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Autore: Macbeth nella Nebbia    15/08/2014    0 recensioni
“Buongiorno, ragazzo.”
Mi sedetti nel tavolino di fianco al suo. Lo guardai, cercando di carpire qualche cosa nella sua postura o nei suoi gesti.
Ma io non sapevo nemmeno da cosa cominciare. Allora lo salutai di rimando, aspettando il mio caffè.
“Scommetto che ha ripensato alla frase che le ho detto ieri.”
“Devo ammettere, che mi hanno spaventato le sue parole.”
“Il suo caffè, signore.”
“La ringrazio.” dissi porgendo al cameriere alcune monete di mancia.
“Vuole che le racconti la mia storia?”
“Io non intendevo -”
“La sua curiosità è talmente forte che trapela dai suoi occhi, colpisce la mia mente. Lasci che le racconti.”
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa one-shot partecipa al contest Scatti di Vita indetto dal gruppo facebook “I concorsi di Marlene e Ned.”

 


 
L'uomo del Cafè Sant'Eulalia.










“Non l’avete mai notato quell’uomo?”
“Chi Martìn?”
“Quel signore con il bicchiere di vino e il cane con il pelo scuro legato alla sedia...”
“E’ un signore che non ha nulla da fare, non te ne curare Martìn! Bevi il tuo bicchiere di vino, siamo qui per festeggiare la fine dell’anno di università!”
Certo, la fine dell’anno universitario.
Proprio non riuscivo a rendermene conto. Chi avevo attorno? Amici? Compagni? Estranei?
Quell’uomo mi affascinava e mi inquietava allo stesso momento.
Seduto, con le gambe aperte e le mani al centro di esse, congiunte come se fosse assorto in una preghiera.
La sigaretta che ciondolava dalle labbra, il bicchiere di vino rosso poggiato sul tavolino di fronte e infine quello sguardo. Perso.
Il cane, il migliore amico e compagno dell’uomo, rimaneva sempre sdraiato a terra, con la lingua a penzoloni. Gli occhi erano coperti dal pelo, non li potevi vedere, ma secondo me, trasmettevano la stessa tristezza, la stessa anima perduta del padrone.
“Martìn dai! Sempre il solito con la testa fra le nuvole! Vieni che andiamo al Port Vell!” mi gridò a pochi metri di distanza Jordi, con due bottiglie di vino tra le mani e tutti gli altri della combriccola appresso.
Il signore si girò a guardarlo, lui si era già incamminato.
Volsi lo sguardo all’anziano seduto dietro di me. Mi sorrise in modo triste.
“Goditi questa giovinezza, ragazzo. C’è chi ha fatto il patto con il diavolo per riaverla.”


Andammo al Port Vell, bevemmo vi negre1, ci furono risate, forse fin troppe.
Non riuscivo a togliermi dalla mente quell’uomo e quella sua frase.
“C’è chi ha fatto il patto con il diavolo per riaverla.”
Decisi dopo circa un’ora, di salutare i miei compagni di corso e di tornarmene al mio piccolo appartamento nel quartiere di El Raval.
E’ uno dei quartieri più in voga tra gli universitari perché le camere o gli appartamenti costano poco, ci sono bar, case di piacere, ristoranti che offrono pasti a prezzi da far ridere, botteghe che vendono facilmente alcolici di ogni tipo.
Tutto il necessario per la vita di uno studente.
“Martìn, ci vediamo agli esami!”
Mimai un saluto con la mano alla fronte. “Questo è poco ma sicuro!” gridai per poi immettermi sul marciapiede prima di attraversare davanti al Monument a Colom2.
“Hei, Martìn. Martìn aspetta! Aspettami!”
“Beatriu, che fai?”
“Vado anche io a casa.”
“Ma se eri la prima a voler rimanere fino all’alba qui al Port Vell!”
“Devo chiederti una cosa.”
Beatriu la possiamo considerare come un’amica, confidente, sincera compagna di studio, anche di alcune bevute, nulla di più.
“Perché sei così attratto dall’uomo che sta sempre seduto al Cafè Sant’Eulalia?”
Guardai il Cristoforo Colombo del monumento, là in alto, sognatore, che indica l’orizzonte ormai scuro e confuso.
“Non lo so Bea, è un’anima in pena quell’uomo.”
“Ma cosa ne puoi tu della sua solitudine?”
“Ha un cane, non è solo.”
Beatriu mi guardò, sorridendo come sempre sincera. Ci fermammo ad un piccolo pub ancora aperto sulla Rambla, poco prima dell’inizio del quartiere di El Raval.
Decidemmo di sederci all’interno, in un tavolino contro il muro. Io ordinai un Whiskey con ghiaccio mentre lei decise di prendere un Gin Tonic.
“Mi affascina e mi inquieta allo stesso tempo quell’uomo. Oggi, mentre voi vi stavate incamminando per andare al Port Vell, mi ha detto queste parole “goditi questa giovinezza, c’è chi ha fatto un patto con il diavolo per riaverla.” e mi sono sentito, te lo giuro, i brividi scendere lungo la schiena.”
“Martìn, l’avrà semplicemente detto per farti andare via e così evitare di sentirsi costantemente osservato da te.”
“Sarà. Ma io sono curioso, lo sai bene Bea.”
“Lo so, lo so.” disse Beatriu scolandosi il mezzo bicchiere di Gin Tonic che le era rimasto.
“Non cacciarti nei guai. Solo questo.” mi disse alzandosi e lasciandomi un bacio sulla fronte.
“Offro io Martìn. A patto che tu mi suggerisca qualcosa al prossimo esame!”
Non ebbi il tempo di ribattere, era già scomparsa tra le altre persone del pub.
Sorrisi amaramente, finendo il mio Whiskey, con il ghiaccio ormai sciolto. Strizzai gli occhi per il forte impatto dell’alcol.
Quando uscii dal pub, andai nel mio piccolo appartamento. Tolsi la giacca da completo marrone, slegai la cravatta bordeaux, cominciai a sbottonare la camicia ma subito mi fermai per mettere nel giradischi un 45 giri di musica Jazz.
Presi un bicchiere, ci misi due cubetti di ghiaccio e mi feci un secondo Whiskey. Nella più completa solitudine del mio appartamento.

Mancava una settimana ad uno degli ultimi esami che bisognava tenere all’università per concludere l’anno.
Decisi di dedicarmi allo studio, ma non avevo altro in testa se non quell’anziano del caffè.
Mi misi una camicia e un paio di pantaloni, pensando che un buon caffè, alle dieci del mattino, sarebbe stato un buon carburante.
Camminai per le vie di Barcellona, per poi entrare nella Ciutat Vella e così dirigermi a Plaça de la Mercé, vicino a Passeig de Colom, proprio attaccato al Port Vell dove ero esattamente ieri nel tardo pomeriggio.
Entrai nel bar dalla porta laterale e chiesi un caffè da portare al tavolino fuori.
Uscii da quella centrale ed eccolo lì. Lui era seduto con le gambe divaricate, i gomiti poggiati sulle ginocchia. Con il cane legato alla sedia, aveva poggiato al tavolino l’immancabile bicchiere di vino rosso.
“Buongiorno, ragazzo.”
Mi sedetti nel tavolino di fianco al suo. Lo guardai, cercando di carpire qualche cosa nella sua postura o nei suoi gesti.
Ma io non sapevo nemmeno da cosa cominciare. Allora lo salutai di rimando, aspettando il mio caffè.
“Scommetto che ha ripensato alla frase che le ho detto ieri.”
“Devo ammettere, che mi hanno spaventato le sue parole.”
“Il suo caffè, signore.”
“La ringrazio.”
dissi porgendo al cameriere alcune monete di mancia.
“Vuole che le racconti la mia storia?”
“Io non intendevo -”
“La sua curiosità è talmente forte che trapela dai suoi occhi, colpisce la mia mente. Lasci che le racconti.”


Non era facile vivere senza di lei.
E’ stato il tifo a portarla via dalle mie braccia.
Caterina, la mia fidanzata, mia moglie, compagna di ogni mia avventura.
Facevo lo scrittore, ma lo facevo in Italia, a Torino. La conobbi in Piazza San Carlo. Lei era un’artista di strada. Dipingeva. Ritratti delle persone che le passavano vicino, curiosi di vedere i suoi lavori.
Era così bella, con quel viso contornato da un folto caschetto color nero pece. Gli occhi verdi, come le fronde degli alberi del Parco del Valentino.
Mi feci ritrarre da lei. Il suo sguardo mentre mi studiava per tracciare i miei lineamenti sulla tela non potrò mai dimenticarli.
Finimmo per amarci nel suo piccolo appartamento in un palazzo vicino alla Mole.
Lei parlava sempre di Barcellona, aveva un’ossessione con questa città. Allora, un giorno, le portai come sorpresa e come regalo di compleanno due biglietti del treno. Sola andata per Barcellona.

Quando arrivammo qui, in questa città, lei pianse di gioia contro il mio petto.
“E’ un sogno che si avvera.” continuava a ripetermi.
Le accarezzavo quei capelli che tante volte mi ero ritrovato a tenere tra le mani, mentre la coccolavo tra le lenzuola.
Prendemmo un piccolo appartamento in Calle del Pintor Fortuny, nel Raval.
Lei si comprò di nuovo tutta l’attrezzatura per dipingere. Sorrideva sempre, la vedevo costantemente sorridere.
Qualche mese più tardi, il tifo contagiò molte persone qui a Barcellona.
Lei continuava a recarsi sulla Rambla a ritrarre le persone, ma io le dicevo di rimanere in casa, con me, al sicuro.
Colpì anche lei. Quella stupida malattia.
Mi ritrovai presto al suo capezzale, pregando un Dio che non mi ascoltò di risparmiarla, che la volevo sposare, avere bambini con lei, vivere tutta la vita accanto a lei.
Andai al Parc de la Ciutadella e lì incontrai un uomo.
Mi disse che lui poteva curare la mia Caterina, se solo, io avessi pronunciato le parole che mi avrebbe detto lui poco dopo.
Accecato dal desiderio di condividere tutta la mia vita con lei, rinunciai così alla mia giovinezza, trasformandomi subito in questo ammasso di rughe.
Un cane mi venne incontro, subito dopo quella sorta di incantesimo. L’uomo con cui avevo parlato era sparito nel nulla.
Quando tornai all’ospedale, mi dissero che Caterina se n’era andata.
Tornai nella stanza dove c’era il suo corpo adagiato nel letto come l’avevo lasciata qualche ora prima.
Cominciai a piangere, perché tutto quello che avevo, lo avevo donato a qualcuno che mi aveva ingannato. Il diavolo.
Andai a casa, impacchettai tutte le sue cose, poi mi diressi qui, in questo caffè. E presi un bicchiere di vino.
Ridacchiai mentre sorseggiavo il vin negre, ridacchiai per la mia stupidità.
   
 
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