Parte I – Nessuno
Capitolo 1 – La
bambina dalle trecce rosse
“Appendo alle pareti
tutti i miei pensieri,
mi lascio trascinare
in dubbi sensoriali,
cerco nelle tasche
gli spiccioli di ieri…”
Era sicuro
che non vi sarebbe più tornato.
Se l’era ripromesso più volte, fino allo sfinimento. Aveva tentato di convincersi che
fosse per il suo stesso bene, aveva cercato mille modi per distrarsi, ma,
naturalmente, nessuno di questi era andato a buon fine.
E
invece, eccolo di nuovo lì, nell’ultimo posto in cui avrebbe voluto trovarsi.
Eppure ne aveva bisogno. Sperava quasi che quell’aria lo facesse
tornare a respirare, a respirare come prima, come non
faceva più da… settimane? Mesi, ormai.
Si ritrovò
a pensare che era buffo, in fondo, che cercasse di
tornare a vivere laddove la sua esistenza si era fermata per sempre. Gli pareva
quasi di rivedersi lì, seduto su una delle panchine di quel parco ad Amburgo, tranquillo e sereno come non era mai stato, solo
perché ignaro della piega che la sua vita avrebbe preso.
Attraversò
silenziosamente il vialetto, sollevando una piccola nuvola di polvere. Forse
stava calpestando le sue stesse ceneri.
Il tempo
non era particolarmente sereno, quel giorno. Nessuno avrebbe detto
che fosse estate inoltrata. Il cielo era striato da lievi sfumature grigiastre,
e il sole… già, chissà dov’era andato a nascondersi. Era da un po’ che non lo
vedeva più, lui, ma immaginava che ci fosse ancora qualcuno che poteva essere
illuminato dai suoi raggi. Lui aveva semplicemente smesso di farlo. Non gli sarebbe
servito e, a dirla tutta, non gliene importava poi
molto. Non era quella la luce che cercava.
Smise
improvvisamente di rimuginare quando si scontrò con
qualcosa di piccolo e morbido, trasalendo e quasi perdendo l’equilibrio.
- Mi
scusi! – squittì il qualcosa, fino a poco prima raggomitolato ai suoi piedi per
colpa del violento impatto. Era un bambino. Non avrebbe saputo che età
attribuirgli, ma non ebbe nemmeno il tempo di pensarci. Lo vide scattare in
piedi e schizzare lontano da lui, riprendendo a ridere giocoso. No, non l’aveva
sentito, ma immaginava che stesse ridendo anche prima. Non lo sapeva. Era tanto
che non rideva, lui.
Si vide
passare davanti a tutta velocità un’uniforme macchia colorata e rimase fermo
sul posto, quasi in attesa che ne arrivassero altre. Invece, a poco a poco, la figuretta
rallentò e lui riuscì finalmente a vedere una bambina correre verso il
ragazzino che l’aveva urtato. Era piccola e magrolina, con due lunghe
trecce ramate.
Non poté
fare a meno di deglutire, soprattutto quando i due
bambini si raggiunsero di corsa, ridendo, ma non si stupì della strana fitta
che avvertì alla bocca dello stomaco.
Forse era
qualcosa in quei sorrisi. Forse era qualcosa in quel bambino. O forse era qualcosa in quelle trecce rosse.
Qualunque
cosa fosse, sapeva di amaro. Sapeva di ricordi.
Vide i due
bambini allontanarsi tenendosi per mano e canticchiando una canzoncina che non
aveva mai sentito. Di cosa sapeva, quello?
Sapeva di
qualcosa che ormai gli era estraneo. Sapeva di vita.
Si
costrinse a voltarsi e proseguì lungo il vialetto polveroso, cercando di
allontanare quel fastidio che lo aveva colpito allo stomaco. Gli capitava così
spesso che avrebbe dovuto abituarvisi, ma ogni volta
si presentava per una ragione diversa, cogliendolo puntualmente impreparato.
Certo, non
si sarebbe mai preparato a quel genere di cose. Non lo era stato per quello che
era successo prima… perché avrebbe
dovuto esserlo ora?
Si fermò
di fronte alla fontana che lo aveva visto infinite volte da bambino e dove
adesso cercava di annegare il suo dolore. Lo sguardo gli cadde sulla superficie
liscia dell’acqua che riempiva la piccola vasca in pietra.
No, era
troppo poca perché raccogliesse tutto ciò che lui avrebbe voluto versarvi.
Scorse la
sua immagine riflessa nell’acqua, e fu come vedersi per la prima volta. Era
diverso da quando, la mattina, si fermava davanti allo
specchio del bagno e cercava di trovare qualcosa, in quell’immagine, che gli
ricordasse il “se stesso” di pochi mesi prima. Stava lì, spostava lo sguardo da
un punto all’altro, ma era come se quel visetto pallido e scavato riflesso nel
vetro vivesse di vita propria, o meglio, che non vivesse
affatto. I suoi occhi nocciola erano spenti, i
lunghi capelli neri gli ricadevano flosci sulle spalle appuntite, persino le labbra
avevano perso colore e pienezza.
Non erano
altro che occhi di vetro su un viso di carta. Non era che un involucro senza niente dentro.
Guardati
Bill, guarda come ti sei ridotto, parve dirgli la figura che lo
guardava dal fondo della fontana, non l’avresti mai detto, eh?
Trasalì,
distogliendo lo sguardo e stringendosi il busto tra le braccia. Cominciava a
chiedersi se non fosse stato così anche prima. Forse non
era cambiato affatto, ma adesso non aveva altro che quello, un riflesso
offerto da uno specchio, e vi si era talmente concentrato da convincersi di
essere cambiato.
No. Se vi
si fosse davvero concentrato, avrebbe ricordato l’immagine di un ragazzo
giovane e spensierato, vestito alla moda, senza un capello fuori posto. Avrebbe
ricordato i suoi occhi sprizzare vitalità, contornati da abbondante trucco
nero. Avrebbe ricordato labbra allungate in un sorriso smagliante,
inconsapevole forse, ma sincero, convinto.
E
tutto questo era sparito, insieme alla sua vita, ai suoi sogni, alla sua
carriera… a lei.
Già, lei.
Sentì un
brivido freddo corrergli lungo la schiena. Doveva essere stato provocato da
quel pensiero perché, intorno a lui, c’erano soltanto donne in abiti leggeri e
ragazzi in pantaloncini.
Il cielo,
però, continuava ad essere grigio. E per Bill Kaulitz
lo sarebbe stato anche con lo spuntare del sole.
Voltò le
spalle alla fontana, dirigendosi verso il cancello di ferro battuto.
Sembrava
quasi l’entrata di un cimitero. Qualsiasi cosa intorno a lui gli portava in mente quel luogo.
Pareva che
tutto fosse stato progettato affinché l’atmosfera risultasse
pesante, più di quanto non fosse già.
A dire il
vero, sembrava che tutto fosse stato progettato perché lui arrivasse a quel
punto, perché la sua vita andasse completamente allo sfascio. Era stato così fin dall’inizio, avrebbe dovuto capirlo.
E
invece si era nutrito di sogni troppo alti per lui, aveva dormito nel suo
castello dorato finché le porte non gli erano state chiuse per sempre.
Si fermò
proprio davanti al cancello, voltandosi indietro. Percorse
tutto il parco con lo sguardo, come per cercare qualcuno.
Forse, la
bambina dalle trecce rosse.
Ma non
la vide. I suoi occhi perlustrarono i vialetti per minuti interi, ma lei non
ricomparve.
Bill si
morse le labbra. Forse non era mai esistita, forse non
l’aveva mai vista realmente.
Ecco che
tornava il mal di stomaco.
Eppure,
per un attimo, ci aveva sperato. Aveva sperato di rivedere in quella bambina il
pezzo di vita che si era lasciato alle spalle sei mesi prima, e ora la
consapevolezza che non potesse fare nulla per tornare
indietro gli bruciava.
Bill chinò
la testa, aggrappandosi alle inferriate del cancello e sentendo le ginocchia
piegarsi. Le forze vennero tutt’a
un tratto a mancargli.
Quelle
trecce rosse…
Haylie…
Per pochi,
terribili attimi ebbe l’impressione che qualcosa gli si fosse
fermato in gola, impedendogli di respirare. Si portò una mano al collo e
chiuse gli occhi, stringendo più forte la presa sull’inferriata.
…dove
sei?
Lei gli
strinse un’altra volta la mano.
Bill le
sorrise, ravviandole i capelli. – Siamo di nuovo qui. Sei
contenta? –
Gli
parve che Haylie deglutisse, ma non vi fece caso più di tanto, perché le sue labbra si erano
increspate in un sorriso. Ed era così tanto che non la
vedeva sorridere…
- Sì.
Sono felice di essere qui con te – Si guardò intorno,
come se vedesse l’interno del tourbus per la prima volta. E
invece erano più di due anni che viveva lì. Chinò la testa, sospirando. – Ma
per il resto… -
Bill
non rispose. Si limitò a stringere più forte la sua mano.
Quasi
si pentì di averle fatto quella domanda. Era il
momento sbagliato, ma, per un attimo, aveva pensato che la consapevolezza di
essere di nuovo lì insieme avrebbe fatto bene anche a lei, l’avrebbe aiutata a
cancellare ciò che era stato prima.
E prima
ne erano successe tante, di cose. Così tante che lui
stesso faceva fatica a rimetterle in ordine nella propria mente.
Ricordava
ancora la sua felicità quando, mesi prima, Haylie gli aveva annunciato di aspettare una bambina da
lui. Felicità che era andata aumentando ogni giorno, vedendo la sua pancia
crescere.
Ma ricordava anche la paura dell’inadeguatezza per
quell’impegno che avrebbe dovuto assumersi, tutte le parole che non si erano
detti. Ricordava i sorrisi di Haylie, sempre più
rari. E ricordava anche quello che aveva provato quando
lei gli aveva confessato il suo peccato, la colpa a cui quell’inspiegabile
allontanamento l’aveva indotta. Quella colpa che era riuscito
a perdonare solo a lei.
Sì, era
caduta fra le braccia di suo fratello. Tom, il suo gemello,
il suo migliore amico, la sua metà.
Lei lo
aveva giustificato. Non perché lo avesse amato, no. Voleva solo che Bill non
chiudesse tutte le porte in faccia al fratello, voleva che perdonasse anche
lui. Lui che aveva sofferto quanto loro. Lui che la aveva amata credendo di essere ricambiato. Lui
che si era sentito in colpa, lui che però non poteva
fare a meno di quella ragazza che non avrebbe mai dovuto concederglisi.
Bill
non ce l’aveva fatta. Amava troppo Haylie per negarle il suo perdono, la rispettava
troppo per non ascoltare il suo punto di vista. Si erano
feriti un po’ a vicenda senza volerlo fare davvero, si erano persi solo
per potersi ritrovare. E per quanto lei l’avesse supplicato
di parlare con Tom, lui non ce l’aveva fatta.
Forse
perché dava a lui la colpa di tutto quanto era successo.
Lui non c’entrava niente in quella storia, aveva detto ad
Haylie, lui non doveva fargli questo. Lei aveva
insistito ancora: anche lei l’aveva tradito, quindi perché quella durezza solo
nei confronti di Tom?
Ma Bill non aveva ceduto. Forse perché,
dopo un tentativo –fallito- di riappacificazione, Tom era sparito lasciando
nient’altro che una lettera. Diceva che Bill e Haylie dovevano ricominciare, amarsi come si erano sempre
amati, dimenticare tutto.
Parole,
erano solo parole.
Anche perché c’era qualcosa che non avrebbe mai cancellato
quell’episodio dalla sua mente.
Quella
bambina non era mai nata. Bill ricordava ancora le ore passate fuori dalla sala parto, ricordava i fazzoletti impregnati di
sudore e il pacchetto di sigarette che aveva svuotato a tempo record. Ricordava
il viso di Haylie contratto dalla sofferenza e i suoi
occhi chiudersi prima che le dicessero che quella
creatura che si era portata dentro per mesi non aveva neanche cominciato a
respirare.
Avevano sofferto, avevano pianto insieme. Ma
poi si erano asciugati le lacrime a vicenda e si erano detti tutto quello che
era stato lasciato in sospeso. Si erano ripromessi di non dover più arrivare a
quel punto per ricordarsi quanto avessero bisogno l’uno dell’altra.
Restava il fatto che Tom se n’era andato. Chissà dove,
poi. Bill non si sentiva ancora pronto a parlarne, il ricordo
gli scottava. Aveva deciso di continuare con i Tokio
Hotel anche senza di lui.
E
adesso erano di nuovo lì, pronti a ricominciare, ma
disarmati davanti alla massa di ricordi che avrebbero dovuto scegliere se
affrontare o mettere da parte.
Non
poteva pretendere che Haylie fosse felice. Non
subito. Del resto, neanche lui lo era davvero. Avrebbe voluto godersi quei mesi
con lei, avere quella bambina e festeggiarne la
nascita con suo fratello –ma questo non lo avrebbe mai ammesso.
Però lei c’era, e gli bastava.
Bill
appoggiò le mani sulle sue spalle, stringendole delicatamente.
- Haylie, ti prometto che d’ora in poi sarà tutto diverso.
Vedrai, ci vorrà un po’ di tempo per… beh, rimetterci in sesto, però… però
siamo qui, siamo insieme – Lei alzò lo sguardo e gli sorrise
con una punta di malinconia. - Per me non conta nient’altro, Haylie, nient’altro –
La
strinse a sé in un gesto quasi involontario, non programmato. Ma quando sentì le sue braccia circondargli la vita, non
poté fare a meno di sorridere, chiudendo gli occhi e appoggiando la guancia
sulla sua testa. – Mi credi? – sussurrò, così piano da riuscire a malapena a
sentirsi lui stesso.
Avvertì
un piccolo movimento tra le sue braccia. Haylie aveva
annuito.
- Sì.
Certo che ti credo – mormorò lei, distaccandosi per
potergli sfiorare una guancia con un dito.
Quasi non riusciva a credere di poter essere stato tanto
stupido.
Di aver vissuto mesi lontano da lei, anche se non in senso
fisico. Lei era lì, lei era tutto quello di cui
aveva bisogno.
La ragazza gli sorrise, e fu un sorriso vero.
Bill si riempiva gli occhi, guardandola. Quelle iridi scure, quei
capelli ramati, quel naso un po’ a punta, valevano più di qualsiasi altro
panorama.
Le
prese il viso tra le mani prima ancora di chiedersi se lei pensasse la stessa
cosa, se lei volesse.
Chiuse
gli occhi e decise di non contare più i minuti. Era lei, il suo tempo.
Lasciò
che le loro labbra si sfiorassero e approfondissero a poco a poco il contatto,
come se quello fosse il loro primo bacio. Lasciò che lei si scostasse pian
piano e gli baciasse la fronte, il mento, gli angoli della bocca, che le sue
piccole mani stringessero la stoffa della sua camicia, che il suo respiro gli accarezzasse il collo.
Le
toccò i capelli, il viso, il collo. Voleva recuperare il tempo perduto, voleva regalarle tutto quello che le era mancato, tutte le
carezze, le parole e i sospiri che aveva tenuto per sé.
Gli
costò una fatica enorme staccarsi dalle sue labbra, e gli sfuggì un ansito leggero nel momento in cui le mani di Haylie gli cinsero i fianchi. – Ti… ti amo
– balbettò, tremando appena nel riavviarle i capelli.
Gli
mancava già il respiro. Voleva regalarlo a lei, il suo fiato, voleva darle
tutto quello che lo teneva in vita.
Rabbrividì quando sentì il naso di Haylie sfiorargli il collo. – Anch’io
ti amo –
Si
lasciò sfuggire un sospiro, stringendola
possessivamente a sé. – Dimmelo ancora –
- Ti amo – Haylie gli baciò il mento,
risalendo poi verso le sue labbra. Le schiuse piano con le
sue, lasciando che Bill l’abbracciasse più stretta. I loro primi, deboli
gemiti si fusero insieme, furono soffocati l’uno nella
bocca dell’altra. – Ti amo Bill. Non lasciarmi… non lasciarmi
mai –
- Non
posso lasciarti – Bill si chinò a baciarla sul collo. La sentì fremere
a quel contatto. Le sue mani cominciarono ad accarezzarla ancora prima che lui
si chiedesse se fosse la cosa giusta. – E’ che… non so se tu vuoi… - farfugliò, mentre i loro corpi aderivano di più.
Haylie gli prese il viso tra le mani, facendo sì che i loro
sguardi s’incrociassero. Bill si rese conto che le dita della ragazza erano
incredibilmente fredde in confronto alle sue guance infuocate.
- Tutto
quello che vorrai darmi, io lo accetterò, Bill. Sempre –
E lui non poté fare altro che rispondere con un sorriso. Qualsiasi parola perdeva il proprio significato di fronte a lei,
qualsiasi gesto diventava irrilevante. Le cinse i fianchi con le mani mentre le dita di Haylie
stuzzicavano lievemente il colletto della sua camicia nera, quella camicia che
tante volte le aveva lasciato indossare, “perché sta meglio a te che a me”,
diceva. Non le aveva mai detto che lo faceva solo per
avere il suo profumo addosso anche quando lei era lontana.
- Fai l’amore con me, Haylie – riuscì
solo a sussurrarle. Non pensò ad una possibile reticenza o, peggio, ad un “no”:
semplicemente, gli venne così naturale chiederglielo che non si preoccupò di una sua qualsiasi risposta.
Risposta che arrivò con un altro bacio, un bacio tenero,
morbido, anzi, un bacio che non ammetteva descrizioni. Haylie
sedette sul bordo del letto, prendendogli le mani e offrendogli le sue labbra
ancora una volta, lasciando che le dita di Bill scorressero tra i suoi capelli
e approfondissero quel contatto che tanto desiderava quanto temeva.
Bill
non avrebbe mai voluto separarsi da lei, ma sentiva il
bisogno di guardarla, riempirsi gli occhi con la sua fragile e delicata
bellezza, rendersi conto di ciò che stava per fare.
La vide
ridacchiare, timida e bellissima, distesa tra le lenzuola che per troppo tempo
avevano sentito la mancanza di momenti come quello, mentre lui si sbottonava
velocemente la camicia e le dita gli si impigliavano
nelle asole. La vide sorridere raggiante anche quando inciampò nel tentativo di
scavalcare i jeans ammucchiati sul pavimento, la vide
tendergli le braccia mentre lui saliva sul letto e poi dopo, quando la liberò
del suo leggero abito azzurro, impaziente come poche volte era stato.
Sentiva
qualcosa di nuovo, quasi estraneo, un desiderio così urgente e violento che non
cercò nemmeno di metterlo a tacere. Era qualcosa che
andava ben oltre la semplice voglia di sentire la sua pelle calda sotto le
dita, di toccare e baciare ogni centimetro del suo corpo esile.
Non
seppe dare un nome a quel “qualcosa”, ma si ritrovò a
desiderarlo ancora con lo scorrere dei minuti, anche quando smise di chiedersi
quanto tempo fosse passato e Haylie si addormentò tra
le sue braccia.
Le
lacrime, i silenzi, i segreti erano finiti. Avrebbero ricominciato, e
l’avrebbero fatto nel modo migliore.
Bill pigiò velocemente il campanello, dandogli appena il tempo di
suonare, e attese. Sapeva che Simone, sua madre, non avrebbe chiesto “Chi è?”
come faceva di solito. Con lui, non lo faceva più da tempo: solo Bill non
prolungava il contatto con quel tasto per più di mezzo secondo. Quel trillo gli
dava quasi fastidio.
Infatti, la porta si aprì pochi istanti dopo, rivelando una donna
dall’aspetto giovanile, con un elegante caschetto
biondo e uno di quei sorrisi che non le riusciva mai
troppo difficile dispensare.
- Tesoro! Come mai qui? – Bill stiracchiò le labbra in un sorriso che
aveva smesso da tempo di assomigliare a quello di sua madre.
- Niente, ero di passaggio e volevo salutarti –
- Perché non ti fermi dieci minuti? Anzi… - Simone diede una rapida occhiata all’orologio che teneva al
polso. – Se aspetti che torni Gordon, puoi
cenare con noi –
- No, grazie, mamma – rispose lui con una nota di stanchezza nella
voce. – Preferisco tornare a casa. Sono solo passato a salutarti –
Simone sospirò appena, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco. –
Bill, perché invece che stare sempre solo non… - Il ragazzo la interruppe con
un rapido gesto della mano.
- Mamma, per favore – Lei lo guardò interdetta, e lui riuscì a tirare
fuori un sorriso un po’ più convincente. – Lo so che ti preoccupi per me. Ma sto bene, davvero – Simone si strinse nelle spalle.
- D’accordo – disse. Sorrise, toccandogli una spalla
con la mano. – Domani che fai? –
- Vengo a lavoro, no? –
- Certo – Simone gli sfiorò una guancia con una carezza, e Bill si
chinò a baciarla su entrambe le guance, più che altro per evitare che il
discorso si allungasse. – Ciao, mamma – Lei fece per
rispondere al saluto, ma fu bloccata dal telefono, che cominciò a suonare
proprio in quel momento. Bill sorrise, incitandola a rientrare. – Vai, vai. Ci vediamo domani –
Non avrebbe negato di provare un certo sollievo, quando si trovò fuori dal portone. Non poteva farci nulla, per quanto cercasse di evitare che sua madre attaccasse con la sua
solita ramanzina, era lui il primo a farle visita ogni giorno. Erano stati
lontani per troppi anni, era stato troppo preso dal suo lavoro
–anche se adesso dubitava addirittura di poterlo chiamare così- per
curarsi del loro rapporto. E adesso voleva
semplicemente recuperare il tempo perduto.
Almeno con lei questo era possibile, pensò
tristemente, cominciando a rovistare nelle tasche alla ricerca delle chiavi di
casa.
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Buongiorno
^^
Come
promesso, eccomi con il mio nuovo lavoretto. Sarebbe il seguito della mia
precedente fic “dimentica”, ma
ho cercato di renderla leggibile anche per chi non la conoscesse. Avevo
preparato le mie proverbiali illustrazioni (una a capitolo, sigh!) ma ho uno scanner
deficiente e potenzialmente diretto nella spazzatura.
Spero che mi renderete partecipe delle vostre impressioni. Valgono i soliti disclaimer: i Tokio Hotel non mi appartengono, e questa
storia non è scritta a scopo di lucro, ma per ciò che a Catania vien definito “malu’cchi’ffari”:
ovvero, non aver nulla di costruttivo da fare.
Ah,
dimenticavo: la canzone usata è “Nessuno” del grande (e mio amatissimo) Raf.