l’aveva ricacciata indietro. Ascoltava distrattamente, dando l’impressione che non importasse poi tanto, ma sapeva bene, invece, quanto la sua stessa preoccupazione lo stesso logorando.
«Le condizioni di salute sembrano momentaneamente stabili, signore.» Jemma aveva guardato Leo, forse per ricevere conferma di ciò di cui stava parlando, forse per darsi coraggio di fronte l’apparente indifferenza del direttore Fury; Phil le aveva fatto cenno di continuare.
«Partendo dal capo, non abbiamo riscontrato alcun trauma cranico, o ferite di altro genere collegate al sistema nervoso, tranne naturalmente, diversi graffi sul viso.»
Non che questo lo avrebbe fatto sentire meglio, ma forse poteva essere un buon inizio.
«Altri traumi, danni a lungo termine?» Si era sorpreso nel constatare che quella voce era la sua, e che avesse parlato con un tono con il quale avrebbe potuto discorrere delle condizioni atmosferiche di quella mattina.
I due giovani agenti si erano scambiati un’occhiata, poi, la ragazza, − Jemma, o qualcosa di simile, non stava dando poi molta importanza ai nomi − aveva continuato ad elencargli le raggelanti meraviglie del bollettino medico.
«La spalla destra è lussata, mancava poco perché non si rompesse, il polso sinistro è fratturato, mentre il destro ha subito una lieve slogatura. Due proiettili le hanno preso di striscio il fianco destro, e ne abbiamo rimosso un altro dalla gamba, nello stesso lato del corpo. Cinque costole incrinate, tre rotte. Per sommi capi, quello più.. danneggiato, se così possiamo dire, è stato proprio il lato destro del corpo, esposto alla tempesta di proiettili, polveri e macerie varie derivate dall’esplosione. Per il resto, possiamo dire che la convalescenza potrebbe durare settimane, se pressione e battito cardiaco rimangono stabili, ma ad ogni modo, credo avrà bisogno di qualche dose di morfina, per alleviare almeno un po’ il dolore.»
Era seguito un silenzio raggelante, segnato solo dal respiro dei due medici e di Phil, sentiva gli sguardi degli agenti di Coulson pungere fastidiosamente sulla schiena, ma li aveva ignorati, preferendo rimanere a guardare la sala ormai quasi del tutto vuota, il corpo immobile della sua protetta coperto sino alle spalle da un telo bianco; per qualche istante, − il bip incessante dei macchinari era fastidioso quanto ripetuti colpi di cannone, gli aghi piantati nella pelle di Maria dolorosi come coltelli roventi sulla sua carne − Nick Fury aveva smesso di respirare.
 
 
 
 
 
 

S.H.I.E.L.D Medical Center,
New York City.
 
Tre settimane dopo,
Ore: 23.42
 
 
Al diavolo le procedure di sicurezza, i permessi da firmare, − essere il direttore della più importante agenzia spionistica del mondo doveva pure avere i suoi vantaggi, no? − aveva deciso di entrare nell’ennesima grande, immensa stanza dove l’aveva fatta trasferire.
Quelle tre settimane erano state un inferno.
Al centro amministrativo, il Consiglio scalpitava per capire cosa fosse successo alle due squadre in missione in Indonesia, − squadre tornate per lo più intatte, ma dettagli −; gli agenti di più alto livello fremevano per rendersi utili e far vedere che non stavano ventiquattr’ore su ventiquattro a rigirarsi i pollici e Coulson aveva deciso di mettere radici insieme a lui, − non che avesse chiesto a nessuno di fargli compagnia − appena fuori la stanza in questione.
Fitz e Simmons, − per pura gratitudine si era deciso a ricordarne i nomi − sostenevano fervidamente che l’agente Hill andava riprendendosi ogni giorno, che le condizioni erano stabili e tutte quelle altre stronzate che i medici dicevano ai parenti dei malati per renderli ottimisti e felici, in attesa che il malato in questione rimettesse entrambi i piedi in questo mondo.
«Va’ a vedere cosa combinano di sopra, Coulson. Non metto piede negli uffici da troppo tempo, non vorrei fossero diventati parchi divertimenti.»
«Precisamente tre settimane, signore. Mi accerterò che ogni cosa sia al suo posto.» Gli aveva rivolto un’occhiata severa, come a voler dire di non ricordargli di non essersi praticamente mosso di lì da quando Maria c’era entrata con un piede nella fossa.
Aveva meticolosamente controllato che non ci fossero medici o infermieri in giro, poi, silenziosamente, era entrato richiudendosi la porta alle spalle e abbassando con un colpo secco le persiane poste davanti l’ennesimo vetro oscurato dall’interno.
Le finestre erano poste a giro per le quattro pareti, le più avanzate tecnologie avrebbero fatto presumere uno splendido panorama di una città notturna, in quel momento, era impostato Rio de Janeiro sulla via del tramonto. Le pareti erano di un delicato azzurro pallido, il colore del cielo in inverno, quando a New York non pioveva, s’intende; si stava bene, comunque.
La osservava da lontano, quasi per paura di svegliarla, guardando come tutti gli aghi dalle braccia fossero spariti, e come certi graffi − un taglio sulla fronte, un altro, più piccolo, appena sotto lo zigomo sinistro − facessero ancora fatica a rimarginarsi.
Sembrava serena, e per il momento, tanto gli bastava.
 
 
La prima cosa che aveva visto, era stata Rio de Janeiro al tramonto.
Si era chiesta come fosse possibile che si trovasse in Brasile, quando tecnicamente, la missione che aveva concluso e dalla quale non avrebbe dovuto uscire viva, era in Indonesia.
Voltare il capo nella direzione opposta le aveva richiesto uno sforzo immane, oltre che dolore in ogni singola parte del corpo; si era accorta di avere entrambi i polsi fasciati, anzi, giusto per non farsi mancare nulla, sentiva di essere interamente fasciata di morbido tessuto bianco.
Aveva provato a chiamare qualcuno, ma la voce non le aveva abbandonato le corde vocali.
Da quando tempo si trovava lì?
«Una mummia.» aveva mormorato, la prima cosa che le era venuta in mente.
La voce le era uscita roca come il verso di una cornacchia.
Sperava che presto o tardi qualcuno sarebbe venuto ad accertarsi che fosse ancora viva, anche perché aveva urgentemente bisogno di bere qualcosa.
«Come, prego?»
Maria sapeva di essersi immaginata quella voce, del resto, probabilmente era frutto di qualche trauma cranico, poteva capire a chiunque. Dall’altro capo della stanza, − enorme, probabilmente grande quanto il salone di casa sua − il direttore Fury la osservava con cipiglio serio, un libro in mano.
Tutto ciò le era parso eccessivamente strano.
«Somiglio ad una mummia.» aveva replicato, andando con gli occhi alla ricerca di acqua potabile.
«Non mi chiedi..»
«Per quale ragione siamo in Brasile.»
«Anche quella sarebbe stata una domanda legittima.»
Dopo tanto tempo, non ricordava esattamente quando fosse stata l’ultima volta, aveva visto Nick Fury sorridere.
 
«C’è mancato poco, non è così?»
«Poco per cosa, esattamente?»
Aveva preso un bel respiro, questo dopo aver bevuto qualcosa come quattro litri d’acqua.
«Poco perché morissi.» Fury aveva alzato lo sguardo dal libro che stava facendo finta di leggere, guardandola attentamente, adesso seduta su quel letto che non l’aveva vista muoversi per diverse settimane.
«Se può consolarti, c’è mancato poco che alla notizia non avessi un crollo nervoso.»
«Lei, un crollo nervoso?» Scettica, l’espressione che assumeva quando qualcosa non le tornava.
«Certo, Hill. Altrimenti, con chi avrei potuto litigare ogni giorno per qualsiasi cosa ci fosse venuto in mente?»
Fury aveva distolto lo sguardo, porgendole l’ennesima bottiglia da due litri d’acqua.
«Qualcuno ne sarebbe stato felice, ne sono sicura.» aveva detto, abbastanza forte perché lui la sentisse. «Per la mia morte, dicevo. Avresti dovuto scegliere un nuovo vice, avrebbero festeggiato.»
L’aveva visto lanciarle una lunga occhiata ammonitrice, prima di vederlo avanzare verso il letto, fermandosi a pochi passi da lei.
Il gigante buono e la bambina che impara a fidarsi di lui.
«Non avrei scelto alcun vice, Maria. Ho smosso mari e monti per farti vivere.»
Quella volta, a sorridere silenziosamente, erano stati entrambi.
 
 
 
 
 
 
S.H.I.E.L.D Medical Center,
New York City.
 
Due settimane dopo,
Ore: 12.35
 
 
«Grazie.»
«Per cosa?»
«Per aver smosso mari e monti. Per avermi aiutata, ancora una volta.»
Si erano guardati, mentre varcavano gli ascensori per gli uffici governativi, sede del Consiglio.
«Non ho mai avuto rimpianti da quel giorno in cui ti scelsi all’Accademia.»
Lei aveva abbassato gli occhi azzurri, una traccia di sorriso in volto; l’aveva lasciata entrare per prima alla sede, sedendosi vicini, prima di rileggere i discorsi da affrontare con i vari capi di stato.
«Affrontiamo queste scimmie volanti, poi andiamo a mangiare qualcosa di commestibile.»
Maria lo aveva guardato nuovamente, inarcando un sopracciglio.
«Qualcosa di commestibile?»
«Ristorante italiano sulla 45esima.»
 
 
 
 
 
 
Central Park,
New York City.
Ore: 15. 07
 
 
L’aria era fredda, ma nonostante ciò, era quello che le serviva per estraniarsi completamente da quella che era stata una lunga guarigione. Certo, si sentiva ancora un po’ debole, le costole incrinate le toglievano frequentemente l’aria dai polmoni, ma pensando al fatto che sarebbe potuta morire, era un peso nullo da sopportare.
Central Park era gelido come il vento che soffiava dal Canada. Qualche minuto prima, le era addirittura sembrato di avere cristalli di ghiaccio fra le dita.
Gli alberi, senza foglie, sembravano mani scheletriche capaci di protendersi oltre le nuvole grigie di quel primo pomeriggio; era da tanto che non si concedeva una passeggiata lì, fra il bianco sporco della neve ammucchiata nel bordo dei sentieri e il tetro chiarore di un Sole pallido.
Voltando il capo verso l’ingresso della 79esima, aveva visto una sagoma scura, interamente vestita di nero, camminare nella sua direzione.
Maria aveva sfiorato di riflesso l’impugnatura della semiautomatica nella tasca del cappotto, giusto per essere pronta ad ogni evenienza. La settimana prima, dopo la riunione con il Consiglio, le facce di certi agenti di alto livello non sembravano entusiaste del suo ritorno in questo mondo.
Anche lui, l’aveva notato.
Così, aveva pensato che portare un’arma in giro, giusto per non farle prendere polvere a casa sua, non sarebbe poi stata una cattiva idea.
Intanto, la sagoma vestita di nero si era avvicinata sempre di più.
Senza che avesse potuto impedirselo, non era riuscita a soffocare l’istinto di sorridere, anche se impercettibilmente.
«Come vanno le costole?»
Il direttore Fury si era seduto con nonchalance sulla sua stessa panchina, osservando distrattamente intorno come se ciò che vedesse non fosse di suo totale gradimento.
«Meglio.»
Lui si era voltato per osservarla, l’espressione profondamente scettica di chi sa di avere davanti una bugia bella e buona. «Immagino.» aveva mormorato, facendola sorridere quasi d’istinto.
«Come vanno le cose alla Centrale?»
«Mh, non posso lamentarmi. C’è un tizio di cinquant’anni che non fa altro che passarmi sulla scrivania volantini pubblicitari di agenzie di viaggio orientali.»
Maria aveva sorriso, trattenendosi dal ridere di gusto.
«Ma davvero?»
«È profondamente irritante.»
«Suppongo di dover tornare il prima possibile, allora.» Era seguito un momento di silenzio, con l’unico rumore delle foglie secche smosse dal vento freddo.
«Credevo avresti preso le distanze per un po’. Pensavo avessi deciso di tornare in Italia.» Il tono del direttore era curioso, come se non si fosse davvero aspettato di vederla a Central Park in quel freddo pomeriggio di Gennaio.
«È quello che ho detto ufficialmente. Volevo godermi New York, invece.» Maria osservava il cielo plumbeo, le nuvole che sembravano dover scaricare una violenta ondata di pioggia. «Non ho passato esattamente giorni piacevoli, fino alla scorsa settimana.»
Ancora silenzio.
«E poi, non ho niente a cui tornare in Italia.»
Fury l’aveva guardata a lungo, come se non potesse crederle davvero. «Hai una famiglia.»
L’aveva vista fare una smorfia sarcastica, stringendosi poi nel calore del cappotto nero. «No. La mia famiglia è lo SHIELD.»
Devozione, totale e incondizionata devozione al proprio lavoro. Come lui, del resto.
Si era chiesto, in un lampo di amara consapevolezza, se non l’avesse forgiata con troppa severità.
«Hai una famiglia, invece.» aveva ripetuto, fissando uno dei ponti in ferro battuto del parco.
«I miei genitori sono morti un paio di anni fa’. Non ho davvero nulla oltre lo SHIELD, Nick.»
«Hai dei colleghi che ti stimano, invece.»
Maria aveva riso in maniera amara, come se quella fosse una divertente messa in scena.
«Chi? La Romanoff, la Hand, Sitwell
«Coulson, Rogers, Stark in fondo, − molto in fondo − pensa che tu abbia ottime capacità di sopportazione, la Romanoff ti trova simpatica.»
Lei non aveva risposto, scrollando leggermente le spalle minute.
«Me.» nonostante gli fosse costato non poco, era finalmente riuscito ad ammetterlo.
Maria si era voltata quasi di scatto, fissandolo a lungo, poi distogliendo lo sguardo.
«Puoi forse negare di riuscirmi a sopportare meno di chiunque altro?»
Sorrideva, adesso, come se trovasse tutto ciò divertente ed in parte, lo era.
«Suppongo di no.»
«Fantastico.»
Fury si era alzato dalla panchina, le aveva teso una mano.
«Caffè?» Maria non aveva potuto non pensare a quanto quella scena potesse apparirle surreale, come se stesse vedendo un film da lontano, i contorni decisamente sfuocati.
Aveva accettato quella mano una seconda volta, dopo che lui l’aveva scelta diversi anni prima all’Accademia, quando era ancora una ragazza, − praticamente una bambina in quel mondo fatto di spie e segreti − quando ancora non sapeva con cosa, in futuro, avrebbe dovuto misurarsi.
Quando lui l’aveva raccolta dalla strada, come un gatto indifeso, e l’aveva portata con sé.
E lei si era fidata, si era sempre, sempre, fidata di lui.
«Caffè.» aveva annuito, sorridendogli, in qualche modo riconoscente, dopo tutto ciò che avevano passato − e che ancora avrebbero passato − insieme.








Note dell'autrice.
Sono al primissimo debutto in questo fandom, nonostante ne faccia parte da tempo e finalmente, ho deciso di scrivere qualcosa su una delle mie tante OTP. Che dire, shippavo Fury e Hill sin da Iron Man 2, quindi mi sembrava giusto scrivere qualcosa in proposito.
Spero che questa piccola follia possa piacere a qualcuno (?) e niente, probabilmente tornerò ancora (certo che tornerò ancora) per scrivere qualcosina su Tony/Pepper, o Clint/Natasha, o su qualsiasi cosa possa nascere dalla mia mente contorta.
Lasciatemi un pensiero, una parola, anche cattiva, bella o brutta che sia per migliorare ancora, o anche solo per prendermi a parole (scherzo, ma le critiche costruttive sono sempre bene accette.) 
A presto, 
fireslight. 

PS: I più malati di Marvel (come la me in questione) troveranno riferimenti a TheAvengers e CaptainAmerica: TheWinterSoldier.

 
  
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