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Autore: Kimmy_90    20/08/2014    0 recensioni
Il mondo di cui ci hanno sempre raccontato, il mondo che conservano nei loro animi, a cui si aggrappano e che disperatamente cercano di tramandare, non è il nostro mondo.
Il nostro mondo sta qui. Sotto.
Non c'è l'erba.
Non c'è il vento.
Non c'è l'odore del mare.
Se continuiamo a cercarli, saremo infelici. Sempre.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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20 agosto 2014 Untitled



PROLOGO



Me la raccontano spesso, la storia degli otto minuti.

Anzi, a ben pensarci me la raccontano in continuazione: è un sermone, una tradizione orale che nessuno ha apparentemente iniziato ma che tutti stanno perpetuando, più o meno consciamente.

Otto minuti.

Mi si siedono davanti, da quando avevo sette o otto anni, mi rapiscono lo sguardo dal libro che sto leggendo in quel momento ed iniziano a parlare, le mani congiunte in grembo, lo sguardo che guarda oltre il muro, e scava nella memoria.

Otto minuti.

Iniziano sempre così.

Sai, Franz, sono stati solo otto minuti.

Otto miseri minuti.

Accavallano le gambe e scostano gli occhi, mentre sul volto gli si dipinge un sorriso tenue, rivolto a ricordi lontani.

Ogni volta è una storia diversa.

Ogni volta cambia qualcosa.

Ma il concetto rimane: otto minuti.

Solo otto minuti.


Non si rendono conto che quando sono trascorsi quei fatidici otto minuti, c'ero anch'io.


La luce scivola dalle tende del soggiorno, si riversa sul pavimento di palquet come una pozza d'acqua dorata. Quel fiume di luce tace, ed il mondo cammina mentre il primo minuto muove il suo passo verso l'ottavo. Scende lento e s'affossa nella risata di qualcuno, al piano di sotto.

Il secondo minuto cade sul terzo, lasciando che l'aria si smuova nel vento. Non c'è silenzio, al mondo: tre passi verso la città, e tutto strilla. Il terzo minuto è privo di valore come il primo, come il quarto – come tutti quegli otto: fintanto che sono vissuti, appaiono indistinguibili dagli altri.

C'era un uomo in mezzo alla strada, raccontano alcuni. C'era un uomo anziano, steso a Trieste, casa mia, colto da un infarto mentre attraversava le strisce pedonali.

E c'era una volpe, in Antartide, dal pelo fulvo e candido, immortalata dallo scatto di un fotografo del National Geographic nel bel mezzo di un balzo repentino.

Il quinto minuto si mangia il quarto: da qualche parte di sicuro c'era un rubinetto che spandeva. Da qualche altra un operaio controllava la fattura d'una tubatura, chiuso in fabbrica da ore.

Istante dopo istante, gli otto minuti scorrono. Otto miseri minuti, nulla di più e nulla di meno.

Mi dicono: ecco, pensa all'Africa. In quegli otto minuti c'erano migliaia di ragazzini che camminavano scalzi lungo una foresta, l'elmetto in testa ed un fucile più grande di loro in mano. E mi dicono – se fai i conti, Franz – che in quegli otto minuti sono nati oltre duemila bambini, mentre ne sono morti più di ottocento.

Pensa, Franz.

Otto minuti.

Che ti scorrono dalle mani come otto minuti qualsiasi.

Senza che tu ti renda conto di cosa stia accadendo, noncurante, loro passano senza far scalpore, senza nulla di riconoscibile, che suggerisca possano essere diversi dagli altri.

Un regalo.

Sono stati otto minuti che tutti, ormai, ricordano. Il mondo si affanna per raccontare, a oltranza, le storie di quegli otto minuti: un istante dopo l'altro, punto per punto della terra.

Otto minuti d'ignavia.

Otto minuti concessici dallo spazio tempo: il ritardo, il delay, il nesso che impedisce all'universo di agire in modo isotropamente istantaneo.

Otto minuti trascorsi come mille altri, prima che anche noi ci accorgessimo di cosa accadeva.

O meglio, la metà di noi.

Per l'altra metà non so se fu meglio o peggio, perché loro si svegliarono quando tutto era già avvenuto, ed altro non rimaneva che ombra.

Ma per chi li ha vissuti, quegli otto minuti, e per chi c'era, al nono, fu qualcosa di incredibile ed allucinante.

I miei genitori si siedono, periodicamente, e mi raccontano quegli otto minuti, vissuti a Roma, o a Berlino, o a Città del Capo, o ancora a Cuba dove saliva allora lenta l'ultima alba, tranciata violentemente a metà. Narrano le storie che si spargono da anni, che si raccolgono, che si inventano e si ammassano nella memoria collettiva di quegli ultimi otto minuti in cui il genere umano, ed il resto degli esseri viventi con lui, conobbe la luce gialla e calda del Sole.


Per quanto riguarda me, quegli otto minuti ricordo perfettamente di averli spesi in bagno. In punta di piedi, aggrappato al mobiletto, ingegnandomi nei modi più assurdi per aprire l'anta in alto – quella dannata anta in alto che se mia mamma mi vedeva scrutare interessato, mi prendeva per l'orecchia e mi lanciava dritto in camera mia prima che potessi fare danni. In quegli otto minuti, io, per la prima volta, riuscii ad aprirla. Mi issai sul mobiletto come una scimmia, stupendomi di me stesso quanto finalmente mi ritrovai ad una spanna dalla maniglia che puntavo da mesi. Aprii quell'anta con religiosa lentezza, ed osservai attento il contenuto dell'armadietto: scatoline di ogni tipo, nere, gialle, grosse, piccole – ammassate senza ordine apparente; emanava un odore polveroso, misto di profumi che s'addensavano l'uno sull'altro, compatti nella loro confusione.

Dalla finestrella del bagno irrompevano gli ultimi raggi di luce visibile che il Sole avrebbe mai emanato, e che il Sole aveva già smesso di produrre.

Erano le tre.

Questo lo so. Ma non lo ricordo.

Presi un oggetto relativamente piccolo, che a me, all'epoca, riempiva interamente la mano: lo aprii, riconoscendo quel qualcosa che mia madre si passava sulle labbra un attimo prima di uscire di casa. Lo annusai, rimanendo stordito dall'odore del cosmetico: me lo rigirai fra le dita, scoprendo come si faceva a far fuoriuscire quella specie di enorme pastello.

I miei otto minuti finirono allora.

Incollai le pupille sulla punta del rossetto, scarlatto e denso, che pareva sangue condensato e rappreso. Lo scrutai, lo osservai, lo studiai, lo ammirai nell'estasi lontana dell'essere riuscito finalmente a scoprire uno degli infiniti segreti di mia madre.

Lento, allora, il mondo si tinse di rosso.

Trattenni il respiro, osservando il bagliore della luce sulla custodia metallica del rossetto deviare dal bianco all'arancione, sino al porpora più scuro.

Fu una transizione solenne.

Durò esattamente ventisei secondi virgola otto, quattro, nove, sei, due, due, nove, due, tre, zero, sei, otto...

E poi la luce scomparve.

Io rimasi lì, al buio, il rossetto aperto nella mano tremante, continuando a fissarne l'ombra.

Poi mi ricordai di respirare.

Inspirai a fondo, strozzando prima un grido, e poi un pianto.

Lo sapevo.


Avevo fatto il danno.




   
 
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