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Autore: Fear    18/08/2014    2 recensioni
[Angst, bad ending; death, what if? – centric!Ene/Shintaro, implicit!Ayano/Shintaro]
Cit/: Come se fosse un gelido vento del nord, l'estate era per lui la stagione dai ferrei palmi e un velo di ciocche scure che avevano sempre danzato tra il nero ed il castano e che erano parzialmente eclissate da una sciarpa rossa. Quella sciarpa spesso non si abbinava ai vestiti che solitamente indossava, con quel colore pressoché irreale, ed era quasi il doppio della lunghezza che avrebbe dovuto essere: avvolta un paio di volte attorno al magro collo, continuava a discenderle il busto tremolante fino ai fianchi. [...]
Ene voleva solamente vedere il cielo, ma nonostante tutti quei suoi silenziosi capricci, i suoi occhi continuavano a splendere così impossibilmente che Shintaro credette sin dal primo istante in cui la vide, ed anche in quello stesso momento catturato nel tempo, che lei avesse il cielo proprio dentro di sé. [...]
• {scritta perché Takane amava Haruka, ma Ene aveva amato solamente Shintaro; 6007 parole}
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ayano Tateyama, Shintaro Kisaragi, Takane Enomoto/Ene
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Per non farla sentire sola, lui il cielo non lo toccava mai ;
( bastava solo socchiudere gli occhi )
 
 


Voglio precipitare, precipitare così lontano, precipitare così forte [...]
(io la chiamo verità, la chiamo magia, quando sono con te)


 
Non aveva mai nemmeno osato immaginare quante volte era arrivata la primavera da allora, però Shintaro fantasticava qualche volta su quella lunatica possibilità che almeno quell'anno – in qualche peculiare modo – la stagione tiepida e clemente durasse per sempre. Desiderava una primavera infinita perché sapeva che era lei, e solamente lei, quella che poteva guastare la stagione successiva, invidiandola; l'autunno l'avrebbe unicamente ricordata e se ciò fosse accaduto mai nel suo cuore si sarebbe completamente dissolta. Leggeva qualche volta di strani casi, nei quali l'estate approdava insieme a tutte le sue parole disperse nei cieli azzurri – sotto cui la gente viveva e moriva silenziosamente – nei primi giorni di Maggio, e svaniva soltanto dopo aver impregnato l'aria con un immutabile fervore, che secondo Shintaro ammattiva le persone. Come se fosse un gelido vento del nord, l'estate era per lui la stagione dai ferrei palmi e un velo di ciocche scure che avevano sempre danzato tra il nero ed il castano e che erano parzialmente eclissate da una sciarpa rossa. Quella sciarpa spesso non si abbinava ai vestiti che solitamente indossava, con quel colore pressoché irreale, ed era quasi il doppio della lunghezza che avrebbe dovuto essere: avvolta un paio di volte attorno al magro collo, continuava a discenderle il busto tremolante fino ai fianchi. Un giorno, Shintaro ricordò che la ragazza che aveva intrappolato l'estate nel suo sorriso, ammise di disprezzare la pioggia, ma lo disse in un tono tale che trasformò le sue poche parole in un dolce lamento, tanto buono come le gocce sporche che ormai bagnavano il terreno; quello era stato l'ultimo temporale ammirato durante il mese d'agosto, per entrambi. Il giorno stesso Shintaro condivise per l'ultima volta una debole risata prima del tramonto grazie a lei, la quale appena scorse un giovane gatto dalla folta pelliccia del colore della notte, che in poche ore avrebbe condotto alla luce centinaia di rocce infuocate nello spazio, si avvicinò e allungò una mano, serena. In una manciata di secondi Shintaro vide lei ed il felino senza alcuna distanza ad allontanarli; mentre quest'ultimo si strofinava rumorosamente contro le gambe di lei, la ragazza si accovacciò a terra, ignorando completamente le pozzanghere e l'asfalto fumante – che subito dopo la fine dell'acquazzone venne illuminato e riscaldato dal sole del tardo pomeriggio, stanco ma estremamente caldo – cosicché scivolò irrimediabilmente sulla carreggiata, sguazzando leggermente nella distesa d'acqua, poco profonda ma che bastò per infradiciarle la gonna e gli orli della sua sciarpa rossa. In quel momento Shintaro cercò velocemente la sagoma del gatto nero, e non trovandola ripose lo sguardo sulla fanciulla con la sciarpa, e solo ora notò che quel carezzevole insieme di tessuto aveva delle rifiniture intrecciate malamente e storte paragonate a quelle che vedeva normalmente in giro durante la stagione invernale.
«L'hai fatta te, la sciarpa, non è vero?», Shintaro non era un esperto, ma quel lavoro a maglia sembrava fatto di corsa con aghi troppo grandi e della lana disordinata. Come risposta, ricevette un'espressione sorpresa e allo stesso tempo imbarazzata non appena Shintaro le porse la sua mano per aiutarla ad alzarsi. Lei l'accettò senza apparente esitazione, rimettendosi sulle proprie gambe con il risvolto della divisa scolastica gocciolante, cosa che le provocò un amabile sbuffo e una smorfia di disapprovazione, forse della gonna sporca o forse della pioggia che tanto detestava. Shintaro studiò l'immagine del minuto corpo della ragazza, considerandola ancora oggi bellissima, anche con la sua frangetta disordinata ed il naso sporco di fuliggine, un insieme di dettagli che allora lo fecero stranamente ridere, e lei lo guardò dolcemente imbronciata, sapendo d'essere la causa di quell'inaspettata risata. Shintaro sorrise ed indicò la punta del suo piccolo naso, mentre lei si passò svelta la manica della camicetta color bistro – arrossendo ancora di più di prima quando sentì un tocco delicato sulla fronte, notando Shintaro con il suo solito sguardo perso in un mondo parallelo al suo, sistemarle i fini capelli con il pollice e l'indice, senza provocarle né fastidio né disturbo, con quel tenue e soave sfioramento di due corpi che sussurravano un'atmosfera amorosa. Il gorgogliare di un corso d'acqua vicino sembrava quasi cantare, avendo il sogno di strappare una stella dal cielo, però poi, timido ed incosciente proseguiva il suo viaggio, cogliendo solamente fiori sugli argini dei prati, considerando il cielo troppo lontano. Il cielo di cui lei s'innamorava giorno per giorno, ora dopo ora, invece era estremamente vicino e ci si perdeva dentro ad ogni sua pausa, ogni suo sguardo diventato legge per la sua anima che si era abbandonata ai suoi ordini, e come un passero si abituava alle stagioni che passavano, senza mai volere più luce o più oscurità – era diventata stupidamente dipendente da quel tocco.
«Sì, l'ho fatta io, questa sciarpa» disse la ragazza quando uno scomodo silenzio calmò di colpo l'ambiente, sprofondando il mento e le labbra ancora piegate in una mezza luna nella soffice lana, «così ho potuto giocare con loro dopo tanto tempo: Kousuke piange spesso, ancora adesso, soprattutto quando Shuuya gli ordina di recitare la parte del cattivo», un sorriso, niente di più, che si allargava sempre di più quando parlava della sua famiglia, Shintaro l'avrebbe descritto come un ritaglio di Paradiso. «Tsubomi ricorda loro ogni volta quello che le dissi la prima volta che giocammo, perché anche lei ci crede davvero: “siamo tutti degli eroi”, e a quel punto Kousuke smette di piangere mentre Shuuya si scusa toccandosi il capo», fece un passo avanti, stringendo con quelle fredde dita la giacca di Shintaro, chiudendo gli occhi; lui intuiva un profumo afrodisiaco di gelsomino intrecciato nei capelli della ragazza, mentre il suo volto era ancora lucente dalla pioggia, disciolto come salsedine. «Sai, Shintaro, il rosso ti dona davvero. Il rosso... mi piace, nonostante non abbia niente a che fare con me», Shintaro non avrebbe mai capito quella frase, neppure dopo uno o cento anni, sarebbe rimasta sempre un mistero, lei e il suo vago modo di esprimersi. Accentuò la presa guardando in basso, non si scorgevano lacrime, solamente un triste sorriso – ne aveva sempre uno per ogni occasione, come se fosse una collana o un anello – , lo indossò anche quando alzò gli occhi, di qualche gradazione più chiari di quelli di Shintaro, anche se più volte aveva ripetuto di desiderare un colore totalmente differente. «Il rosso è il colore degli eroi».
Il profumo di Ayano lo inebriava, e non gli permetteva di amare più nessuno.



Solamente una finestra in quella stanza; troppo lontana da raggiungere per una donna di media statura, se non in piedi su uno sgabello per sbirciare l'infrequente movimento di persone a pochi metri di distanza. Le tende erano state appese alla finestra non molto tempo prima, e Shintaro le osservava spesso rivoltato: pendevano formando irregolari e polverose pieghe ad ogni minimo sbuffo di vento, erano solamente limitati centimetri più lunghe dell'infisso stesso e metà dell'involucro giaceva già fuori dalla rotaia, trasparente con un spruzzo di bianco, assolutamente anonime, sottili quanto un grembiule estivo. La mattina, la luce inondava le pallide pareti attraverso esse troppo facilmente, come se non ci fossero affatto.
«A cosa stai pensando, Padrone?», il contenuto spettrale di quel suono determinava il timbro della piccola ed infantile voce di Ene; avrebbe potuto volentieri alterare quella sua voce squillante – un modo, dopotutto, c'era di sicuro – in una più professionale, trasformando quel rumore in un accento più sensuale – Shintaro non gliel'avrebbe mai detto, mai proposto. Un eco si frantumò al confine tra lo spesso vetro del moderno computer di Shintaro ed il mondo virtuale di Ene; le sue piccole mani erano spesso congiunte allo schermo, capaci solo di quello e di combinare guai, nonostante non avessero alcun calore ed il vetro risultasse sempre freddo. Sembravano quasi due candide stelle marine osservare un pianeta sconosciuto, di cui non avevano mai fatto parte, curiose di far parte d'esso, anche se isolate da una lastra contraffatta ed innaturale.
Ad Ene piaceva mettere a disagio il suo Padrone.
Anche alle domande più banali e comprensibili, Shintaro non sapeva mai come rispondere. Ed Ene fruiva di quella sua adorabile risata, che era luminosa, e alacre come i denti di leone volare nei giorni più caldi, giungendo dalla campagna sino all'occupata città, provocando dei gioiosi sorrisi da parte dei più piccoli e qualche starnuto da parte di altri; era unico quel suo movimento di spalle ed il modo in cui fluttuava tra il complesso di icone e finestre di programmi aperti ed accesi sul monitor del computer per tutto giorno, ininterrottamente, occultando tutta la vita – o almeno la parte di cui Ene aveva fatto, e faceva parte – di Shintaro. Smise di ridere, come sempre non condivisa, e scosse la testa e la sua buffa acconciatura: due bizzarri codini elargivano un'atmosfera bambinesca, accompagnati da un colore tanto ordinario quanto incomparabile. Il loro era un pigmento complementare al prediletto dell'infanzia di Shintaro, che assorbiva il suo tepore, del cielo limpido o del mare vicino alle coste, che dava una strana dipendenza dagli svariati siti presenti sulla rete, dei collegamenti di cui Shintaro spesso si dimenticava il nome. «Ene, che giorno è oggi?» chiese ad un tratto il ragazzo, appoggiandosi sullo schienale della sedia girevole ad osservare il soffitto. Le luci su di esso non potevano essere chiamate lampadine, tantomeno vere e proprie luci; erano delle proiezioni create dall'apparecchiatura che Shintaro aveva comprato ed ordinato qualche mese prima, con quelle radiazioni luminose ed artificiali le stagioni non mutavano mai, e per Shintaro sarebbe stato sempre primavera; una temperatura costante, le voci ordinate, vortici di tranquillità e di un sole che sapeva perfettamente quando presentarsi e quando dissolversi. Ene alzò l'angolo sinistro della bocca e storse il naso in un'espressione leggermente sorpresa, che rischiarì le sue iridi oceaniche: a Shintaro deliziavano gli occhi di quel suo stupido virus, un cortocircuito dentro un ambiente quasi perfetto – quei suoi occhi non li avrebbe mai descritti come blu. Perché sarebbe stato come esporre il sole con il colore giallo; sufficiente per dare l'idea di una vivace gradazione, ma non abbastanza per catturarne la fiamma. Gli occhi di Ene erano i candeggiati petali dei non ti scordar di me, zeppi d'inchiostro di una penna stilografica oppure di un pastello a cera, sempre lucidi come le acque di un fiume in cui Shintaro avrebbe potuto nuotare in tutti quei secondi spesi ad ammirare foto sul web, di un gioiello di cianite, di un fantasma dispettoso, che quando non gli si parlava per tanto tempo s'intristiva, arrivando a toccare il cielo di un tramonto che i suoi occhi non avevano mai visto.
«Oggi è il quindici di agosto, Padrone, è una bella giornata e il sole è terso nel cielo», come se per lei facesse differenza. Abbassando il capo, tornando ad un postura normale, Shintaro fissò le guance vagamente gonfie in un impercettibile sbuffo, e le palpebre basse, che insieme le ciglia e la frangetta sbarazzina le coprivano parzialmente il viso. Ene si lamentava spesso, lo fanno tutti, pensava Shintaro, però il motivo per cui non la riprendeva mai su questo argomento era il suo tema principale: il cielo, quel cielo che mai vedeva e di quell'aria che mai respirava, soffocando di continuo tra l'afa del vento virtuale e delle luci da circo, «anche se non potrei mai confermarlo di persona». Ed ecco che lo faceva un'altra volta, girandosi verso l'infinito di risorse e documenti contenuti nelle numerose cartelle, frustrata di quel confine che senz'altro non si trattava solamente di vetro, ma di una barriera invisibile che nessuno avrebbe potuto distruggere, nemmeno lui.
Ene voleva solamente vedere il cielo, che si trattasse di quello descritto in rete quel giorno o che fosse uno coperto da un tappeto di grigie nuvole, che fosse anche malamente colmo di pioggia, di quella che lei chiamava elettricità naturale, o di neve. Ma nonostante tutti quei suoi silenziosi capricci, i suoi occhi continuavano a splendere così impossibilmente che Shintaro credette sin dal primo istante in cui la vide, ed anche in quello stesso momento catturato nel tempo, che lei avesse il cielo proprio dentro di sé.
Shintaro si alzò dalla comoda seduta ed a passi lenti avanzò verso la finestra, fermandosi davanti ad essa; il suo sguardo lo portava ad osservare quelle orribili tende con un'anormale sensazione di una reminiscenza dimenticata. Mentre il velo nitido perdurava ad ondeggiare nell'aria, Shintaro ne ispezionava le forme, mentre Ene gli domandava se tutto andasse bene – e qualche altra istanza che non fece tempo ad arrivargli alle orecchie. Quando rialzò il volto, questa volta cercando oltre il tessuto, oltre il vetro appannato della finestra, avvertì la presenza di alcuni schiamazzi provenire da fuori, in strada. Così – esitando per quei pochi istanti necessari, temendo di non avere un completo controllo di sé stesso – guardò. C'erano due sagome al termine della via: una era femminile ed apparteneva ad una fiorente donna dai corti capelli corvini con un foulard rosso al collo e il braccio destro teso, con il palmo stretto da un altro, decisamente più minuto, così come la figura del bambino in pantaloncini, indossati a vita alta, sopra una maglietta verde. Quella che Shintaro pensò fosse la madre, aveva un'espressione rassegnata in viso, guardava il figlio cercare di acchiappare la bandana sottratta dalle sue mani durante un'improvvisa folata di vento; era così lontana, e in poco tempo superò persino l'altezza delle case nel vicinato. La bandana venne trasportata troppo distante, e così la donna accarezzò debolmente i riccioli castani del bambino; non c'era cosa più brutta che vedere la delusione negli occhi di una madre. Ma quest'ultima sorrise ugualmente, muovendo le labbra e pronunciando qualcosa che Shintaro non avrebbe mai potuto capire, sfilandosi il fazzoletto rosso che aveva al collo e legandolo in capo al figlio, mentre quest'ultimo l'abbracciò di ricambio. Shintaro sussultò, indietreggiando e inghiottendo una minima quantità di saliva, nonostante la sua bocca e lingua fossero asciutti, accompagnato dalla crescente sensazione di perdita e nostalgia deteriorante. Violentemente, chiuse di colpo la finestra, facendo trasalire Ene, che aveva osservato la scena dalla sua angolazione, con la coda dell'occhio ed il respiro corto.
«Padrone, vogliamo giocare all'ultima versione di quel videogioco che abbiamo scaricato ieri?», Ene non si era mai veramente preoccupata per Shintaro, lui era un tipo eccentrico, ed il suo isolamento con il resto del mondo le aveva permesso di conoscerlo meglio, ma non l'aveva mai visto spaventato prima d'ora. Lui si girò e la guardò, invidiandola, invidiandola ed arrabbiandosi alla vista di quel suo sciocco sorriso, con il suo vizio di voler avere sempre l'ultima parola su tutto, accompagnandolo ogni giorno contro la sua volontà. Ciò nonostante, come sempre, non disse nulla.



I minuti che volteggiavano attorno a mezzogiorno portavano insieme a loro un intreccio di essenze nuove e, malgrado la finestra fosse stata da prima accostata a poi serrata per avvilire i profili delle tenebre di un ricordo che sembrava quasi giocare a nascondino con un cuore, l'aria fluiva come un liquido opalescente attorno al corpo disteso a pancia in su di Shintaro, senza avere nessun'altra possibilità se non quella di inalarla. Mosse appena il braccio dagli occhi – senza aver ricevuto nessun aiuto dal quel gesto, senza che quel mal di testa cessasse per un solo secondo –, stendendolo lungo il busto e le anche, strofinando riverentemente le dita contro il materasso in seta. Premette la guancia sul fresco cuscino di cotone: la trapunta era spessa e irresistibilmente morbida, deformabile come una nuvola scura. Aveva caldo, faceva caldo, e presto sarebbe ceduto al richiamo del sonno se non fosse stato per la stessa voce che lo risvegliava ogni volta dai suoi pensieri; questa volta era dolcemente incurvata e si poteva notare una nota di apprensione e timidezza.
«Padrone, stai bene, vero?», Ene sembrò quasi fare capolino dal lato sinistro dello schermo: la sua esile figura era piccola, in quel momento perfino tascabile. Shintaro la guardò, fingendo quell'interesse che provava meramente per quei suoi due occhi marini. Avrebbe voluto chiederle la sua vera età, da dove venisse, chi fosse il suo inventore – evitando, com'era solito a fare, le sue palesi domande. Dal suo aspetto, a Shintaro pareva un'adolescente sulla quindicina d'anni, una di quelle ragazze che avrebbero potuto essere sia adulte che bambine simultaneamente. Come se Ene non avesse avuto tempo sufficiente per continuare a crescere, in quella congiuntura una parte della sua anima sarebbe stata umana, lasciata indietro all'infanzia dissipata, tenendosi strette le sue emozioni, quelle che non avrebbero mai maturato con successo. Quella ragazza – quel virus, quell'infezione – conservava ancora la sua incolpevolezza, il suo amore per l'avventura, il suo orgoglio, tornando al mondo come un ente egoista, meschino e davvero prepotente; chissà quando aveva decretato di rinchiudere il suo passato, gettando la chiave, perché ogni volta che Shintaro glielo ricordava, la sua elusiva mezzaluna s'indeboliva. E lui preferiva quando invece le sue labbra gli regalavano un inaspettato calore, così genuinamente mielato, di cui sarebbe stato sempre geloso.
«Sto bene, è solo un po' di mal di testa, passerà presto» la rassicurò, ammirandola dietro un combattuto sorriso, «tranquilla, stupida». Ed ecco che lei lo guardò intensamente negli occhi, la bocca leggermente aperta, ed infine un'espressione di gioia infinita contornata da un paio di guance imporporate di un esserino senza cuore.
Non erano trascorsi nemmeno dieci minuti quando Ene lo chiamò per l'ennesima volta, pronunciando il suo nome girandosi i pollici, abbassando lo sguardo serafica, mentre le sue guance erano evidentemente ed inconsuetamente avvampate. Shintaro produsse un mugolio, evitando di trasmettere eccessivo rumore, che l'avrebbe fatto sentire solamente peggio di prima. Ene balbettò girandosi i pollici più velocemente, e poi disse con un tono estraneo al suo genere, sentendosi a disagio: «Sai, Padrone, ho... ho scoperto che, ecco, per far passare il mal di testa...» indugiò terribilmente, ma continuò, «bisognerebbe appoggiare il dito indice su uno strano albero... però ho letto che funziona anche con un corpo estraneo e motivato a farti stare meglio!» Shintaro si mise in posizione eretta, sedendosi sul bordo del letto e riflettendo per alcuni secondi, non capendo esattamente ciò che volesse dire. Non c'era nessuno in quella stanza che l'avrebbe fatto sentire bene, però considerò Ene lo stesso, esterrefatto quando vide quelle sue mani combina guai, quel suo dito che in quegli anni aveva cliccato cartelle proibite e reso foto personali pubbliche, delicatamente appoggiato alla sua barriera invisibile, quasi che effettivamente sfiorasse il mondo di Shintaro. Mentre le sua gambe si perdevano ancora tra gli innumerevoli pixel, le lunghe maniche della felpa fuori misura di Ene erano malamente tirate su fino al gomito, svelando così le diafane mani, in quel momento tremanti; la frangetta disordinata le occultava lievemente gli occhi.
«Padrone, avvicinati». Shintaro si alzò dal materasso, approcciandosi verso il computer e squadrando Ene, convinto di quanto fosse incredibilmente impacciata ed incondizionatamente meravigliosa. Realizzò e comprese subito il suo gesto, mentre diventava rossa ancora di più si passava lestamente la mano sinistra sul gonnellino, nervosa, ma puramente – ed esageratamente – comprensibile. Lui rivolse lo sguardo altrove non appena Ene premette ancora di più contro il vetro che divideva i loro universi, così che il suo polpastrello creò un lattescente alone microscopico, e la sua pelle impallidì, creando contorni rossi, come se del sangue scorresse dentro di lei. Shintaro si fregò il capo, estraneo a certi tipi di sentimenti e sensazioni tutte in una volta, però la sua mano stava approssimando adagio, facendo accadere tutto quanto nei momenti successivi, in cui Shintaro non solo credette che l'estate lo stesse portando via con sé, ma che qualche ingranaggio dentro il suo corpo cominciò a ruotare, a funzionare dopo tanto tempo di sosta. Non avrebbe mai immaginato che un calore del genere potesse invaderlo da un istante all'altro, provocandogli una mancanza temporanea del respiro, in modo particolare quando Ene sorrise alla vista del loro primo ed inaspettato contatto. Contrariamente ai soliti dissimili sorrisi a cui era abituato a rimandare – quelli che catturavano l'estate e che odiavano la pioggia – quello di Ene era sempre sincero e benevole, strafottente ed impagabile, le sue curve erano sempre limpide e prive di qualunque sospetto che ti stringeva la gola, che riuscivi a disprezzare e adorare nello stesso impulso di gioia e malinconia. E quei suoi occhi, divennero improvvisamente lucidi, schiarendosi e rendendo le ciglia umide, come un vero e proprio mare, un cielo mattutino e un paio di zaffiri trascurati sul fondo di un ruscello; le lacrime le vide, Shintaro, ne fu certo, ma erano come pietre di luna e diamanti, pixel contorti e terribilmente reali. Shintaro si avvicinò con il suo viso, avvolto da quell'incessabile armonia ed impulsivi guizzi di un battito accelerato, ad una Ene singhiozzante e bellissima, che cercava di asciugare e nascondere le righe salate sulle guance, per niente intenzionata ad abbandonare lo schermo con il suo indice.
«Tu mi vuoi far stare bene, Ene?», Shintaro sussurrò assai vicino al viso di Ene, che a quelle parole, a quella domanda assolutamente semplice, ma che dalle sue labbra usciva come una freccia scoccata, le impedì di bloccare ulteriormente le lacrime, trovando un palpito di magia che le permise di rispondere al suo Shintaro prima di piangere senza imbarazzo, dimenticandosi del passato e di quella ragazza dai capelli bruni – di quell'indelebile cotta per il ragazzo che considerava l'esatto opposto di colui che riempiva le sue giornate, rendendo i suoi piccoli pezzi di felicità dei preziosi regali, rendendo quel loro tocco un attimo eterno.
«Io sono stata creata per quello, Padrone!», dopo mezzogiorno, ad agosto inoltrato, quella stanza si era imbevuta di tepore, un ardore che aveva oltrepassato le pareti ed i vecchi edifici, impregnandola in modo tale che l'autunno ci avrebbe messo un intero lasso di tempo di precipitare di foglie per portarselo via.



E non riesco a dimenticare, non riesco a dimenticare te, un simile gioiello prezioso [...]
(con tutta la tua magia, spezzato in due, sparirò dalla vista)


 
Ayano primeggiava e si distingueva da tutti gli altri grazie alla sua cordialità, premura e le mille attenzioni che prestava ad un'agevole amicizia, alla natura attorno a lei e alle parole che pronunciava. Nonostante questo, Shintaro si meravigliò non poco quando durante gli esami di fine anno, lei rimase indietro rispetto ai compagni di classe; benché suo padre fosse un professore e malgrado le ore che passava con la testa sui libri e appunti, era come se il suo cervello non riuscisse ad accumolare più ragguagli od idee contemporaneamente. Shintaro le voleva bene. Non l'avrebbe mai propriamente riconosciuto, però sapeva che non c'era nessun altro a parte lei che potesse stargli vicino, ricordandogli le buone maniere e come conversare adeguatamente con uno sconosciuto. Era vero, qualche volta lo faceva arrabbiare, avrebbe giurato di disdegnare la sua compagnia, ma alla fine era lei quella con cui passava gli intervalli a scuola, il pranzo sul tetto e le lunghe camminate verso casa. Per questo, anche quel giorno afoso ed opprimente, sebbene per lui non sarebbe mai stato necessario, l'accompagnò a scuola, sedendosi sulla sedia alla sua destra cercando di spiegarle ed insegnarle quelle cose così basilari, che tutti avevano ormai appreso all'inizio dell'annata – tutti tranne lei.
Shintaro le prese malamente il foglio dalle mani e lo controllò con pazienza, la stessa serenità che scomparse in pochi secondi; strabuzzò gli occhi, sbattendoli velocemente più volte, cercando di capire se quello fosse uno scherzo o la realtà. Appoggiò una mano sulla guancia ed accartocciò la scheda senza pensarci due volte, mentre Ayano sorrideva rassegnata, con quella sua solita espressione stanca nell'ultimo periodo e riprese la matita colorata tra le mani, continuando con gli esercizi, sospirando lievemente.
«Era tutto sbagliato, vero?» chiese lei, continuando a scrivere parole su parole, probabilmente nuovamente errate, «pensavo che almeno questa volta avrei ottenuto almeno una risposta giusta...», ridacchiò cambiando la mina della matita e si scusò con Shintaro per il disturbo che gli stava causando ormai tutti i giorni, rubandogli l'estate – nonostante l'avesse già fatto molto tempo prima, «lo sai, sono così stupida, nemmeno tu mi puoi aiutare». Forse quella frase l'aveva già ripetuta prima di quella volta, però Shintaro esitò per un istante, perdendo un battito ma sbuffando subito dopo, evitando di esasperarsi e cedere all'ira; Ayano non era un'incompetente, non lo era il giorno prima e non lo sarebbe stato neanche dopo aver fallito per l'ennesima volta la revisione di geografia. La ragazza si coprì il mento con la propria sciarpa rossa con cui Shintaro l'aveva conosciuta e guardò fuori dalla finestra, a due banchi di distanza, osservando le nuvole: esse si ammucchiavano con un freddo e innaturale lento movimento nel cielo, bloccavano la scarlatta luce solare dalla vista, ed i contorni ardevano infuocati dalla stella morente, pennellando un cielo inesistente, che Shintaro non avrebbe mai raggiunto – che non voleva raggiungere, perché Ayano si sarebbe sentita abbandonata se ciò fosse accaduto, non si sarebbe mai salvata da sola.
Quando parlò, Ayano provocò un impercettibile sobbalzo a Shintaro, come sempre perso nel suo mondo: «Tu credi nel Paradiso?», mutò di nuovo sorriso, questa volta era di un gusto agrodolce. In quel momento, Shintaro non riuscì a pensare oltre la tecnica e pronta descrizione che si era fatto di un posto definito come il Paradiso; Ayano sicuramente pensava ad un altro tipo di Paradiso, forse quello che possedeva un castello di cristallo e neve sopra le nuvole che in quel momento stava osservando, un posto in cui non si poteva avere paura del buio e della sofferenza, o forse un Paradiso non uguale né simile a quello che lui immaginava. Il Paradiso di cui non bisognava spostarsi così tanto per raggiungerlo e sfiorarlo, che ti faceva respirare anche quando non avresti voluto, quello che sbloccava e spalancava le porte all'interno di un corpo ancora munito di tutti i suoi battiti, le stesse porte che si ostinavano a tenere chiuse. Un Paradiso che non riuscivi a toglierti dalla mente, quello che conoscevi personalmente, che era tutto tuo e che sapevi fosse reale, che riuscivi a toccare senza far addolorare le persone care, senza fare male a lei. «Io penso che esista, ma se fossi io a forgiare le regole per un posto perpetuo, senza principio né fine, credo che lascerei entrare tutti, sia i buoni che i cattivi» pronunciò convinta, persuasa dell'amore delle persone che invece non facevano altro che odiarsi e combattere. Poi mormorò: «Però è triste lasciarsi qualcuno alle spalle, al di là di dove andiamo, con chi siamo e se stiamo bene... è meglio non abbandonarli, e non morire, vero?», Shintaro la osservò confuso, un'altra volta, i soliti ammassi di parole disorganizzate, inesplicabili ed enigmatiche; una ragazza delle medie inferiori non si sarebbe mai dovuta preoccupare di un tema simile alla morte.
«Ma che cosa stai dicendo, Ayano?», l'educazione non era mai stato un pregio di Shintaro, anche se pensava spesso prima di aprire bocca. La ragazza si alzò e sogghignò scusandosi per un tale discorso e si diresse verso la cattedra, iniziando poi ad interrogare Shintaro su vari argomenti studiati durante le lezioni di fine mese – ragionamenti che veramente avrebbe dovuto portare a termire lei, infatti Shintaro disse, sfacciato: «Queste domande sono inutili se porte a me; io so che cosa rispondere a tutto, Ayano, dovresti essere tu quella a replicare certi quesiti».
«Sì, immagino che tu abbia ragione», gli occhi di Ayano erano zuccherati, del colore di un ricco terreno chiazzato di nero, di una cioccolata calda in autunno, del marrone profondo degli alberi al crepuscolo; di una nuda quercia con forti riflessi color mogano. A Shintaro ricordavano anche i semi di mela che toglieva con attenzione ogni volta, scartandoli, quei sui occhi li avrebbe paragonati persino ad un lago: l'ultimo aggettivo che gli sarebbe venuto in mente pensando a quella parola sarebbe stato trasparente, infatti nessun lago che avesse mai visitato era così, nitido e cristallino. Era sempre impossibile scorgere che cosa risiedesse sul fondo di esso, e ovviamente non li avrebbe mai scoperti i suoi innocenti detriti, nonostante in quella classe, quel giorno, poco prima del tramonto, le sue iridi assunsero un rifratto di silenzio, «allora chiederò a Shintaro una semplice domanda, che dovrebbe sapere». Morbose colorazioni di innuremevoli fiori avvolsero tutto, sputando pochi secondi dopo una fotografia ed odore d'incenso bruciante. Dietro la cornice, all'interno del vetro terso, c'era un famigliare sorriso, una sciarpa rossa... davanti invece Ayano aveva le mani dietro la schiena e non sorrideva, trasformando il suo volto in qualcosa di estraneo, una sfumatura che Shintaro avrebbe desiderato conoscere. «Mi avevi promesso che non mi avresti lasciato, Shintaro. A me non piace la pioggia, lo sai, e quando tu non ci sei non c'è nemmeno il sole», guardava in basso, spezzata in due all'interno, «Sei stato via tanto tempo, mi ero chiesta dove fossi, se mi odiassi. I giorni passati vicino a quel telefono che non squillò mai; tutto ciò di cui avevo bisogno era una chiamata, una chiamata che non è mai arrivata...» singhiozzò ansimante, «quella casa non è rimasta una casa... non c'era più luce quando te ne sei andato, solo il buio ogni giorno, nessun calore» sussurrò stringendo i palmi in due stretti pugni tremanti, spaventata da quello che lei stessa stava diffondendo. Sembrava quasi non trovare l'ossigeno, e le sue frasi colavano in aspri e frivoli sospiri, «stava arrivando, mi stava soffocando, un uomo senza volto, solamente un'opaca immagine. Ero da sola, nessuna porta, nessuna chiave, e stavo assimilando il fumo. La luce arrivò in pochi momenti, in Paradiso, ero cieca e poi soffocai, stavo morendo, ero morta», le lacrime scendevano svelte e numerose, poi la sua domanda, a cui Shintaro non riuscì mai a trovare una degna risposta: «Tu, Shintaro, dov'eri in quel momento, quando tutto stava cadendo a pezzi?»
Di una cosa, però, ne fu sicuro in quell'istante: i brutti ricordi, il mostro dagli occhi cremisi che lei credeva di essere, l'immutabile ed infelice sorriso tracciato permanentemente sulle labbra, le palpebre arrossate e gonfie la mattina presto – che persisteva a dire fossero colpa del poco sonno, perché le sue lacrime mai le aveva viste. La ragione della sua morte, di quel gesto estremo e di quel dolore incolmabile, la ragione di tutto quello era... lui.
Le gambe cedettero, e con una mano sulla fronte, le labbra salate, Shintaro fu consapevole che certe assenze si sarebbero superate. Certe assenze. Non quella. Non la tua, Ayano.



«Ho paura, Shintaro».
Le parole dette dopo il rintocco di quello che avrebbe dovuto rappresentare il punto cardinale opposto al nord, e che invece fissava cinico il soffitto, segnando il mattino andante, erano chiare, vivide e crudeli. Nessuno poteva scappare, c'era un'acuta magia dentro di esse; davano una forma artificiale a sagome sfigurate, donando addirittura una dolce musica di un violino od un flauto. Non c'era niente di più reale delle parole.
Il silenzio, invece, che susseguì un sottile tremolio fu qualcosa che rodeva dall'interno, era come una bomba, come il bicchiere a terra frantumato: che ti soffocava – lo stesso identico silenzio, sotto il medesimo cielo, che portò Ayano alla sofferenza –, velenoso e di un colore surreale, che provocava un brivido lungo l'intera schiena; ma non di un sentimento passionale, quella, quella che Shintaro sentiva in quel momento, forse, era proprio ciò che Ene aveva adunato come paura.
«Non ti farei mai del male, Ene, ma non riuscirò a vedere il domani, perdonami», l'orrore arrivò non appena Shintaro aprì gli occhi, sudato e lacrimante, perso in quella stanza in cui aveva vissuto mille e più vite, senza però mai trovare quella adatta a lui. Ene avrebbe voluto esserci in quel momento, quando in preda ad un panico silenzioso, gli occhi selvaggi di Shintaro, le pupille dilatate, quando le istruzioni contrastanti dentro il suo cervello si congelarono tutte in un secondo, il suo grido stridulo e la corsa senza meta, le mani sugli occhi, uno scherzo drammatico che urlava e chiamava i loro nomi. Il volto di un fantasma con una sciarpa rossa, ed una perfetta dentatura bianca, che sembrò passargli spietata due lame affilate dal cassetto della scrivania, colorandole con il suo colore e tingendole di tossine, mentre lui le afferrò senza un'espressione umana in viso, con mancanza della sua espressione. Fu in quel preciso battito di cuore virtuale che l'impatto con lo schermo fu inevitabile, rimbombando negli organi ed attutendo un urlo fin troppo debole, che uscì di scena dopo aver mirato e premuto il grilletto con una pistola contenente cartucce di sale – inefficaci, stucchevoli, che ti fanno vomitare e di cui avresti bisogno un'infinita quantità di volte per sentirti parte di un mondo imperfetto, che Ene aveva cominciato ad amare solamente grazie ad uno sghembo ghigno ed un carattere innocentemente pieno di sé, che non era riuscita a domare, né a tramutare. Il volume delle casse che cercavano di accompagnare lo stonato rumore di una gola pizzicante e di lacrime forzate a sporgersi sulle palpebre, rigando il volto e cadendo nel più assoluto nulla dopo aver oltrepassato il confine tra mento e collo, era ormai inesistente, reso muto. Non aveva avuto tempo di arrossire quell'ultima volta, Ene, né di portarsi la soffice manica della felpa per nasconderle, quelle sue perle, tutto quello che poteva soffocare erano altri proiettili urlanti ed echeggianti. Per che cosa valeva la pena di lottare? Per chi valeva la pena di morire? Un paio di forbici dal rosso manico traffitte nella pallida pelle di un ragazzo marcio da anni, disperatamente in cerca dell'unico fantasma di sé stesso, della ragazza a cui Ene aveva promesso il coraggio, ma che aveva infatti solo raggiunto l'incertezza davanti a quella che non era altro che il suo segreto più grande, custodito gelosamente tra delle cartelle di uno schermo nero e le stesse tende che non aveva mai apprezzato.
Aveva perso ancora, aveva perso un altro gioco, e dire che un tempo era così abile a questo genere di cose.
Il sangue macchiava le coperte ancora parzialmente immacolate, il suo odore acre traspirava ed ungeva ogni singola rifinitura, mentre il corpo riposava inerme sullo stesso giaciglio. La mano di Ene toccò un'altra volta lo schermo, non tremava, non faceva male, forse perché lei era già morta davvero. Ma se c'era anche solamente un metodo per cancellarla da questo mondo, allora, l'avrebbe trovato, vagando come anima senza palpito o respirazione, soffocando tra il fumo di corpi nelle fiamme e trovando la risposta in una semplice ombra oscura della sinfonia di serpenti striscianti, parte dei suoi lunghi capelli e occhi odiati e amati per averle donato una seconda possibilità, che aveva tanto desiderato con avarizia. Ringraziava la notte per averle regalato una gioia indescrivibile, l'occasione di amare puramente e senza risentimenti; perché se doveva innamorarsi di qualcuno, quel qualcuno, presente in quella sua precisa vita, sarebbe stato solo ed esclusivamente lui. Perché i suoi occhi erano meravigliosi anche quando circondati da veli di occhiaie, anche senza quel suo sorriso che le aveva mostrato solamente una volta. E nonostante si facessero guerra con le parole, Ene avrebbe amato le sue macerie, perché era lì che ci aveva sepolto il suo cuore.
«Desideri che io cancelli i tuoi ricordi, le gioie ed i pianti? Che elimini il tuo corpo dal mondo virtuale e da quello umano? Che estingua i tuoi puri sentimenti per lui?», Shintaro, le sue dita, le sue labbra, secondo Ene avevano sempre profumato di qualcosa difficile da spiegare. Di stelle, pensò. Non si sarebbe mai aspettata un amore facilmente corrisposto, né un'ultima frase significativa, come una dichiarazione d'amore come in un libro di fiabe; lui si era solamente scusato, e lei voleva solamente che sapesse che l'aveva già perdonato, e che se un giorno sarebbe tornato da lei con i soliti carenti monosillabi od addirittura con un abbraccio, lei avrebbe dimenticato tutto il dolore e l'odio dei numerosi pixel che gli permetteva solo una sfumata immagine di quello che invece era realmente, e si sarebbe lasciata abbracciare, magari piangendo ancora, questa volta di felicità.
«Sì. Il cielo, per me, lui non l'aveva mai toccato, e non lo farò nemmeno io, mai», l'aveva visto guardare i suoi azzurri specchi, sentendo il calore, ed è per questo che le sue iridi sarebbero restate per sempre solo di Shintaro. Sarebbero esistite con quel colore solo con un “noi”, ma nel tempo amaro ed efferato non c'eravamo affatto noi. C'ero solo io. Ed io ero devastata. «Ti prego, cancellami, e mentimi, dimmi che non farà male».
Ci rincontreremo, Padrone. Ci guarderemo ancora. Ma non con lo stesso corpo, solo con gli stessi occhi, e solo allora tu potrai toccarlo, il nostro cielo.



Dopo tutto ciò che abbiamo passato, credi ancora nella magia? [...]
(Sì, ci credo, certo che ci credo)






 
Sera! Come avrete potuto notare, sto ripubblicando questa one-shot adesso, perché è successo un vero e proprio macello. Mi scuso subito con la gente che aveva letto la storia, e sopratutto con Shirokuro che l'aveva anche recensita: mi dispiace. Ora vi spiego: oggi stavo correggendo un'altra mia storia, e dato che volevo cambiare la grafica per poi semplicemente pubblicare il nuovo testo con il nuovo layout, per sbaglio avevo pubblicato tutto nella storia sbagliata: questa. Non so perché, ma avevo la stessa finestra aperta anche per questa storia e quindi mi sono confusa e quando ho pubblicato, giuro che mi sono arrabbiata tanto, ma tanto... ma tanto. Solitamente mi viene da piangere e tremare, ma questa volta giuro che ero incazzata come una mina e lo sono stata per tutta la serata dato che non avevo neppure salvato il testo. Era un vuoto totale. Per fortuna, qualcuno lassù ha avuto pietà di me e ha fatto in modo che il contaparole salvasse il testo. Contaparole, grazie. Per questo, come un miracolo, sono riuscita a recuperarlo completamente ed ora sono qua a ripubblicare... e dire che non è la prima volta che mi succede. La grafica non mi piace nemmeno troppo, ma in questo periodo nessuna font mi piace, nessuna dimensione, boh. Abbiate pietà di me, perché ho veramente rischiato di entrare in manicomio: se non avessi ritrovato il testo, domani avrei decisamente compiuto un omicidio di massa, poi sarei tornata a casa, e prima di consegnarmi alla polizia avrei cancellato questo account mandando a quel bel paese tutte le mie lacrime, sudore e sangue. Lasciamo perdere. Comunque sia, Shintaro ed Ene sono qua comunque per me, come lo è Ayano, per cui spero solo che vi sia ripiaciuta (magari per quelli che non hanno letto la versione precedente) e nulla, amen. Miku.
   
 
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