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Autore: soulofthemusic    22/08/2014    2 recensioni
Questa è una raccolta di storie. Storie finite di 2/3 pagine. Sono le mie idee, quelle che forse svilupperò o che forse lascerò così. Se avete piacere vi invito a leggere ;)
1. Lost and Gain. - La Terza Guerra Mondiale.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Salve a tutti, a quelli che mi conoscono e a quelli che non hanno mai letto niente di mio. Sì, lo ammetto, sono la disgraziata che non ha più aggiornato “Chrysalis of Pain” da un anno ormai. Chiedo scusa, ma non sono più riuscita ad andare avanti tra scuola e vari altri impegni. È per questo che oggi non sono qui a iniziare una nuova storia. Sìsì, non sono pazza :D Questa è una storia fatta e finita, e questa sarà una raccolta, intitolata appunto “My Inspiration”. Saranno le mie idee, fatte e finite. Sono brevi, ma visto che ne ho tante e sono sicura che non riesco a scrivere tutta la storia fino alla fine le scriverò qui così e chissà, magari un giorno riuscirò a svilupparne qualcuna ;) Ditemi cosa pensate della trama più che del modo di scrivere, perchè ammetto che questa prima idea non l'ho sviluppata benissimo :( Spero vi piaccia, buona lettura!

Le guerre sono arpie. Arpie che lacerano la carne di migliaia di innocenti per migliorare lo status di pochi. Arpie che non guardano in faccia nessuno. Uomo di fede, uomo ateo, uomo onesto, uomo malvagio. In guerra sono tutti bestie da macello senza presente.
Il cuore comincia a pompare più velocemente quando si sente il primo sparo, quello che annuncia l'inizio di una nuova battaglia. La speranza comincia ad attanagliare ogni mente, le preghiere rimangono sospese nell'aria, gli occhi si chiudono a causa dello sforzo sovrumano ed è allora che il nemico esce allo scoperto, è allora che la prima pallottola colpisce il primo corpo. Prima Guerra Mondiale, prima disperazione. Seconda Guerra Mondiale, desolazione. L'uomo ha bisogno di orrore per vivere, non si accontenta senza qualche tragedia  in cui morire o  da commemorare. È  fatto così da quando esiste, perché dovrebbe cambiare? Ed ecco la Terza Guerra Mondiale, l'abominio. Si era sentito parlare di migliaia di morti nelle guerre antecedenti, ma mai c'era stato un tale disastro demografico. Eravamo 8 miliardi di uomini nel mondo nell'anno 2414. Per 10 anni nessuno si è sentito al sicuro. I soldi non avevano valore, le alleanze non duravano più di un paio di settimane, le barricate difensive erano lego di fronte alle nuove armi.
Eravamo arrivati a 7 miliardi il primo anno di guerra, 5 nel terzo. Man mano negli anni le morti diminuirono, ma il raccapricciante spettacolo noir continuava.
7 ottobre 2424, fine della guerra.
Fine cartacea. Era stato emanato un trattato in cui si diceva che tutte le persone sopravvissute si sarebbero dovute impegnare a evitare di uccidere altri esseri viventi. Eravamo rimasti  un migliaio sparsi per il mondo.
Non mi spiego come riuscii a sopravvivere: ero una bambina di 10 anni quando scoppiò la guerra, vennero a prendere me e mia madre, a trucidare mio padre. Bestie assetate di sangue, ecco cos'erano. I governi avevano lanciato propagande folli di sterminio di interi popoli, la sovrappopolazione aveva preso piede dal 2410, in 4 anni chi era al potere fece il lavaggio del cervello a tutti. Le condizioni di vita erano ritenute improponibili, c'era troppa gente sulla superficie della terra e il posto per accomodarle tutte era finito.
Gli assassini che presero la mia famiglia erano esperti. Erano 3 e nonostante tutto riuscivano ad andare abbastanza d'accordo. Avevano una baracca nel mezzo di un bosco della ex Russia. Uccisero mio padre e tenevano me e mia madre  segregate in una camera di due metri per due. La nostra non era vita, era sopravvivenza. Ogni sera tornavano a “casa” con le lame impregnate di sangue secco, ogni sera aprivano il lucchetto che ci teneva chiuse e ci violentavano, ci pestavano il corpo come fossero vecchi tappeti e qualche volta ci lanciavano qualche pezzo di pane ammuffito.
Di giorno, mentre ero nella nostra “cella” e mia madre continuava a ripetersi che sarebbe andato tutto bene, chiudevo gli occhi e volavo. Tornavo indietro nel tempo, quando giocavo in giardino con papà e mamma ci veniva a interrompere con la limonata tra le mani. Poi li aprivo e il buio mi assaliva, la paura, il dolore. Mi ripromisi di riuscire a diventare forte quando fossi cresciuta, di liberarmi da ogni genere di catena la vita mi avesse posto alle mani e ai piedi.
Una sera vedemmo tornare sono uno dei nostri aguzzini . Aveva una gamba ferita, ma si trascinò fino a noi e ci aprì la porta. Ci legò le mani dietro la schiena e ci spinse fuori dalla baracca, camminammo per molto, mi sembrò un'eternità visto che le mie gambe non camminavano più da tanto tempo. Quando ci fermammo l'uomo sguainò un pugnale e lo conficcò nel cuore di mia madre, poi nel mio. O almeno così credevo.
Rimasi stesa a terra agonizzante, mormoravo, chiamavo mia madre. Ma lei non c'era più. Avevo guardato le spalle dell'uomo che mi aveva tolto la libertà, l'infanzia, l'innocenza, la vita, per l'ultima volta. Chiedevo vendetta, se non potevo ottenerla da me allora chiedevo che lo uccidessero a sangue freddo, così come lui fece con mia madre.
Dopo circa due ore sentii uno scricchiolio di foglie alle mie spalle. Un corpo corse verso mia madre a controllarle il polso, era morta, niente da fare. Poi si piegò su di me.
Era un ragazzo! Ruppe il sacco che avevo addosso per esaminare la ferita, il dolore era pungente e svenni.
Quando mi svegliai ero ancora nel bosco, ma mia madre non era più vicino a me, non avevo più freddo, era giorno.
Una figura si piegò su di me, era il ragazzo che avevo visto prima di svenire. Aveva i capelli neri corvini, una cicatrice sulla guancia, occhi azzurri. Quanti anni poteva avere?
Cercai di aprire la bocca per chiederglielo, per chiedere il suo nome, ma una fitta mi trafisse il petto. Una fitta così forte da farmi chiudere gli occhi e stringere i denti.
Lui pose una mano sulla ferita, era calda, era come un sole che accarezzava la mia pelle.
«Nu vorbi. O sa te doara, ai nevoie de odihna.» (Non parlare. Ti farà male, hai bisogno di riposo.) Era  rumeno! La nostalgia e la melanconia si impossessarono della mia mente, facevano quasi più male della ferita. Ma c'era il sole con me, mi accarezzava la pancia, mi dava la speranza di una nuova casa. Sarei morta, sarei stata cibo per i lupi senza di lui.
Il sonno mi cinse con le sue braccia potenti, sentivo il suo respiro sul collo e mi abbandonai a lui.
Passarono giorni, settimane, mesi fin quando mi ripresi. Fu difficile, ma avevo Nicolai al mio fianco. Avevo scoperto il suo nome perché mi parlava, mi raccontava la sua vita mentre poteva solo immaginare la mia. Mi raccontava del dolore, della solitudine, della forza e della determinazione. Suo padre era un medico, gli aveva insegnato tutto ciò che sapeva, ma non c'era più. Sua madre era morta al momento del parto, almeno non aveva dovuto vivere la guerra.
Ci nascondevamo, cercavamo di rimanere invisibili agli occhi di tutti per non farci uccidere. Intanto il mio salvatore si allenava, mi rassicurava sul fatto che avrei potuto allenarmi anche io con lui in poche settimane.
Quel momento arrivò. Penso di non aver mai sentito tanto dolore in tutti i mesi di prigionia e di non essere mai stata tanto felice. Mi  rafforzavo, cominciavo a combattere, a mantenere la promessa che mi ero fatta sulle catene e la vita. Nicolai mi sosteneva, mi aiutava, mi insegnava. C'era complicità tra di noi, gli dovevo la vita e molto di più, ma non chiedeva mai niente, nemmeno una carezza, nemmeno un abbraccio, ma sapevo che ne avevamo bisogno entrambi. Un giorno, il terzo anno di guerra, ci trovarono. Due uomini sulla trentina. Combattemmo e ce la cavammo, questo ci unì e ci diede speranza. Speranza che saremmo sopravvissuti.
Ci spostammo, viaggiammo verso la nostra madrepatria. Non c'erano più confini, ma il senso di appartenenza ad una terra restava acceso in noi come una brace ardente. Arrivammo e trovammo solo desolazione. Eravamo tra i primi a essere stati sterminati, alle altre nazioni non piacevamo, ci consideravano arretrati, da eliminare.
Trovammo un altro ragazzo, della stessa età di Nicolai. Lui però era biondo, senza cicatrici, occhi marroni, capelli corti e si chiamava Vlad.  Lo accogliemmo tra di noi.
Tra noi non c'era lo stesso rapporto che si era formato con Nicolai, ma c'era intesa, c'era affetto, e tanto bastava. Avevamo una famiglia, familia noastra.
Non ci serviva altro. Sopravvivemmo. Alla guerra, alla nostalgia, al bisogno di qualcuno di cui fidarsi, al freddo, alla mancanza di una casa.
Avevamo solo noi stessi e alcune armi, ma ci bastarono. Arrivammo ai 50 anni. Con ferite, con litigi, con amore, siamo arrivati fin qui. Mi liberai da tutte le catene, fui libera, ebbi tutto ciò di cui avevo bisogno e fui felice.
In un momento in cui l'umanità perse tutto io ebbi tutto senza chiedere. Seguii il mio desiderio, la mia ambizione, la persona che mi salvò la vita. Seguii un sogno e quel sogno diventò realtà.

P.s. Mi sono dimenticata una nota importante. Se qualcuna delle idee che pubblico vi piace tanto e vorreste svilupparla voi vorrei che me lo chiedeste prima di farlo e che naturalmente sulla storia scriveste il mio nome come ideatrice della trama. Grazie ;)

   
 
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