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Autore: Niagara_R    16/08/2014    2 recensioni
Non è facile voltarsi dall’altra parte quando ormai anche l’altra parte ha tracce di me, delle mie verità, dei miei segreti stampati su ogni superficie e nessuno se ne accorge.
Non so cosa mi faccia sentire peggio. Che abbia il costante timore che io non riesca a occultare nulla, o che non una singola persona ci faccia caso.
O sono io bravo a fingere, o sono loro a non essere attenti.

Tratto dalla quarta immagine.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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5.

Andy

 



L’eco del battito del mio cuore è così frastornante che mi fa venire mal di testa.

C’è desolazione. C’è vuoto. C’è buio. Non vedo, non tocco, non sento. Ci sono solo io e il mio respiro irregolare che a volte rallenta e a volte scappa, indeciso su cosa fare perché c’è qualcosa che mi sta inseguendo e non so cos’è.

Forse è la mia ombra.

Ma non è facile distinguerla tra tutte le altre.

Buffo.

Un tempo volevo che fossi io a non distinguermi tra tutti gli altri. Poi ho pensato che sarebbe stato meglio essere diverso. Più facile. Più spontaneo. Meno impegnativo. Meno pressante.

Invece mi sono reso conto che anche se vuoi essere l’unico hai delle responsabilità. Ci si aspetta qualcosa da te anche se sei un ribelle, anche se sei un terrorista, anche se sei un martire, anche se sei una persona normale. C’è sempre qualcuno che sceglie per te un’etichetta e in un cassetto ha nascosto un vademecum che non conosci, che non sapevi neanche esistesse, e quando non ti ci attieni c’è chi si incazza, c’è chi si meraviglia, c’è chi ti ammira, c’è chi ti odia.

Io sono il tipo che mi odia.

Mi guardo allo specchio e vedo qualcuno che conosco, ma che non sono io.

Vedo il me stesso che vorrei essere. Vedo il me stesso che vedono gli altri. Vedo l’aspirazione delle ragazzine, il figlio unico di cui andare orgoglioso, il fidanzato e promesso sposo di una cantante vincitrice di uno dei più famosi talent canori, il frontman di una band che sta ascendendo al successo, un corpo tatuato che racconta più storie della voce, un bel ragazzo dagli occhi blu e la bocca che fa impazzire uomini e donne. Mi vedo. Mi guardo. Mi scruto. Mi cerco.

Cosa c’è di me in quest’immagine? Quanto c’è di me in quest’immagine?

Cosa è vero?

Ci sono giorni in cui mi sveglio e mi sento dio che cammina tra i mortali.

Ci sono giorni in cui mi sveglio e mi chiedo cosa c’è di sbagliato.

Quand’è che il mio percorso si è trasformato in un bivio? Da quando ho deciso di imboccare entrambe le entrate? Non lo so. Non me lo ricordo. Non me ne sono accorto.

Probabilmente ho fatto finta di niente.

A dieci anni ero un asociale che non stava mai zitto e che pur di esprimersi parlava col gatto, con la tastiera, con la finestra, con la carta, da solo.

A quattordici anni ero un emarginato dal taglio pesante che amava le poesie, quelle senza troppo senso, banali, scontate, dozzinali, prive di metrica, ma che mi aiutavano a comunicare. A dire qualcosa.

A diciassette anni ero un eversivo che camminava a passo lento per accertarsi che nessuno gli stesse tendendo un agguato per pestarlo a tradimento, che suonava in una band, che alimentava sogni di gloria, determinato.

Sono sempre stato determinato.

Ho sempre saputo cosa volessi.

Almeno credevo.

Ne ero convinto. Sinceramente. Ingenuamente.

Volevo essere qualcuno. Volevo fare la differenza, essere un punto di riferimento, un termine di paragone, un archetipo. Volevo un rispetto che derivava dalla bravura, dal carisma, dal fascino, dalla temperanza. Volevo che tutti al mondo si accorgessero che non ero uno qualunque, che ero capace di lottare e vincere, di conquistare e mantenere, e soprattutto di meritare.

Volevo meritare quel rispetto, quella gloria, quel successo. Con le mie forze, con le mie cadute, col mio ardimento, con quello che sapevo e quello che avrei imparato, volevo essere all’altezza dei miei sogni.

Volevo essere felice.

Non ho mai saputo spiegare bene il preciso perché delle mie aspirazioni. Dovrei parlare di un argomento vasto, infinito, ramificato e intrecciato, e nonostante ci abbia provato più volte non sono ancora riuscito a trovare una base logica.

È come se io fossi una lente, e tutto ciò che provo, che sento, che assimilo viene rinfranto come se all’interno di un prisma, e poi acuito, rimandato, ampliato, lievitato fino a che non mi vedo costretto ad aprire una valvola di sfogo per far sì che non mi consumi dall’interno.

E questa valvola di sfogo è il canto. La scrittura, la musica, le note, i concerto, i Black Veil Brides.

È una vocazione. È una missione. Sono io.

Sono nato per questo.

La mia non è una passione, né un passatempo, né un lavoro. È ossigeno. È ciò che mi serve per vivere, senza il quale morirei, morirei di consunzione, di depressione, di frustrazione, di dolore, d’inedia.

È una consapevolezza che avverto, che percepisco, che distinguo nitida e cocente ogni momento della giornata, è il motore che muove le mie azioni, è un’inclinazione della mia anima, un’attitudine naturale, piantata così a fondo del mio spirito che l’una non può esistere senza l’altro e viceversa.

Ho sempre saputo di essere nato per cantare. Per raccontare, per scrivere, per urlare e sussurrare al mondo, per narrare la grandezza, l’immensità, l’infinito universo di sensazioni, emozioni e sentimenti che si evolvono, che sfociano, che sbocciano, che scappano, che scoppiano. Questo ero io. Volevo essere la voce di un popolo, l’emblema dei gruppi, il cavaliere di un regno.

Volevo.

Adesso?

Lo voglio ancora.

Ma sono rimasto invischiato.

Non mi ero accorto che per essere la voce sarei dovuto crescere così in fretta.

Non mi ero accorto che per essere emblema avrei dovuto stare al passo con un universo dove il tempo scorre senza ordine.

Non mi ero accorto che per essere cavaliere avrei dovuto sacrificare qualcosa di tanto prezioso.

Me stesso.

Eppure so di esserci. So di essere io. So di essere da qualche parte.

Dicono che le tre di notte siano il momento in cui il sonno si avvicina di più alla morte. Buffo. Io alle tre mi sveglio.

O forse muoio.

È il momento in cui mi sento gridare senza corde vocali. Grido, grido forte come se avessi bisogno di distruggere, di attirare l’attenzione, di annientarmi, grido fino a stordirmi e sfiancarmi, un grido che dura l’istante che serve per passare dal torpore alla veglia e di cui già ho dimenticato l’origine, e rimango con un’ondata di tristezza devastante che mi paralizza, che mi toglie il fiato, che mi dissocia luna dopo luna sempre più dalla realtà.

Non so qual è il problema.

Non so se è soltanto uno.

No.

Non lo so.

So che mi sto dividendo.

Ho ventitre anni e mi rendo conto di essermi perso. Mi sto perdendo.

Sono una miscela di olio e acqua, due densità incompatibili hanno scisso la mia anima e si allontanano, si dirigono a poli apposti ostentando silenzio, un silenzio assordante, un silenzio che ha la stessa brutalità lacerante del grido con cui mi sveglio e che viene da entrambe le parti, in alternanza.

So cosa voglio.

Credevo di saperlo.

Credevo di averlo sempre saputo.

Non è vero.

Voglio essere lo stendardo che marchierà la società in difesa di tutti coloro che non possono alzare la testa, voglio essere il liberatore di chi vive ogni giorno nell’apnea dell’incomprensione, voglio essere il volto da associare a quando si desidera cambiare le cose, sì.

Ma non in questa maniera.

Non come l’Andy Biersack che appare nei video. Non come l’Andy Biersack che non sorride mai. Non come l’Andy Biersack che si rende protagonista al posto degli altri.

Non come l’Andy Biersack che tutti conoscono.

Sono così falso.

Così impreciso.

Così automatico.

Il mio agire è in funzione di meccanismi che ho appreso inconsciamente e che adopero ormai in qualunque attimo della mia vita, sono un predefinito che si è costruito il proprio schema e vi si agita all’interno perché troppo piccolo, mi sono rinchiuso in una gabbia e ho dimenticato dov’è l’uscita. Sono diventato come gli altri, alla fine.

Rarefatto, condizionato, insofferente.

Non soffro nulla.

Ho cominciato a preoccuparmi quando mi sono accorto che l’unica sensazione che mi fa sentire me stesso è il dolore.

Mi desto quasi ogni mattina accanto alla ragazza che amo, e la felicità che provo è sbiadita, priva di contorni, difficile da mettere a fuoco.

Ho una coppia di genitori meravigliosi che per realizzare i miei sogni hanno modificato i loro, e la gratitudine che percepisco è latente, flebile, incorporea.

Passo le mie giornate con i migliori amici che avrei mai potuto trovare sulla faccia della Terra e l’entusiasmo è soffocato, smorzato, tremante come una fiammella sotto un alito di vento.

Sono la persona peggiore che conosco.

Sono la persona che ha bisogno di analizzare quel che non va nella mia vita unicamente per darmi energia, per trovare un appiglio, per creare un alibi per il sottoscritto in modo da fingere di stare bene pur sapendo che ho la necessità di stare male. È orribile.

Ho l’impressione che più le mie due parti si distanzieranno e più non riuscirò a far coincidere il mio interno dal mio esterno. Fingerò. Fingo già. Fingo di essere un uomo mentre sono un ragazzino. Fingo di essere felice mentre non lo sono. Fingo di amarmi, mentre non è vero. Fingo di sapere cosa voglio mentre non ne ho davvero idea. Fingo di adorare la compagnia delle persone che mi circondano mentre in realtà vorrei stare da solo.

Solo.

Solo con me stesso.

Vorrei fare pace con me stesso.

Chiedermi scusa.

Dirmi che il successo che mi ha trasformato in un manichino può andare anche in direzione contraria. Dirmi che c’è ancora la possibilità di diventare il modello che io desideravo essere e non quello che gli altri si aspettavano diventassi. Dirmi che mi basterebbe voler cambiare per farlo veramente.

Vorrei essere capace di convincermi.

Vorrei essere capace di cambiare le cose.

Vorrei averne il coraggio.

Non ho paura di morire. Ho paura di non riuscire a salvarmi.

Ho paura che, una volta solo, mi scoprissi insignificante quanto avevo il terrore di essere al liceo.

Alla fin fine mi riduco a questo.

Sono un venduto.

Sono una marionetta.

Sono uno tra i tanti.

E non faccio la differenza.

Sono caduto nella stessa ragnatela dove prima di me sono caduti altri, molti altri, dove stanno ancora, sguazzando in una penombra che riluce di tanto in tanto per illuminarli con una misericordia di scherno, quindici minuti di gloria per una vita di niente.

Il vecchio me non guardava in faccia a nessuno, insultava chi desiderava insultare, non si curava del giudizio degli altri, dimostrava le proprie emozioni. Il me di adesso pensa allo showbiz, a fare bella figura, a trovare l’outfit adeguato al personaggio, a rispettare le regole implicite del mondo della musica.

Il vecchio me agiva d’istinto, rispettava il proprio ego, non pensava al domani. Il me di adesso riflette prima di fare, di dire, di cantare, si comporta in funzione di terzi e non di sé.

Il vecchio me considerava la musica una dimensione estrinseca, mentre quella intima era rappresentata dalla famiglia, dagli amici, dalla dignità, dalla tranquillità, dalle piccole cose quotidiane che fanno stare in pace. Il me di adesso ha perso i paletti.

Dove sono i confini? Dove sono i limiti? Dov’è la linea che definisce cosa è da me e cosa non lo è?

Mi sento un riflesso. Un riverbero confuso dall’identica cornice ma dalla sostanza evanescente, mi segue ovunque, mi fissa come se fosse lui a voler focalizzare me al punto da costringermi a chiedermi se non sono io quello privo di essenza.

Sento rabbia.

Una rabbia caliginosa e impolverata che si leva e si posa come una marea cinerea, imprevista e autonoma, alimentata dalle sensazioni che mi ribollono dentro e di cui mi sforzo di ricordare i nomi.

Rabbia verso chi non si accorge che sono diverso, che sono cambiato, che sono finto, rabbia verso chi continua ad assecondarmi in questa discesa nella disgiunzione, rabbia verso chi mi ha condotto in un labirinto da cui non so uscire.

Rabbia verso le persone che mi amano.

Rabbia verso le persone che amo.

Perché non se ne sono accorte.

Perché non mi tendono la mano.

Perché non si fermano, non mi guardano, non comprendono.

Io non sono io.

Io sono un debole.

Sono fragile.

Ho ancora bisogno di un abbraccio quando mi sento spaesato.

Ho ancora bisogno di affetto quando mi sento sopraffatto.

Ho ancora bisogno di un incoraggiamento quando mi sento avvilito.

Ho ancora bisogno di attenzioni quando mi sento dimenticato.

Ho ancora bisogno di una carezza prima di addormentarmi.

Ho ancora bisogno che qualcuno asciughi le mie lacrime quando stare solo con me stesso mi spezza il cuore.

Ho ancora bisogno di qualcuno che mi dia forza quando io non ne ho.

Dove sono, tutti quanti?

Perché credono alla facciata che mi sono costruito?

Perché non mi scuotono le spalle e non mi dicono che sono cambiato?

Perché non mi prendono a schiaffi finché non confesso cosa c’è che non va?

Perché non ho il coraggio di fare il primo passo?

Perché ho paura.

Ho talmente paura di essere rifiutato da non riuscire a stare sulle gambe.

Ma forse sono io a fare la vittima. Forse sono io a non capire come funzionano le dinamiche. Forse sono io a essere incapace di adeguarmi a un sistema che mi vuole così, artificiale, plastico, perfetto, forse sono io a non essere bravo a gestire la differenza tra verità e immagine, forse ho combinato un casino cui non riesco a rimediare.

Vorrei essere in grado di chiedere l’aiuto che mi serve.

Vorrei cadere ai piedi di Juliet e supplicarla di piantarla di trattarmi come se fossi il meglio le sarebbe potuto capitare.

Vorrei gettarmi tra le braccia di mia madre e rimanere lì a piangere fino a che non sarò troppo stanco per stare sveglio.

Vorrei tornare indietro nel tempo a quando mio padre mi spettinava i capelli e faceva insulse raccomandazione da genitore perché voleva proteggermi.

Vorrei interrompere un concerto e ordinare ai fan di non guardarmi come se fossi una divinità.

Vorrei dire a Jake, a Jinxx, a CC, a Ashley che non è mai mia intenzione eclissare la loro presenza a ogni evento cui partecipiamo insieme.

Vorrei parlare con Ash per sentire di nuovo la sua voce quando assume quel tono gentile che ha smesso di usare con me.

Ash.

Ashley Purdy.

Il primo che mi abbia davvero guardato. Il primo che mi abbia davvero visto. Il primo che mi abbia davvero ascoltato. Il primo che mi abbia davvero sentito.

Tanti, tutti pensano che il membro dei BVB a cui sono più legato è Jinxx, perché è il più grande, il più eclettico, il fratello maggiore.

A Jinxx voglio bene, un bene sconfinato. Ma il mio fratello maggiore è Ash. È sempre stato Ash.

Fin da quando ero un ragazzino emo col trucco da Halloween, fin da quando mi sono fermato in mezzo a un marciapiede di Santa Monica facendo inciampare una signora che mi ha lanciato una serie di bestemmie, fin da quando sono rimasto folgorato dalla sua immagine nella locandina che pubblicizzava il concerto della sua band al Galaxy il ventitre marzo di troppi anni fa.

Ashley, un paradosso inspiegabile, tanto superficiale quanto interiore, volutamente frivolo nel suo mantenere una barriera divisoria tra sé e il resto del mondo.

Era la mia guida. Il mio modello. Una mano, una spalla, un sorriso. Ammetto di non aver mai avuto buongusto nello scegliermi gli idoli.

Avrei potuto ammirare l’integrità e l’individualità di Jake. Avrei potuto adorare la dolcezza e la sensibilità di Jeremy. Avrei potuto stimare l’originalità e la genuinità altrui di CC. Avrei potuto prendere a esempio mio padre, Rob Cavallo, Jeff George, o un mucchio di altre persone che conosco più o meno bene.

Invece, Ash.

Presuntuoso, ma in una maniera che non si rende sgradevole. Imprevedibile, nel ventaglio completo delle accezioni che vanno dal positivo al negativo. Narcisista, sicuro di sé e per questo pronto a scherzarci sopra. Imperscrutabile, come solo le persone consapevoli della propria integrità sanno essere. Solitario, senza la paura di rendersene conto. E forte.

Ashley Purdy è l’uomo più forte che io conosca. È come se non avesse paura di niente. Perché tutto gli è già accaduto.

Mai un cedimento. Mai una lacrima. Mai un crisi di nervi. Mai una manifestazione di dolore, di amarezza, di tristezza, di sofferenza.

Vorrei di essere capace di combattere contro i miei fantasmi con la medesima temperanza con cui lo fa lui. Non li ho mai conosciuti, i suoi fantasmi, ma so, sento che le loro catene sono pesanti, stringono, feriscono, soffocano. Tuttavia è ancora qui. È ancora vicino a me. Da allora, dal Galaxy, da quando quel ragazzo conciato come uno dei Kiss mi ha sorriso e mi ha salvato il culo da una folla che di certo mi avrebbe pestato fino a farmi sputare i denti.

Non si è lasciato sopraffare, non si è lasciato intimorire, non si è lasciato sconfiggere. Resiste, lotta, tiene testa a un passato di cui non sono mai riuscito a strappargli una cartolina e continua a essere forte, continua a perseverare, continua a vivere.

Io no.

Io mi sono fermato.

Io mi sono arreso. E le conseguenze arriveranno.

Sento rabbia anche verso Ashley Purdy. Soprattutto verso Ashley Purdy.

Perché vorrei che andasse oltre. Vorrei che specchiasse la sua battaglia con la mia e creassimo una sola guerra. Vorrei che mi leggesse negli occhi il vuoto che avverto. Vorrei che mi salvasse perché è l’unico in grado di farlo. Vorrei che mi salvasse di nuovo.

Vorrei che la distanza che si è cementata tra noi negli ultimi mesi si sgretolasse. Vorrei provare ancora la sensazione di sentirmi compreso nell’interezza della mia identità. Vorrei che tornasse a trattarmi come se mi amasse.

È colpa mia. Probabile.

Ha capito che non sono l’Andy Biersack che ha conosciuto. Ha capito che mi sono trasformato. Ha capito che in me ci sono cose che non funzionano più. Ha capito che la vicinanza degli esseri umani mi fa male. Perché mi ricorda che sono apatico, arido, miserabile, bugiardo.

Ma non vorrei che se ne andasse. Vorrei essere capace di chiedergli di salvarmi.

Non ci riesco.

Persino le mie canzoni mentono.

Non sono un salvatore. Non lo sono mai stato.

Un giorno finirà.

Un giorno finirò.

Forse crollerò in ginocchio in un’arena durante un concerto e farò una scenata pietosa di fronte agli spalti gremiti.

Forse darò di matto in studio strappando il microfono dalla giraffa e scaraventandolo contro la vetrata della produzione sperando di ucciderli tutti.

Forse esploderò sul bus-tour e litigherò furiosamente con la band, griderò all’autista di fermarsi e scenderò nel mezzo del deserto del Nevada.

Forse semplicemente spegnerò il me che sono diventato. E scomparirò.

E nessuno si chiederà dov’è finito il vecchio me.

«Tra quindici minuti in studio per il sound check.»

Una voce che non è un mio pensiero. Sbatto le palpebre, scruto il vuoto. Quello che ho dentro. Quello che si illumina di una scintilla insignificante quando Ashley ritorna sul mio cammino.

Mi volto verso la porta. È fermo sulla soglia.

I capelli lucidi, serici e neri, la mascella affilata, iridi che mi hanno sempre ricordato bottoni antichi o pietruzze preziose allo stato grezzo. La carnagione invitante, il fisico scolpito, l’espressione distaccata.

Gli sono indifferente.

Ashley, che è legato a me da un filo sottile come una ragnatela da cui vorrei essere imprigionato.

Ashley, che mi ha sempre sorretto.

Ashley, che mi ha sempre capito.

Ashley, che nonostante tutto seguita a capirmi.

«Cosa c’è che non va?»

Lo guardo. Lo fisso. Lo imploro.

Ascoltami.

Aiutami.

Salvami.

Ho bisogno di te.

Ho un così disperato bisogno di te da non riuscire a respirare.

Ho un così disperato bisogno di te da desiderare di essere soltanto noi due.

Ma so di meritarmelo.

So che la responsabilità del mio abbandono mi appartiene, è incollata alla mia pelle e mi erode, mi ingoia, mi frantuma. Sono io a essere cambiato senza accorgermene. Sono io a essere stato inetto.

Sono io ad aver sbagliato.

E mi vergogno. Mi rinnego, mi depreco, mi detesto, mi affogo nei sensi di colpa, nell’imbarazzo della mia stupidità, nell’onta di essere un mediocre.

Sono un fallimento.

E ho paura che loro sappiano.

Ho paura che se ne rendano conto.

Ho paura che il vero me sia ciò che Ash odia di più al mondo.

Mi alzò con una mossa fluida e fingo che il mio cuore non sanguini.

«Niente.» Niente, quello che sono, quello che provo, quello che dico.

Sono una manciata di polvere negli occhi dell’apparenza fatta per ingannarla e ingannarmi fino al giorno del giudizio.

«Ci vediamo là.»

Gli passo accanto con freddezza, involontaria, autodifensiva. Non ricordo come si voglia bene. Non ricordo come sia un sentimento vero. Non ricordo com’è il fremito di quando sono con Ash.

E mentre mi dirigo allo studio vorrei fermarmi, vorrei tornare indietro, vorrei solo chiedergli «Se scomparissi, mi verresti a cercare?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Buoooooooongiorno lettori, e buon Ferragosto anche se un po’ in ritardo! ;)

Eccolo qui il V° e ultimo capitolo di questa piccola raccolta di scatti introspettivi che spero vi sia piaciuta.

Abbiamo visto prima CC, tra vecchi rimpianti e l’attesa di un ritorno che forse non arriverà mai; poi è arrivato Jinxx, disperato del finire di un matrimonio per cui avrebbe sacrificato tutto; poi un Jake scienziato, un valutatore obiettivo e discreto che nell’impossibilità di poter aiutare concretamente gli amici gli sta accanto per ogni cosa. È arrivato poi Ashley, diviso tra due segreti che si fondono in uno e da cui vorrebbe riuscire a scappare; e oggi è stato finalmente il turno di Andy, immerso in una solitudine senza uscita.

Punti di vista diversi, percezioni stesse delle proprie esistenze differenti, superfici di specchi dove i protagonisti si vedono in un modo e il resto del mondo dall’altra parte li vede in un altro.

 

Spero che queste shot introspettive vi siano piaciute, e spero di aver reso giustizia a questi cinque personaggi che sto continuando a maltrattare per diletto personale! :P

 

Grazie a tutti voi che avete letto, preferito, seguito, ricordato, grazie a chi ha recensito e a chi mi ha scritto per dirmi che non vedeva l’ora di leggere l’ultimo capitolo.

Grazie a voi che avete apprezzato queste fotografie inventate (ma forse anche no) e spero di sentire il vostro parere per quest’ultima. ;)

 

 

 

Non mi resta che darvi appuntamento alla mia long-fiction Look Around se volete godervi un’altra mia FF sui Black Veil Brides, e vi lancio tanti baci di ringraziamento e d’affetto! :*

Alla prossima!

 

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