Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |       
Autore: Nike93    15/09/2008    5 recensioni
- Cosa… che cosa vuoi? – lo aggredì la voce di Bill, mentre il suo proprietario rimaneva incollato alla porta.
- Io sono… beh… tornato… - farfugliò Tom. Non si era aspettato che Bill gli saltasse in braccio dopo tre anni di completo silenzio, però neanche che gli rivolgesse quello sguardo. – Volevo solo… sapere come state, ecco… Tu, Haylie, la… - Deglutì, incapace di continuare. Bill lo aveva fulminato con lo sguardo, e quegli occhi sembravano tanto carichi di odio da stroncare le sue parole sul nascere [...]
- Haylie è morta! – ringhiò, subito prima che Tom lo vedesse scomparire, accompagnato da uno schianto. Furono necessari un paio di secondi perché si rendesse conto che Bill gli aveva chiuso la porta in faccia.
Genere: Song-fic, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Parte I – Nessuno

Parte I – Nessuno

 

 

Capitolo 1 – La bambina dalle trecce rosse

 

Appendo alle pareti

tutti i miei pensieri,

mi lascio trascinare

in dubbi sensoriali,

cerco nelle tasche

gli spiccioli di ieri…”

 

Era sicuro che non vi sarebbe più tornato.

Se l’era ripromesso più volte, fino allo sfinimento. Aveva tentato di convincersi che fosse per il suo stesso bene, aveva cercato mille modi per distrarsi, ma, naturalmente, nessuno di questi era andato a buon fine.

E invece, eccolo di nuovo lì, nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto trovarsi.

Eppure ne aveva bisogno. Sperava quasi che quell’aria lo facesse tornare a respirare, a respirare come prima, come non faceva più da… settimane? Mesi, ormai.

Si ritrovò a pensare che era buffo, in fondo, che cercasse di tornare a vivere laddove la sua esistenza si era fermata per sempre. Gli pareva quasi di rivedersi lì, seduto su una delle panchine di quel parco ad Amburgo, tranquillo e sereno come non era mai stato, solo perché ignaro della piega che la sua vita avrebbe preso.

Attraversò silenziosamente il vialetto, sollevando una piccola nuvola di polvere. Forse stava calpestando le sue stesse ceneri.

Il tempo non era particolarmente sereno, quel giorno. Nessuno avrebbe detto che fosse estate inoltrata. Il cielo era striato da lievi sfumature grigiastre, e il sole… già, chissà dov’era andato a nascondersi. Era da un po’ che non lo vedeva più, lui, ma immaginava che ci fosse ancora qualcuno che poteva essere illuminato dai suoi raggi. Lui aveva semplicemente smesso di farlo. Non gli sarebbe servito e, a dirla tutta, non gliene importava poi molto. Non era quella la luce che cercava.

Smise improvvisamente di rimuginare quando si scontrò con qualcosa di piccolo e morbido, trasalendo e quasi perdendo l’equilibrio.

- Mi scusi! – squittì il qualcosa, fino a poco prima raggomitolato ai suoi piedi per colpa del violento impatto. Era un bambino. Non avrebbe saputo che età attribuirgli, ma non ebbe nemmeno il tempo di pensarci. Lo vide scattare in piedi e schizzare lontano da lui, riprendendo a ridere giocoso. No, non l’aveva sentito, ma immaginava che stesse ridendo anche prima. Non lo sapeva. Era tanto che non rideva, lui.

Si vide passare davanti a tutta velocità un’uniforme macchia colorata e rimase fermo sul posto, quasi in attesa che ne arrivassero altre. Invece, a poco a poco, la figuretta rallentò e lui riuscì finalmente a vedere una bambina correre verso il ragazzino che l’aveva urtato. Era piccola e magrolina, con due lunghe trecce ramate.

Non poté fare a meno di deglutire, soprattutto quando i due bambini si raggiunsero di corsa, ridendo, ma non si stupì della strana fitta che avvertì alla bocca dello stomaco.

Forse era qualcosa in quei sorrisi. Forse era qualcosa in quel bambino. O forse era qualcosa in quelle trecce rosse.

Qualunque cosa fosse, sapeva di amaro. Sapeva di ricordi.

Vide i due bambini allontanarsi tenendosi per mano e canticchiando una canzoncina che non aveva mai sentito. Di cosa sapeva, quello?

Sapeva di qualcosa che ormai gli era estraneo. Sapeva di vita.

Si costrinse a voltarsi e proseguì lungo il vialetto polveroso, cercando di allontanare quel fastidio che lo aveva colpito allo stomaco. Gli capitava così spesso che avrebbe dovuto abituarvisi, ma ogni volta si presentava per una ragione diversa, cogliendolo puntualmente impreparato.

Certo, non si sarebbe mai preparato a quel genere di cose. Non lo era stato per quello che era successo prima… perché avrebbe dovuto esserlo ora?

Si fermò di fronte alla fontana che lo aveva visto infinite volte da bambino e dove adesso cercava di annegare il suo dolore. Lo sguardo gli cadde sulla superficie liscia dell’acqua che riempiva la piccola vasca in pietra.

No, era troppo poca perché raccogliesse tutto ciò che lui avrebbe voluto versarvi.

Scorse la sua immagine riflessa nell’acqua, e fu come vedersi per la prima volta. Era diverso da quando, la mattina, si fermava davanti allo specchio del bagno e cercava di trovare qualcosa, in quell’immagine, che gli ricordasse il “se stesso” di pochi mesi prima. Stava lì, spostava lo sguardo da un punto all’altro, ma era come se quel visetto pallido e scavato riflesso nel vetro vivesse di vita propria, o meglio, che non vivesse affatto. I suoi occhi nocciola erano spenti, i lunghi capelli neri gli ricadevano flosci sulle spalle appuntite, persino le labbra avevano perso colore e pienezza.

Non erano altro che occhi di vetro su un viso di carta. Non era che un involucro senza niente dentro.

Guardati Bill, guarda come ti sei ridotto, parve dirgli la figura che lo guardava dal fondo della fontana, non l’avresti mai detto, eh?

Trasalì, distogliendo lo sguardo e stringendosi il busto tra le braccia. Cominciava a chiedersi se non fosse stato così anche prima. Forse non era cambiato affatto, ma adesso non aveva altro che quello, un riflesso offerto da uno specchio, e vi si era talmente concentrato da convincersi di essere cambiato.

No. Se vi si fosse davvero concentrato, avrebbe ricordato l’immagine di un ragazzo giovane e spensierato, vestito alla moda, senza un capello fuori posto. Avrebbe ricordato i suoi occhi sprizzare vitalità, contornati da abbondante trucco nero. Avrebbe ricordato labbra allungate in un sorriso smagliante, inconsapevole forse, ma sincero, convinto.

E tutto questo era sparito, insieme alla sua vita, ai suoi sogni, alla sua carriera… a lei.

Già, lei.

Sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena. Doveva essere stato provocato da quel pensiero perché, intorno a lui, c’erano soltanto donne in abiti leggeri e ragazzi in pantaloncini.

Il cielo, però, continuava ad essere grigio. E per Bill Kaulitz lo sarebbe stato anche con lo spuntare del sole.

 

Voltò le spalle alla fontana, dirigendosi verso il cancello di ferro battuto.

Sembrava quasi l’entrata di un cimitero. Qualsiasi cosa intorno a lui gli portava in mente quel luogo.

Pareva che tutto fosse stato progettato affinché l’atmosfera risultasse pesante, più di quanto non fosse già.

A dire il vero, sembrava che tutto fosse stato progettato perché lui arrivasse a quel punto, perché la sua vita andasse completamente allo sfascio. Era stato così fin dall’inizio, avrebbe dovuto capirlo.

E invece si era nutrito di sogni troppo alti per lui, aveva dormito nel suo castello dorato finché le porte non gli erano state chiuse per sempre.

Si fermò proprio davanti al cancello, voltandosi indietro. Percorse tutto il parco con lo sguardo, come per cercare qualcuno.

Forse, la bambina dalle trecce rosse.

Ma non la vide. I suoi occhi perlustrarono i vialetti per minuti interi, ma lei non ricomparve.

Bill si morse le labbra. Forse non era mai esistita, forse non l’aveva mai vista realmente.

Ecco che tornava il mal di stomaco.

Eppure, per un attimo, ci aveva sperato. Aveva sperato di rivedere in quella bambina il pezzo di vita che si era lasciato alle spalle sei mesi prima, e ora la consapevolezza che non potesse fare nulla per tornare indietro gli bruciava.

Bill chinò la testa, aggrappandosi alle inferriate del cancello e sentendo le ginocchia piegarsi. Le forze vennero tutt’a un tratto a mancargli.

Quelle trecce rosse…

Haylie

Per pochi, terribili attimi ebbe l’impressione che qualcosa gli si fosse fermato in gola, impedendogli di respirare. Si portò una mano al collo e chiuse gli occhi, stringendo più forte la presa sull’inferriata.

…dove sei?

 

Lei gli strinse un’altra volta la mano.

Bill le sorrise, ravviandole i capelli. – Siamo di nuovo qui. Sei contenta? –

Gli parve che Haylie deglutisse, ma non vi fece caso più di tanto, perché le sue labbra si erano increspate in un sorriso. Ed era così tanto che non la vedeva sorridere…

- Sì. Sono felice di essere qui con te – Si guardò intorno, come se vedesse l’interno del tourbus per la prima volta. E invece erano più di due anni che viveva lì. Chinò la testa, sospirando. – Ma per il resto… -

Bill non rispose. Si limitò a stringere più forte la sua mano.

Quasi si pentì di averle fatto quella domanda. Era il momento sbagliato, ma, per un attimo, aveva pensato che la consapevolezza di essere di nuovo lì insieme avrebbe fatto bene anche a lei, l’avrebbe aiutata a cancellare ciò che era stato prima.

E prima ne erano successe tante, di cose. Così tante che lui stesso faceva fatica a rimetterle in ordine nella propria mente.

Ricordava ancora la sua felicità quando, mesi prima, Haylie gli aveva annunciato di aspettare una bambina da lui. Felicità che era andata aumentando ogni giorno, vedendo la sua pancia crescere.

Ma ricordava anche la paura dell’inadeguatezza per quell’impegno che avrebbe dovuto assumersi, tutte le parole che non si erano detti. Ricordava i sorrisi di Haylie, sempre più rari. E ricordava anche quello che aveva provato quando lei gli aveva confessato il suo peccato, la colpa a cui quell’inspiegabile allontanamento l’aveva indotta. Quella colpa che era riuscito a perdonare solo a lei.

Sì, era caduta fra le braccia di suo fratello. Tom, il suo gemello, il suo migliore amico, la sua metà.

Lei lo aveva giustificato. Non perché lo avesse amato, no. Voleva solo che Bill non chiudesse tutte le porte in faccia al fratello, voleva che perdonasse anche lui. Lui che aveva sofferto quanto loro. Lui che la aveva amata credendo di essere ricambiato. Lui che si era sentito in colpa, lui che però non poteva fare a meno di quella ragazza che non avrebbe mai dovuto concederglisi.

Bill non ce l’aveva fatta. Amava troppo Haylie per negarle il suo perdono, la rispettava troppo per non ascoltare il suo punto di vista. Si erano feriti un po’ a vicenda senza volerlo fare davvero, si erano persi solo per potersi ritrovare. E per quanto lei l’avesse supplicato di parlare con Tom, lui non ce l’aveva fatta.

Forse perché dava a lui la colpa di tutto quanto era successo. Lui non c’entrava niente in quella storia, aveva detto ad Haylie, lui non doveva fargli questo. Lei aveva insistito ancora: anche lei l’aveva tradito, quindi perché quella durezza solo nei confronti di Tom?

Ma Bill non aveva ceduto. Forse perché, dopo un tentativo –fallito- di riappacificazione, Tom era sparito lasciando nient’altro che una lettera. Diceva che Bill e Haylie dovevano ricominciare, amarsi come si erano sempre amati, dimenticare tutto.

Parole, erano solo parole.

Anche perché c’era qualcosa che non avrebbe mai cancellato quell’episodio dalla sua mente.

Quella bambina non era mai nata. Bill ricordava ancora le ore passate fuori dalla sala parto, ricordava i fazzoletti impregnati di sudore e il pacchetto di sigarette che aveva svuotato a tempo record. Ricordava il viso di Haylie contratto dalla sofferenza e i suoi occhi chiudersi prima che le dicessero che quella creatura che si era portata dentro per mesi non aveva neanche cominciato a respirare.

Avevano sofferto, avevano pianto insieme. Ma poi si erano asciugati le lacrime a vicenda e si erano detti tutto quello che era stato lasciato in sospeso. Si erano ripromessi di non dover più arrivare a quel punto per ricordarsi quanto avessero bisogno l’uno dell’altra.

Restava il fatto che Tom se n’era andato. Chissà dove, poi. Bill non si sentiva ancora pronto a parlarne, il ricordo gli scottava. Aveva deciso di continuare con i Tokio Hotel anche senza di lui.

E adesso erano di nuovo lì, pronti a ricominciare, ma disarmati davanti alla massa di ricordi che avrebbero dovuto scegliere se affrontare o mettere da parte.

Non poteva pretendere che Haylie fosse felice. Non subito. Del resto, neanche lui lo era davvero. Avrebbe voluto godersi quei mesi con lei, avere quella bambina e festeggiarne la nascita con suo fratello –ma questo non lo avrebbe mai ammesso.

Però lei c’era, e gli bastava.

Bill appoggiò le mani sulle sue spalle, stringendole delicatamente.

- Haylie, ti prometto che d’ora in poi sarà tutto diverso. Vedrai, ci vorrà un po’ di tempo per… beh, rimetterci in sesto, però… però siamo qui, siamo insieme – Lei alzò lo sguardo e gli sorrise con una punta di malinconia. - Per me non conta nient’altro, Haylie, nient’altro –

La strinse a sé in un gesto quasi involontario, non programmato. Ma quando sentì le sue braccia circondargli la vita, non poté fare a meno di sorridere, chiudendo gli occhi e appoggiando la guancia sulla sua testa. – Mi credi? – sussurrò, così piano da riuscire a malapena a sentirsi lui stesso.

Avvertì un piccolo movimento tra le sue braccia. Haylie aveva annuito.

- Sì. Certo che ti credo – mormorò lei, distaccandosi per potergli sfiorare una guancia con un dito.

Quasi non riusciva a credere di poter essere stato tanto stupido. Di aver vissuto mesi lontano da lei, anche se non in senso fisico. Lei era lì, lei era tutto quello di cui aveva bisogno.

La ragazza gli sorrise, e fu un sorriso vero. Bill si riempiva gli occhi, guardandola. Quelle iridi scure, quei capelli ramati, quel naso un po’ a punta, valevano più di qualsiasi altro panorama.

Le prese il viso tra le mani prima ancora di chiedersi se lei pensasse la stessa cosa, se lei volesse.

Chiuse gli occhi e decise di non contare più i minuti. Era lei, il suo tempo.

Lasciò che le loro labbra si sfiorassero e approfondissero a poco a poco il contatto, come se quello fosse il loro primo bacio. Lasciò che lei si scostasse pian piano e gli baciasse la fronte, il mento, gli angoli della bocca, che le sue piccole mani stringessero la stoffa della sua camicia, che il suo respiro gli accarezzasse il collo.

Le toccò i capelli, il viso, il collo. Voleva recuperare il tempo perduto, voleva regalarle tutto quello che le era mancato, tutte le carezze, le parole e i sospiri che aveva tenuto per sé.

Gli costò una fatica enorme staccarsi dalle sue labbra, e gli sfuggì un ansito leggero nel momento in cui le mani di Haylie gli cinsero i fianchi. – Ti… ti amo – balbettò, tremando appena nel riavviarle i capelli.

Gli mancava già il respiro. Voleva regalarlo a lei, il suo fiato, voleva darle tutto quello che lo teneva in vita.

Rabbrividì quando sentì il naso di Haylie sfiorargli il collo. – Anch’io ti amo –

Si lasciò sfuggire un sospiro, stringendola possessivamente a sé. – Dimmelo ancora –

- Ti amo – Haylie gli baciò il mento, risalendo poi verso le sue labbra. Le schiuse piano con le sue, lasciando che Bill l’abbracciasse più stretta. I loro primi, deboli gemiti si fusero insieme, furono soffocati l’uno nella bocca dell’altra. – Ti amo Bill. Non lasciarmi… non lasciarmi mai –

- Non posso lasciarti – Bill si chinò  a baciarla sul collo. La sentì fremere a quel contatto. Le sue mani cominciarono ad accarezzarla ancora prima che lui si chiedesse se fosse la cosa giusta. – E’ che… non so se tu vuoi… - farfugliò, mentre i loro corpi aderivano di più.

Haylie gli prese il viso tra le mani, facendo sì che i loro sguardi s’incrociassero. Bill si rese conto che le dita della ragazza erano incredibilmente fredde in confronto alle sue guance infuocate.

- Tutto quello che vorrai darmi, io lo accetterò, Bill. Sempre –

E lui non poté fare altro che rispondere con un sorriso. Qualsiasi parola perdeva il proprio significato di fronte a lei, qualsiasi gesto diventava irrilevante. Le cinse i fianchi con le mani mentre le dita di Haylie stuzzicavano lievemente il colletto della sua camicia nera, quella camicia che tante volte le aveva lasciato indossare, “perché sta meglio a te che a me”, diceva. Non le aveva mai detto che lo faceva solo per avere il suo profumo addosso anche quando lei era lontana.

- Fai l’amore con me, Haylie – riuscì solo a sussurrarle. Non pensò ad una possibile reticenza o, peggio, ad un “no”: semplicemente, gli venne così naturale chiederglielo che non si preoccupò di una sua qualsiasi risposta.

Risposta che arrivò con un altro bacio, un bacio tenero, morbido, anzi, un bacio che non ammetteva descrizioni. Haylie sedette sul bordo del letto, prendendogli le mani e offrendogli le sue labbra ancora una volta, lasciando che le dita di Bill scorressero tra i suoi capelli e approfondissero quel contatto che tanto desiderava quanto temeva.

Bill non avrebbe mai voluto separarsi da lei, ma sentiva il bisogno di guardarla, riempirsi gli occhi con la sua fragile e delicata bellezza, rendersi conto di ciò che stava per fare.

La vide ridacchiare, timida e bellissima, distesa tra le lenzuola che per troppo tempo avevano sentito la mancanza di momenti come quello, mentre lui si sbottonava velocemente la camicia e le dita gli si impigliavano nelle asole. La vide sorridere raggiante anche quando inciampò nel tentativo di scavalcare i jeans ammucchiati sul pavimento, la vide tendergli le braccia mentre lui saliva sul letto e poi dopo, quando la liberò del suo leggero abito azzurro, impaziente come poche volte era stato.

Sentiva qualcosa di nuovo, quasi estraneo, un desiderio così urgente e violento che non cercò nemmeno di metterlo a tacere. Era qualcosa che andava ben oltre la semplice voglia di sentire la sua pelle calda sotto le dita, di toccare e baciare ogni centimetro del suo corpo esile.

Non seppe dare un nome a quel “qualcosa”, ma si ritrovò a desiderarlo ancora con lo scorrere dei minuti, anche quando smise di chiedersi quanto tempo fosse passato e Haylie si addormentò tra le sue braccia.

Le lacrime, i silenzi, i segreti erano finiti. Avrebbero ricominciato, e l’avrebbero fatto nel modo migliore.

 

Bill pigiò velocemente il campanello, dandogli appena il tempo di suonare, e attese. Sapeva che Simone, sua madre, non avrebbe chiesto “Chi è?” come faceva di solito. Con lui, non lo faceva più da tempo: solo Bill non prolungava il contatto con quel tasto per più di mezzo secondo. Quel trillo gli dava quasi fastidio.

Infatti, la porta si aprì pochi istanti dopo, rivelando una donna dall’aspetto giovanile, con un elegante caschetto biondo e uno di quei sorrisi che non le riusciva mai troppo difficile dispensare.

- Tesoro! Come mai qui? – Bill stiracchiò le labbra in un sorriso che aveva smesso da tempo di assomigliare a quello di sua madre.

- Niente, ero di passaggio e volevo salutarti –

- Perché non ti fermi dieci minuti? Anzi… - Simone diede una rapida occhiata all’orologio che teneva al polso. – Se aspetti che torni Gordon, puoi cenare con noi –

- No, grazie, mamma – rispose lui con una nota di stanchezza nella voce. – Preferisco tornare a casa. Sono solo passato a salutarti –

Simone sospirò appena, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco. – Bill, perché invece che stare sempre solo non… - Il ragazzo la interruppe con un rapido gesto della mano.

- Mamma, per favore – Lei lo guardò interdetta, e lui riuscì a tirare fuori un sorriso un po’ più convincente. – Lo so che ti preoccupi per me. Ma sto bene, davvero – Simone si strinse nelle spalle.

- D’accordo – disse. Sorrise, toccandogli una spalla con la mano. – Domani che fai? –

- Vengo a lavoro, no? –

- Certo – Simone gli sfiorò una guancia con una carezza, e Bill si chinò a baciarla su entrambe le guance, più che altro per evitare che il discorso si allungasse. – Ciao, mamma – Lei fece per rispondere al saluto, ma fu bloccata dal telefono, che cominciò a suonare proprio in quel momento. Bill sorrise, incitandola a rientrare. – Vai, vai. Ci vediamo domani –

Non avrebbe negato di provare un certo sollievo, quando si trovò fuori dal portone. Non poteva farci nulla, per quanto cercasse di evitare che sua madre attaccasse con la sua solita ramanzina, era lui il primo a farle visita ogni giorno. Erano stati lontani per troppi anni, era stato troppo preso dal suo lavoro –anche se adesso dubitava addirittura di poterlo chiamare così- per curarsi del loro rapporto. E adesso voleva semplicemente recuperare il tempo perduto.

Almeno con lei questo era possibile, pensò tristemente, cominciando a rovistare nelle tasche alla ricerca delle chiavi di casa.

 

______________________________________________________________________________

 

Buongiorno ^^

Come promesso, eccomi con il mio nuovo lavoretto. Sarebbe il seguito della mia precedente ficdimentica”, ma ho cercato di renderla leggibile anche per chi non la conoscesse. Avevo preparato le mie proverbiali illustrazioni (una a capitolo, sigh!) ma ho uno scanner deficiente e potenzialmente diretto nella spazzatura.

Spero che mi renderete partecipe delle vostre impressioni. Valgono i soliti disclaimer: i Tokio Hotel non mi appartengono, e questa storia non è scritta a scopo di lucro, ma per ciò che a Catania vien definito “malu’cchi’ffari”: ovvero, non aver nulla di costruttivo da fare.

Ah, dimenticavo: la canzone usata è “Nessuno” del grande (e mio amatissimo) Raf.

 

  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Nike93