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Autore: rachel_hetfield    18/08/2014    4 recensioni
[tratto dalla storia]
Non me lo sarei mai immaginato così. Pensavo fosse una specie di principe azzurro, un po’ come accade nelle favole, incontri magicamente un uomo che ti fa battere il cuore all’impazzata, magari a bordo di qualche bella moto o bella macchina, e invece stava seduto lì, silenzioso, con un bicchere in cartone in mano, le gambe accavallate.
Mi avvicinai lentamente, squadrandolo da capo a piedi. Lui ricambiò gli sguardi e si mise in piedi mantenendosi a distanza.
«Sei Lauren?»
Mi sentii mancare quando sentii la sua voce. Gli assomigliava. Assomigliava alla voce di Derek.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Passi frettolosi, alcuni meno nervosi, i neonati nei passeggini, schiocchi di baci, camerieri, posate che graffiavano i piatti, bicchieri che tintinnavano, le telefonate e le ordinazioni. Era tutto così naturale e usuale, eppure tutto era così frenetico che mi confondeva, non sapevo a chi o a cosa prestare attenzione. Mi piaceva stare a sentire le persone parlottare cercando di catturare le loro conversazioni, delle volte qualche fidanzato portava a cena la propria donna per chiederle di sposarlo, oppure finivo sotto gli sguardi curiosi di ventenni universitari all’ora di pranzo, distrutti dalla loro vita da studenti, magari in cerca di distrazioni. Mi sedevo al solito posto, ogni giorno, alla stessa ora, nella speranza che qualche parola mi uscisse e la digitassi. In realtà le parole le trovavo, ma non appena scrivevo due righe, le eliminavo, e ricominciavo daccapo a scervellarmi. Mi guardavo intorno, aspettavo impaziente, cercavo l’ispirazione ovunque, consumavo il mio croissant e il caffellatte, lasciavo i soldi accanto alle consumazioni e andavo via.
Una monotona vita da scrittrice in crisi. Non pubblicavo un romanzo da più di un anno, e la casa editrice ne richiedeva uno nuovo, ma niente, non avevo argomenti da trattare o storielle da raccontare.
Quella mattina mi alzai stanca, senza voglia di uscire. Nemmeno le tre chiamate consecutive di Rosalie mi smossero, solo la risata contagiosa di Carla – o Carlita, la mia simpatica vicina di casa di orgini spagnole – mi sollevò di poco il morale. Decisi di fare una doccia, e quella doccia anche aiutò a riprendermi dalla notte precedente passata con una penna e il blocco degli appunti in mano, senza appuntare nulla.
Dopo la doccia presi il portatile e uscii, come al solito, al bar, che si chiamava All Blue. Amavo quel posto, era così profumato, di mattina di cornetti appena sfornati e di caffè, con un’atmosfera rilassata e mattiniera, dall’ora di pranzo fino alla sera si sentiva odore di cibi come carne, sandwich, portate di formaggi e stuzzichini vari, dove era tutto più caotico e affollato.
L’odore pungente del caffè mi raggiunse, proveniva dal bancone. C’erano quattro ragazzi, seduti più o meno uno davanti all’altro: gli ultimi due erano uno di fronte all’altro, il terzultimo si sporgeva verso di loro e il primo stava di spalle, poggiato sul bancone. Tutti e quattro bevevano il proprio caffè. Sulle spalle tenevano gli zaini semiaperti dai quali fuoriuscivano dei libri, studenti. Uno di loro, quello di spalle, non aveva uno zaino o una borsa, ai suoi piedi c’era una custodia, che molto probabilmente conteneva una tastiera, firmata CASIO. Uno di quelli che suonavano per strada, immaginai. Magari non conosceva nemmeno gli altri tre.
Accesi il portatile e come al solito, aprii quella maledetta schermata, quel foglio bianco, zero caratteri, zero parole, zero ispirazione. La osservavo, ci pensavo, e poi mi innervosivo. Una coppia seduta al tavolo davanti al mio, che era sempre all’angolo, si scambiava carezze e gesti dolci, e lui le imboccava un cucchiaino pieno di gelato di color giallo vaniglia, e pensai ad una plausibile storia d’amore, ma ritirai immediatamente il pensiero di scrivere qualcosa come sentimentalismi e introspettività.
Sbuffai, e Mary Lou, la sedicenne che lavorava lì come cameriera, mi si avvicinò sorridente.
«Ciao Lauren» salutò poggiando le mani chiuse a pugno sul tavolo «ti porto qualcosa?»
Ricambiai il saluto. «Il solito caffellatte.»
«Ancora nulla?» domandò indicando con un movimento del capo il portatile acceso e non toccato.
Scossi la testa afflitta. «Non arriva mai quell’ispirazione di cui ho davvero bisogno. Tu ancora nulla?»
Capì al volo che mi riferissi al suo Justin, che l’aveva mollata la settimana precedente con una scusa più che idiota. Purtroppo lei era sempre stata parecchio innamorata di lui, era il suo primo vero ragazzo, e ci soffriva e tentava di riprendere quel rapporto così bello, troppo bello, il più bello che avesse mai avuto.
Anche la ragazza con aria triste fece di no con la testa. «Non risponde alle mie chiamate, mi ha esternata del tutto. Non esisto davvero più.»
«Troverai di meglio, sei giovanissima. Uno di quei ragazzi ti stava fissando mentre parlavi al telefono davanti alla porta, perché non vai a fare due chiacchere?»
Si voltò verso il gruppo in un largo sorriso, facendomi l’occhiolino. Si sciolse i capelli biondi legati sempre in quella coda professionale. «Ti porto subito la tua ordinazione.»
Le sorrisi di rimando e tornai al mio computer con la schermata vuota, e venni colta di sorpresa dal cellulare che iniziò a vibrarmi nella tasca. Era di nuovo Rosalie, ma non sarei andata in quello sutdio di nuovo, non ne avevo bisogno, ero guarita. Risposi solo per darle quella soddisfazione, ma le avrei dato del filo da torcere.
«Rose?»
«Lauren, grazie al cielo! Cerco di contattarti da stamattina, non ti fai vedere da tre giorni» fece la sua voce nervosa ma pur sempre di quella fermezza professionale.
«Se non vengo è perché non voglio» mi giustificai «non devo dare spiegazioni di quello che faccio a ventisette anni.»
«E io a quarantadue non posso starti dietro con tutto il lavoro che ho, ma ho fatto una promessa e non voglio venirne meno, non mi importa dei soldi, devo aiutarti e lo farò fino in fondo.»
Lou poggiò il caffellatte accanto al mio portatile e le sorrisi, con il cucchiaino lo mescolai con aria stanca.
«Mi hai aiutata, il tuo lavoro può dirsi concluso.»
«Non stai ancora bene, il tuo direttore me lo dice che sei in crisi, non produci da un anno ormai.»
Se fosse stata davanti a me le avrei riso in faccia. «Non posso sfornare un romanzo all’anno.»
«Oltre al fatto che hai un blocco che non ti fa scrivere, non frequenti qualcuno da quando è successo tutto quel disastro» continuò con le sue provocazioni, come per convincermi a tornare in quello studio psicologico del quale non me ne facevo assolutamente nulla.
«Vuoi farmi una seduta per telefono?»
Lei ringhiò in disapprovazione. «Ti voglio nel mio studio oggi pomeriggio, alle quattro e mezzo. Te lo chiedo per favore.»
Stavo per ribattere ma riattaccò, impedendomi di deviare il cortese invito. Mi poggiai sullo schienale della poltrona in pelle bianca sorseggiando il caffellatte. Guardai fuori dalla finestra, il sole era brillante nel cielo limpido, blu, senza nuvole. I ragazzi al bancone chiaccheravano animatamente con Mary Lou, e per un attimo tirai un sospiro di sollievo nel vederla pensare a qualcosa che non fosse il suo ex.
Riflettendoci, io non frequentavo qualcuno da un sacco di tempo. dopo lui, niente mi avrebbe aperta alla vita sentimentale, non ero abbastanza pronta, faceva male ricordare tutto.
Il direttore mi aveva proposto di scrivere di lui, della sua vita, della nostra vita, ma mi rifiutai, mi sarei sentita solo una stupida a crederlo vivo anche dopo un anno che ero sola.
Sola, senza nessuno che mi amasse.
Nonostante vari uomini si fossero fatti avanti in quei sette mesi di solitudine al bar, non mi aprivo a loro, per paura di ricevere quello che avevo già avuto. Consapevole del fatto che il destino non mi potesse far elo stesso torto due volte, continuavo a non avere fiducia, e proseguivo a “vivere” in solitudine.
Non era più modo di continuare a fissare la schermata vuota, frequentare quel bar isolandomi ancora di più, non uscire la sera...
Avevo bisogno di una svolta, di qualcuno che mi aiutasse a svoltare. E non di certo Rosalie, che con la sua sfacciataggine e irruenza mi costringeva a parlare di me e di come mi sentissi ogni giorno. E com’era che mi sentivo ogni giorno? Apatica, stanca, senza obiettivi.
Derek aveva lasciato una voragine troppo grande affinché si riempisse con qualcosa di materiale o qualcuno di fastidioso come la psicologa.
Mi alzai dal mio posto, e lasciai come sempre i soldi della consumazione sul tavolo. Chiusi il portatile e lo misi nella valigetta, uscendo dal locale accennando un sorriso a Lou che dettava il suo numero a uno dei tre ragazzi.
Tornai a casa mia, che si trovava a pochi metri da lì. Era una mattina abbastanza calda per essere all’inizio di ottobre, ed il cielo era insolitamente così limpido. C’era molta più gente che sostava sui marciapiedi approfittando del tempo improvvisamente bello e soleggiato, mentre i giovani erano tutti a scuola, all’università, o quelli della mia età, al lavoro.
Guardai l’orario dal cellulare, erano le dieci e venticinque. Non ero stata poi così tanto tempo all’All Blue, mi ero sbrigata prima del solito. E questo forse era già un segno. Mentre passavo accanto al negozio di antiquariato non potei fare a meno di notare un bellissimo giradischi, un po’ impolverato, ma mi piacque da subito. Involontariamente la mia vista offuscò quello che c’era dietro la vetrina e guardai il mio riflesso nello specchio.
Poche volte riflettevo veramente come fossi diventata, in un anno di tempo. Nemmeno li contai i chili che perdevo di settimana in settimana, e diminuivano. Forse in sei mesi ero riuscita a raggiungerne quarantasette, su cinquantanove che ne pesavo. Non tagliavo o curavo i capelli, quindi avevano sempre la monotona acconciatura liscia e lunga, di un biondo sbiadito, quasi bianco. Ero anche impallidita. Vedermi per davvero in quel momento mi risvegliò una voce nella testa che iniziò a dire “cosa fai, Lauren? Vuoi passare il resto della tua vita in questo modo?”
Io volevo solo continuare a vivere, non a sopravvivere.
Forse la seduta nel pomeriggio con Rosalie mi avrebbe dato quella spinta in più per permettermi di cambiare, non radicalmente, ma almeno per socializzare con qualcuno.
 
*
Raggiunsi lo studio di Rose mezz’ora prima, ero stufa di aspettare in casa senza far nient’altro che spazzare il pavimento e lucidare i mobili e i quadri appesi nel corridoio. Ripulii addirittura tutte le fotografie piene di polvere, quelle fotografie abbandonate che non guardavo più da troppo tempo. Tirai un sospiro, nostalgico, e accesi lo stereo. Non usavo più nemmeno quello. C’era sempre silenzio in casa, a meno che non ci fosse il rumore dell’acqua che scrosciava dal lavandino, dal lavello, o la lavatrice, l’aspirapolvere, le mie dita che battevano freneticamente sulla tastiera per poi eliminare di nuovo tutto quanto, la tosseo o gli starnuti.
Neanche parlavo se non al telefono. Ero rimasta senza amici. Nessuno metteva piede in casa mia da troppo tempo, e mi stringeva il cuore pensare che probabilmente solo il vento sarebbe entrato se avessi continuato così.
La porta dello studio scattò, e misi piede nell’atrio dove una ragazza, seduta sulla poltroncina, aspettava il suo turno. Non riuscii a darle un’età, aveva il viso di un’adolescente ma i movimenti di una donna. Mi sedetti sulla poltrona di fronte a lei, e la guardai per qualche secondo, poi distolsi lo sguardo temendo che se ne accorgesse e che la mettessi in imbarazzo.
«Sophie?» disse la voce di Rose dall’altra parte della porta di legno di ciliegio, poi la sua testa color rosso fuoco fece capolino nella sala d’attesa. Mi lanciò uno sguardo d’approvazione.
Mi iniziò a battere il cuore all’impazzata, senza un determinato motivo. Sentii improvvisamente calore alle guance, le gambe tremanti. Dalla porta uscì un ragazzo alto, molto magro, dal viso coperto da una barba folta e due baffi molto lunghi, e come copricavo aveva un cappellino di lana molto alla raggaeton.
«Kyle» mormorò un’altra voce, profonda. Mi voltai e un altro ragazzo, molto più basso di lui, lo guardava preoccupato dall’uscio. Poi uscirono dalla porta principale e se la chiusero alle spalle. Chissà cos’aveva, mi domandai.
Quella sensazione terribile non passava, ero ansiosa.  Vedere quel ragazzo uscire così dallo studio mi aveva intimorita, eppure frequentavo quel posto da parecchi mesi ormai, e non lo avevo mai visto uscire o entrare.
Passò circa una mezzoretta, e la porta principale che scattò mi fece sobbalzare. Entrò un uomo sulla quarantina, con le mani in tasca. La ragazza di prima uscì dallo studio e andò via, accompagnata da quello che sembrava suo padre: capelli neri come la pece, sguardo spento. Rosalie mi fece cenno di entrare, ero rimasta solo io come “paziente” lì dentro.
Lo studio non era mai apparso così diverso come quel giorno. Prima potevo vederlo come un luogo sicuro, dove potevo dire tutto quello che volevo, non volevo più sopportare quel peso. Ero stanca di rinchiudermi in me stessa, e raccontavo tutto a Rosalie, ma dopo quella mattina non ci riuscivo, non volevo sfogarmi.
Mi fece accomodare sulla poltrona davanti alla sua sedia, e mi stesi.
«Come stai, Lauren?»
Socchiusi gli occhi, guardandomi i le scarpe. Sospirai. «Sono stanca.»
«Di cosa?»
«DI essere sola.»
Sollevai le palpebre per osservarmi intorno. Rosalie era accanto a me, che prendeva appunti su un blocco note frettolosamente, mi girai dall’altra parte e vidi uno specchio, messo in orizzontale, lungo poco più del lettino su cui stendersi.
«Cosa vedi in quello specchio?» mi chiese all’improvviso, mi voltai e la guardai per poi posare di nuovo lo sguardo su quello specchio. Osservai il mio riflesso, come avevo fatto quella mattina stessa, e non vedevo altro che me rovinata. Ero rovinata. Non ero più la Lauren sorridente, allegra, spensierata dell’anno precedente. Quella Lauren si era come bruciata lentamente, lasciando dietro di sé una scia di bei ricordi, che non sarebbero mai potuti tornare, in nessun modo. Mi rifiutavo prontamente di ricordare tutto, per non sprofondare più in basso, anche se ero già al limite.
«Vedo la solitudine.»
«Tu non sei sola.»
«E invece sì» ribattei prontamente. Era un momento di estrema debolezza, un momento in cui lentamente stavano riaffiorando le scene del passato, stavano tornando a tormentarmi, a non lasciarmi dormire, a bruciarmi, di nuovo, fino a consumarmi. Ma non mi sarei lasciata consumare del tutto. Io volevo vivere, e volevo farlo davvero.
«C’è sempre qualcuno là fuori che ti sta cercando, anche se non ne è cosciente» prese a fare i soliti discorsi da deficiente che si improvvisava psicologa. «E non lo sai nemmeno tu.»
Sospirai silenziosamente. «Io lo avevo trovato.»
«Evidentemente non ti bastava.»
Scossi il capo e mi misi a sedere, sotto lo sguardo rigido della psicologa. «Lo amavo, Rose, lui amava me, e questo bastava a rendermi felice.»
«Tu hai bisogno di aiuto, ancora, devi conoscere quel qualcuno che ti sconvolge, che ti faccia stare bene come Derek.»
«La cosa sta diventando ridicola, io me ne vado. Ho finito di frequentare questo studio...» mi alzai  dirigendomi verso la porta «quando vuoi, il mio numero ce l’hai.»
Uscii chiudendomi la porta alle spalle, tirando un grosso respiro. C’erano un paio di clienti che erano troppo assorti nei loro pensieri per badare a me, che mi strofinavo gli occhi pur di reprimere le poche lacrime che mi erano rimaste. Non dovevo piangere. Non volevo più essere debole.
Andai via a passo svelto, salendo in sella alla mia bici e andando a casa piuttosto in fretta, col batticuore, e la voglia di rompere qualcosa. Ero a pezzi ogni volta che qualcuno nominava Derek, ricordandomi quanto stessi bene insieme a lui.
Presi le chiavi e senza volerlo le sbattei all’interno della serratura. Poggiai la testa sulla porta, inspirando ed espirando, attirando l’attenzione di Carlita che stava innaffiando i fiori del suo giardino curatissimo.
«Tutto bene, señorita?» chiese con la sua voce, al solito, premurosa. Le rivolsi un sorriso e un ok con la mano, girai la serratura ed entrai in casa.
Accesi il portatile non per tornare a fissare quella schermata bianca, ma per accedere sul mio profilo Facebook che non usavo da tempo e di scrivere a quella che era stata la mia migliore amica finché non è successo tutto.
“Jenny, sono io, sono ancora viva, ma non credo ti interessi. Ho bisogno di te, adesso. Per favore.”
 
 
Writer’s wall
Eccomi! Innanzitutto mi voglio scusare con chi aveva letto Rotten, la precedente long  della quale avevo pubblicato il primo capitolo che poi è sparito.
Ho deciso di eliminarla perché non l’avrei continuata,  e poi in testa avevo già intenzione di scrivere qualcosa di diverso che i soliti casini stile Back To The Time.
Beh, questa è molto più introspettiva, diciamo che è la prima volta che scrivo qualcosa così, di romantico, solitamente io ci metto le storie d’amore all’interno di una vicenda piuttosto movimentata, come Back to the time.
Questa invece si incentra sui sentimenti della protagonista, di ciò che pensa, di come viene stravolta. Spero vi piaccia e che non vi annoi troppo, mi metterò presto a scrivere il secondo capitolo!
A presto, Angelica
  
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