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Autore: Wemil    15/09/2008    3 recensioni
In un mondo in cui gli unici colori esistenti sono il bianco e il nero, si palesa, improvvisamente il rosso. Una metafora nuova e imprevedibile che cerca di spiegare il concetto di fede e sul perchè ci domandiamo: "Dio esiste?".
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bianco, nero e rosso

Come in fumetto fatto con china e pazienza, come gli schizzi di un pittore fatti con la matita prima d’intingere i pennelli, come un vecchio e nostalgico film di Stanlio e Olio: così, in una galassia lontana lontana, distante dalla Terra migliaia e migliaia di anni luce, esisteva un pianeta, Aura, simile al nostro, ma privo di tutto ciò che noi definiamo colore.
Un Sole, bianco e luminoso come un faro nella notte, illuminava stupende e immense cascate colorandole di un intenso grigio; città caotiche, moderne e rumorose con pubblicità freneticamente nerette, grigiastre, di un bianco sbiadito, di un bianco splendente; gente con pelle nera come il carbone, altra con un colore tendente al bianco latte; oscure foreste con giovani boy-scout con la loro tipica tuta color della cenere che cantavano sotto la tetra notte attorno ad un bianco fuoco.
Un mondo normale, con le sue disgrazie e le sue gioie, i suoi pensieri e i suoi ricordi, le sue vite e le sue morti, le sue guerre e i suoi amori con una sola e unica distinzione dal nostro: il “colore”.
Non sappiamo perché in quel mondo non esistesse il colore: forse per strani fenomeni scientifici, forse a causa di uno strano dio con delle idee un po’ bislacche, forse per un rapimento epico della dea Iride; fattostà gli abitanti di Aura non avevano mai visto, mai conosciuto, mai provato e, ovviamente, non avevano mai sentito la mancanza di “quelle cose” che noi chiamiamo “rosso”, “verde”, “giallo” e così via.

Successe a Vara, un centro industriale della repubblica di Losanda, ed era il quattro augileo 1260, la signora Claudia Farat aveva appena finito il suo lavoro da centralinista all’ente “Verta”; era un lavoro pedantemente noioso, soprattutto per lei ch’era uscita a pieni voti dall’università di radio-telecomunicazioni, ma bisognava accontentarsi in quel periodo di piccola crisi economica: in fondo, grazie anche al lavoro del marito e al suo magro stipendio si poteva garantire uno stile di vita più che decente.
Claudia guardò l’orologio: le 20:76, fra un po’ sarebbe spuntata Ilia, il fantastico satellite che faceva innamorare tante coppie su Aura; anche lei e suo marito si erano dichiarati il loro amore sotto quella splendida luna.
Sorrise, pensando a quelle romantiche sciocchezze, mentre prendeva, a piedi, Corso Giovanni Serenti, generale dell’XI secolo… e lì successe il dramma o, forse, il miracolo.

Corso Giovanni Serenti era una larga strada alberata, con latifoglie, denominati irici, simili alle nostre quercie: in quel periodo dell’anno le foglie degl’irici passavano dal loro classico bianco argentato dell’assolato periodo geniulare ad un nero bruciacchiato tipico del gasta e, poi, pian piano si lasciavano morire, cascando lievemente verso terra, sospinte dal vento.
La centralinista non amava, né odiava quel periodo: come la maggior parte delle persone della sua società si disinteressava completamente di quel periodo dell’anno prediligendo la bianca neve derentale o le calde spiagge geniulari.
Ciononostante non poteva fare a meno di esimersi da non notare il movimento delle foglie degli irici sia perché, quando cascavano, ce n’erano migliaia e migliaia sia perché, a causa dei pollini, emanavano un profumo estremamente dolce e benevolo per le numerose asme che colpivano i cittadini di Vara.

Senza farci caso, vuoi per la stanchezza vuoi per l’abitudine, Farat avanzava tranquilla quando, improvvisamente, si fermò.
C’era qualcosa di strano lì avanti… avanzò di qualche passo per vedere meglio.
Strabuzzò gli occhi e, quindi, fece immediatamente qualche passo indietro.
Che cos’era quella cosa che aveva di fronte?
Cosa poteva essere?
Non riusciva a comprenderlo, non riusciva a capirlo…
All’incomprensione e alla meraviglia iniziale per quello che aveva visto seguì rapidamente il terrore per lo sconosciuto e si chiuse gli occhi gridando a squarciagola una specie di strano lamento.

Molti passanti si girarono a guardare meravigliante quella strana scena, pochi si fermarono.
"Cosa succede signora?" le chiese Marco Serafini, uno dei “pochi”, studente alla facoltà di psicologia.
La signora lo guardò con uno sguardo attonito e poi indicò con la mano la pianta d’irice che gli stava di fronte.
"Là… là ho visto una cosa che… che…"
Marco, grazie ai numerosi tirocini come spalla a innumerevoli psicologi, sapeva come trattare una persona presa dal terrore (e forse dalla pazzia): bisognava assecondarla.
"Bene, ora vado a vedere. Ma lei stia calma per favore…"
La signora di trentaquattro anni, che in quel momento sembrava però più anziana di una decina di anni, tremando scosse la testa in maniera affermativa.
Marco avanzò verso il punto che gli aveva indicato la donna: come aveva immaginato non ci vedeva niente di strano.
"Non vedo niente che possa averla scioccata. Forse lei ha bisogno di un qualche aiuto! E’ fortunata sa, io…"
"GUARDI PER TERRA!" l’interruppe, urlando, la centralinista.
Facendo un sospiro, il novello psicologo volle ancora accontentarla: guardò per terra e…
Anche lui strabuzzò gli occhi e poi corse a rifugiarsi vicino alla signora, incapace di comprendere quello che aveva visto.

Sotto quell’albero d’irice, fra migliaia e migliaia di nere foglie bruciacchiate ce n’era una… una sola soltanto che si differenziava dalle altre.
Era ROSSA.

Difficile dire cosa accadde in seguito: la gente iniziò ad avvicinarsi incuriosita; la signora Claudia, presa da un impeto di coraggio raccolse la foglia nascondendola ai più; coloro che l’avevano vista chiedevano di poterla rivedere per poter capire che cosa fosse; poi un consiglio, forse da Marco… di scappare rapidamente a casa; Claudia che iniziava a correre a precipizio verso casa; l’inseguimento di alcuni “che avevano visto”; l’arrivo a casa appena in tempo.

A niente valse il tentativo di Claudia di voler nascondere quella foglia d’irice color del sangue: in un’ora, grazie alle tele-radio private dei telefonini, tutta la città già sapeva del fatto e nel giro di due ore la televisione di stato stava già facendosi strada, a forza di spintoni, fra le migliaia di curiosi che stavano di fronte alla casa della centralinista, ansiosi di assistere a quello strano miracolo.
Claudia, ormai consapevole di ciò che aveva in mano, volle accontentare i suoi “fedeli” e mostrò con vanagloria, dal bancone di casa sua, il suo cimelio: fu un tripudio, gente che urlava, vecchi che svenivano sentendo molte realtà distrutte, bambini che si mettevano a piangere, donne che gridavano al miracolo.
La televisione trasmise la notizia e, pian piano, la novità fu conosciuta a livello mondiale: ciò però accadde gradualmente perché oltre i media stranamente filmavano solo una vecchia foglia d’irice malandata color nero, neanche troppo scura.

L’ex-centralinista divenne, nel giro di pochi giorni, una delle donne più venerate del mondo: dottori di tutto il mondo gli offrirono miliardi di crediti per poter donare quel cimelio nelle mani della scienza, i più grandi esponenti religiosi mondiali s’accodarono per poter prendere quella reliquia ch’era evidentemente la dimostrazione dell’esistenza di Dio, eccentrici miliardari arrivarono con valigette piene di contanti desiderosi di poter arricchire le proprie collezioni con quell’oggetto unico, fantastico e irrepetibile.
Ma la maggior parte della gente arrivava lì per curiosità, venerazione e angoscia: una realtà bicolore era andata, in una passeggiata, completamente distrutta e troppi erano gli individui che “se non vedevano non credevano” e, per lenire a quest’ignoranza, la signora Claudia Farat aveva trasformato la sua casa in un modesto museo con la sola foglia come cimelio e un prezzo per poterla ammirare a dir poco esorbitante.
Paolo DetMoller era uno di quei tipi curiosi che aveva pagato tale spesa: egli era uno scrittore di romanzi rosa di successo che viveva con la sua famiglia in uno stato confinante.
DetMoller non s’era mai posto seri dubbi sulla religione o sulla presenza di altre realtà ma era sempre stato affascinato da ogni tipo di racconto paranormale e fantascientifico e questa storia non faceva eccezione; quindi, lo scrittore, pagò senza batter ciglio il conto salato ed entrò incuriosito nella casa della centralinista.
Al centro del salotto, improvvisato a sala, c’era la teca, sorvegliata da alcuni poliziotti, con all’interno la foglia rossa: quando Paolo la vide, un qualcosa di prezioso si ruppe irrimediabilmente.
Lo scrittore si avvicinò alla teca incantato e meravigliato di ciò che stava guardando…
"Mi scusi, signore" lo fermò la guardia: "ma non può avvicinarsi più di così! Motivi di sicurezza"
Senza ascoltare, il romanziere proseguì verso la reliquia…
"FERMO!" lo intimò anche la seconda guardia.
Quel giorno, il quattro ferense 1260 alle ore 2:95, la teca della foglia rossa venne rotta da un preciso pugno del signor Paolo DetMoller e il suo contenuto volò via distruggendosi lentamente nell’aria come ogni normale foglia d’irice che restava staccata dall’albero per più di trentatre ore.
Quel giorno fu ricordato dagli storici come: “L’inizio dell’eresia del colore”.

Appena la notizia divenne pubblica iniziò una dura diatriba su come condannare DetMoller.
Ad assistere al processo c’erano esponenti di ogni categoria e fazione: avvocati di grido, fedeli religiosi, capi di stato che avevano visto la foglia, semplici curiosi e ovviamente la signora Fermat e famiglia, la famiglia del signor DetMoller, l’accusato stesso, il giudice, la giuria, il notaio scrittorio e così via.
Si dibattè a lungo ma la scelta della corte, composta per la maggior parte da persone atee convinte, decise a difendere la giustizia e scettiche sull’esistenza di colori diversi dal nero, il bianco e il grigio, fu la seguente: “Il signor DetMoller, viene considerato dalla giuria scelta secondo il sistema giudiziario della repubblica di Losanda: non colpevole. Condannare una persona per aver distrutto una foglia d’irice non rientra nel codice giuridico della repubblica di Losanda”.
Concluso il giudizio l’unico a gioire fu il signor DetMoller e famiglia: ma fu una gioia che durò poco; il signor DetMoller e il rappresentante della giuria che aveva letto il comunicato di assoluzione vennero entrambi uccisi da una folla inferocita di fedeli che li aspettava al di fuori della struttura di giudizio.

In contemporanea, in Nuova Dasilea, uno stato poco più a nord, si formava “Il Sacro ordine dell’irice” creato per rivelare e comunicare a tutti la verità sui colori e sull’impotenza dell’uomo di fronte all’inconoscibile tramite la comunicazione orale e la costruzione di templi per adorare i rivelatori e per condannare il traditore, simbolo del peccato dell’uomo.
Da tutt’altra parte del globo la CIS (Comunità Internazionale Scienziati) iniziava il suo lavoro di ricerca dei colori riscontrando forti disordini interni fra coloro che avevano visto, coloro che si fidavano di coloro che avevano visto, coloro che non si fidavano di coloro che avevano visto e coloro che ritenevano tutta questa storia un’immane sciocchezza.
Lo stato del Wargzana, al contrario, caratterizzato da una forte regolamentazione religiosa, iniziò una dura repressione contro gli “adoratori del rosso” poiché andavano contro il volere di Dio che aveva predisposto solo il nero e il bianco e con essi aveva plasmato il mondo e l’Universo.
Simile evento accade nelle Università delle Repubbliche Confederate di Jakarra dove la comparsa del “rosso” fu bollata, dagli scienziati di stato, come un’eresia scientifica al pari del creazionismo wargzano, dell’ufologia comparata e delle correnti eteree universali.

E così via: in tutto il mondo ogni persona, ogni fazione, ogni ideologo volle dire la propria sull’argomento “rosso”. Filosofi iniziarono a scrivere libri su libri per spiegare come il Rosso, Dio e la Filosofia fossero la base di tutte le cose; preti e vescovi salirono sui pulpiti per rilevare come la salvezza fosse giunta quel giorno ma l’umanità ne avesse sfruttato solo il mero valore commerciale; scienziati che non credevano scrivevano contro-libroni dal titolo: “Rosso, Dio e Filosofia: le tre cose più sciocche inventate dall’uomo”: ma bene o male, nessuno riuscì a trovare una vera risposta sul cosa fosse veramente quel colore e, quando chi aveva visto morì, nessuno riuscì a dimostrare che tale colore fosse esistito realmente.

La fede per il colore portò l’uomo alla pazzia poiché cercava in esso risposte che non poteva dargli.
E gli Auriani rimasero così senza risposte e forse, dopo migliaia di anni di discussione, continuano a chiedersi senza alcun vero motivo logico: il rosso, esiste?

  
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