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Autore: BlackPaperMoon    18/08/2014    1 recensioni
"La libertà non è altro che un mondo onirico, un effimero sogno, un qualcosa di irraggiungibile e sconosciuto che la mia bocca mai ha assaporato e la mia carne mai ha tastato. Si dovrebbe aver paura delle cose che non si conoscono, mentre io le desidero. Le desidero, assiduamente e tacitamente."
Una onechot introspettiva indirizzata a prima dell'incontro con Aladin e Alibabà, in cui è messo in risalto quanto Morgiana sogni di essere libera, quanto speri che quelle catene vengano spezzate, distrutte.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Morgiana
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Le dita della mia mano sfiorarono il terreno, convinte di affondare nel morbido terriccio della cella che sovente imbrattava le mie vesti stracciate. Sottili granelli roventi s'intrecciarono con esse, passando attraverso li spazi fra le dita, incollandosi al mio palmo, sfiorandolo, insinuandosi sotto le unghie lunghe, rotte, seghettate, private di ogni cura. Fu allora che un leggero fastidio mi pervase, al punto da portarmi a corrugare la fronte, gli occhi ancora serrati immersi in un'incessante dormiveglia. Chiesi pietà in silenzio, nel tentativo di impedire al sonno di abbandonare la mia carne. Fosse dipeso da me, avrei vissuto nei miei sogni.
In una dolcissima, appagante, inusuale illusione.
In un mondo onirico, partorito dai meandri più segreti e profondi della mente e del cuore.
Costretta a convivere con una realtà opprimente, in cui la libertà di viene strappata via dalle mani ad ogni levar del sole, nello stesso istante in cui le palpebre si dischiudono e il sonno ti abbandona.
Ma cos'è, la libertà? 
In che forma si presenta?
Possiede un odore?
Possiede un sapore?
Una consistenza?
Quesiti antichi, persistenti, mai risolti. Possibilità private, strappate, uccise, calpestate. Come la mia dignità. 
Schiava di un mondo a cui non appartengo, soccombo ai desideri di un uomo dal cuore di ghiaccio, se lo squarcio al centro del suo petto così si può chiamare. 
Io stessa, divenni ghiaccio.
Schiava di un circolo vizioso i cui i diritti si estinguono come bestie, astratti come mitologiche creature. 
Dovere è una parola a me nota, concreta, costante.
E' un secondo nome.
Schiava, semplicemente schiava.
Comprendendo che il sonno aveva ormai lasciato le mie membra, mi decisi a schiudere le palpebre pesanti.
Sabbia. 
Rovente, finissima e leggiadra sabbia.
Tutt'intorno alla mia persona si ampliava una distesa desertica ed io, in mezzo al nulla, ne ero completamente avvolta, divenendo quasi un tutt'uno con essa. 
Coricata al centro di un'infinita desolazione. Pur sempre migliore della mia cella fredda.
Percepii sulla pelle il desiderio di alzarmi in piedi, e decisi di assecondarlo facendo forza sulle gambe. Il caldo sole d'oriente baciò la mia pallida cute, la pianta dei miei piedi bruciava a contatto col suolo rovente. Ma mai avrei impedito che ciò accadesse, anche a costo di ustionarmi. 
Amavo il sole, l'aria pura, qualsiasi cosa mi sfiorasse senza arrecare il minimo danno alla mia carne. Qualsiasi cosa stesse all'esterno, fuori dalla mia prigione. 
Avevo da sempre la malsana convinzione che si collegassero alla libertà. Quando d'istinto abbassai lo sguardo verso le mie caviglie, scoprii con sorpresa di non indossare le mie catene. Perfino i segni violacei dei miei lividi erano scomparsi, e ciò mi parve strano. Insolito, come quel senso di leggerezza che mi pervase totalmente l'animo, il petto, il corpo, facendo palpitare il mio cuore più forte del solito.
In quell'effimero istante, percepii un suono sconosciuto.
Un infrangersi violento di qualcosa al di fuori delle mie limitate conoscenze, qualcosa che viveva solo nelle mie più remote fantasie. 
Era dietro di me. 
Voltai le spalle e si compì la meraviglia. cristalline e limpide acque, impregnate di sale, furiose come l'animo tormentato di chi ha vissuto sopportando supplizi infiniti, andavano a schiantarsi contro il suolo, alla ricerca di pace. Onde alte quanto le mura che accentuavano la mia prigionia, s'avvolgevano abbracciandosi per amplificare la forza dello schianto, provocando un rumore quasi cartaceo, sfogando senza ritegno la furia funesta e dissolvendosi poi in schiuma. 
Osservai meravigliata, mentre l'odore salmastro e pungente impregnava le mie narici senza domandare il permesso. E io lo invitavo a penetrarmi nei poloni, a invaderli completamente, quasi avessero il potere di ridarmi la vita.
Ero viva, ma non stavo vivendo.
Ero sveglia, ma mi trovavo in un incubo perenne.
Le mie membra si mossero meccanicamente, dando inizio a una corsa repentina verso la libertà.
La mia idea di libertà.
Ma cos'è, la libertà?
In che forma si presenta?
Possiede un odore? 
Possiede un sapore?
Una consistenza?
Le onde nascono col preciso compito di autodistruggersi, d'infrangersi contro la riva e gli scogli, di scomparire sotto forma di schiuma.
Allo stesso modo, io venni al mondo per servire, per svolgere mansioni scomode, per essere maltrattata, per provare sulla mia carne il cuoio di una frusta robusta come il legno. 
Per fare la schiava.
E ciò che comunque faceva più male dei colpi e delle parole cattive, delle catene che avvolgevano le mie caviglie, era l'essere collegata da una catena invisibile a colui che aveva in pungo la mia vita.
Ove l'onda muore, ove l'acqua s'infrange, la forza della corrente la risucchia indietro. Rinasce, non si arrende. Testarda, continua a provare. Quasi desiderasse sgretolare come sabbia le rocce e gli scogli. Con pazienza e costanza, quelle rocce di sgretoleranno. Trasportate da coloro che l'hanno resa poco più di un detrito, attraverseranno il mare fino al punto in cui non affonderanno nell'abisso profondo, divenendo un lontano ricordo.
Dunque, perché non posso farlo anche io?
Perché allo stesso modo non abbatto i miei infelici ricordi, i miei traumi infantili, il mio dolore represso?
Frammenti di vita che si dissolvono come ghiaccio al sole, dinnanzi ad un paesaggio mozzafiato, in cui il respiro può  solo morire in fondo alla gola, appunto.
Chi può opporsi, oramai.
Sono libera.
E se la libertà possiede una forma, è una distesa sabbiosa esposta al sole, in cui il mare troneggia incontrastato.
E se la libertà possiede un odore, è quello salmastro, forte e pungente.
E se la libertà possiede un sapore, è quello dell'acqua salata che t'invade la gola, bruciandola.
E se la libertà possiede una consistenza, è quella della sabbia, delle onde che ti s'infrangono addosso senza ritegno, accarezzandoti la pelle.
Incurante della spaventosa potenza dell'onda, mi sedetti sulla riva e attesi impaziente il momento decisivo.
A chi importa rischiare di farsi del male quando puoi assaporare la libertà?
Ed eccola, maestosa e imponente, si scagliò con forza inaudita addosso alle mie membra adagiate sulla sabbia umida, trascinandomi con se. Rendendomi sua, parte del suo essere, in un'improbabile fusione tra carne e liquido, tra calore corporeo e spirito gelato. Le mie vesti stracciate si fecero pesanti, impregnandosi di acqua, di salsedine, agevolando alle onde il compito di trasportarmi verso il fondale. E io mi lasciavo precipitare senza battere ciglio, appagata dalla sensazione della freschezza del mare che ti bacia la cute. Opposi resistenza solo quando venni colta dalla malsana idea di correre contro la risacca, di combattere incessantemente con essa in una lotta senza fine. I capelli grondanti, il corpo bagnato e il sorriso splendente a solcare le mie labbra perennemente incurvate. Fino ad allora non era stato che un gesto incompiuto a cui non viene data la possibilità di nascere. 
Avevo trovato la mia felicità.
Lo spiraglio di luce nelle tenebre.
Un senso a una vita vuota e priva di obbiettivi, di diritti.
Una vita non mia.
E mentre attendevo che l'ennesima onda mi attraversasse il corpo...
Un rumore metallico mi destò dal sonno profondo in cui ero caduta.

"Alzati, schiava. Il padrone ha chiesto di te."

Schiava.
Quella parola che da tempo immemore avevo inciso sulla mia giovane carne. Quella parola oramai faceva parte del mio essere.
Quella parola ero io.
Continuò a risuonarmi pesantemente nella testa, e quando avvertii il tintinnio delle catene, compresi tutto.
Non era stato altro che un effimero attimo, un regalo della mia mente, un desiderio inconscio, qualcosa che bramavo da quando ero nata. In catene. Eppure, si direbbe aver paura delle cose che non si conosce. Io non provavo timore alcuno, volevo solo assaporare la vita al di fuori dalla mia cella. 
Desideravo solamente distendermi su un prato, dormire sotto il firmamento in una notte fredda, correre verso il mare e sfidarne la corrente, le sue imponenti onde. Che c'era di sbagliato in un desiderio tanto semplice e innocuo? Perché queste catene? 
Perché quel filo invisibile mi teneva saldamente collegata al mio padrone?
Non ho scelto io questo fardello, ma com'è possibile che pur non avendolo desiderato non potevo disfarmene? 
I lividi violacei erano ricomparsi al loro posto, le mie caviglie strette nella morsa dei bracciali di ferro.
Un sogno, nient'altro.
Un qualcosa di astratto.
Di surreale.
Un desiderio onirico.
Qualcosa che non si sarebbe mai avverato.

  
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