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Autore: Kimmy_90    24/08/2014    0 recensioni
Il mondo di cui ci hanno sempre raccontato, il mondo che conservano nei loro animi, a cui si aggrappano e che disperatamente cercano di tramandare, non è il nostro mondo.
Il nostro mondo sta qui. Sotto.
Non c'è l'erba.
Non c'è il vento.
Non c'è l'odore del mare.
Se continuiamo a cercarli, saremo infelici. Sempre.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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03 giugno 2014 Untitled



CAPITOLO 1



Non so mai che ora è.

Non è colpa mia, è solo che la mia vita mi porta a non guardare troppo spesso l'orologio, e a tenermi abbastanza lontano dai simulatori di ambiente esterno.

Non fanno per me. Hanno un che di metallico – non chiedetemene il motivo, è troppo complicato e io sono uno logorroico di natura. Più semplicemente, sapendo qual è il loro lavoro, mi infastidiscono tanto da renderli a me inutili, persino controproducenti.

So che sono finti. Lo so benissimo.

È come con Babbo Natale. Se non ti hanno traumatizzato da piccolo con qualche regalo mal nascosto o un figurante ubriaco – chessò, tuo zio –, finisce che passi un Natale della tua vita, quando sei finalmente abbastanza senziente da comprendere la realtà ma non altrettanto saggio da importela, a ingannarti e farti violenza pur di mantenere la magia che per te è tradizione, è un dato assodato, una delle poche sicurezze della tua esistenza. Sai che Babbo Natale non esiste, ma ti sforzi di credeci egualmente.

Ecco come funzionano, i simulatori d'ambiente. Si basano sul principio del Natale di Passaggio: non serve nemmeno farli bene, tanto l'importante è crederci. Fossero anche progettati con la migliore delle tecnologie permesse – ed alcuni lo sono – continuerebbero ad essere funzionali solo ed unicamente su chi decida di crederci.

No, per me sono semplicemente metallici; come è metallico l'odore del vento che soffia mentre sugli oloschermi le fronde dei salici si muovono dolcemente sotto una vaga brezza. Il vento. Il mio vento, quello non c'è più, da anni. Non lo sanno riprodurre.

La Bora è – era – un turbinio impazzito senza una direzione precisa, checché s'ostinino a dire soffiasse da est-nordest: palle. Fa cadere le tegole, la Bora. Faceva. No che non puoi riprodurla in un ambiente chiuso: al di là della pericolosità, è complicata. Ogni via ha una raffica diversa, che soffia incanalandosi in essa e in quelle vicine, e cambia direzione a seconda di infiniti fattori.

E le tegole che cadono sono da escludersi, nella simulazione – se non sono vere, poi, non c'è gusto, manca il brivido. A quattro anni me ne è caduta una a meno di un metro di distanza, e ha sfasciato il tetto di un'utilitaria. Sì, in fondo saremmo solo in pochi a reclamare la Bora; e considerati i danni che provocava, i più non lo fanno.

Ve l'avevo detto, che sono logorroico. Mi perdo nei discorsi – ma evidentemente cinque anni di Bora mi sono bastati, per far sì che essa si sigillasse nelle mie ossa per il resto della mia vita. Come l'odore del mare, e il sale dell'acqua del Mediterraneo.

Sono una delle ultime persone al mondo che può lamentarsi di queste cose – in svariati sensi. Eppure lo faccio, ormai in continuazione.

Sarà un pochino colpa di mio padre, che va ripetendosi a oltranza, specie da quando siamo arrivati al distretto di Stoccolma.

Neanche venticinque anni e sono già più vecchio di lui, nel cuore.

Il tutto, per ritornare alle origini, era per dire che io il "sole" – il feticcio – non lo vedo mai, o comunque me ne tengo il più lontano possibile; e non avendo l'orologio da polso, finisco con il non sapere mai che ore sono.

Il mio ritmo sonno veglia non sembra venirmi in contro, fa un po' quel che vuole lui; ma siamo tutti un po' sballati, quindi non ha senso dargli alcuna colpa.

L'importante è regolare la sveglia uno o due giorni prima di un esame, per riposarmi a dovere. Non è il caso di affrontare uno scritto con quaranta ore di veglia alle spalle – garantito, non fatelo, approfittate dell'esperienza di chi è venuto prima di voi, per una volta.

Ci si organizza.

Servirebbe il feticcio per organizzarsi, ma davvero: non lo tollero. Meglio la sveglia.

Sono un logorroico intransigente.

Sono abbastanza un pacco, mi dicono.

Se mi si incontra con indosso le all-star, forse bisogna pensarci due volte prima di far conversazione con me. Ho questa fastidiosa mania di parlare e parlare e parlare... buttare fuori tutto quello che ho dentro, perché non lo tengo più.

Perché i cunicoli sono bui, in fondo. Perché il feticcio è solo un ologramma, la tonalità di una luce.

Perché da almeno quindici anni hanno abolito i fusi orari.

Quando indosso le all-star, sono una parte di me che io per primo darei al rogo, ed accettarmi è già tanto. Ma evito il suicidio per quell'altra parte, che grazie a Dio esiste e mi tiene vivo, in queste gallerie, fra un esame e l'altro, tra un interminabile turno a tirocinio e qualche ora di sonno capitata più per caso che per ricerca.

Quell'altra parte è estremamente grata a quella con le all-star.

E ogni volta che mi guardo allo specchio dell'Antiatomico13, ringrazio.



Alla fermata del metrò non c'è nessuno: potrebbe essere un buon indicatore dell'ora. O magari del giorno – anche quelli li ho persi abbastanza di vista, ultimamente.

Socchiudo le palpebre in attesa del trenino giallo, i cui fari s'intravedono in fondo alla galleria. Il vento che soffia in fermata è uno dei pochi non artificiali, dovuto allo spostamento d'aria e non a qualche pompa piazzata chissà dove.

No, non è vento vero, ma almeno non ha pretese di imitarlo.

Sì, ho le all-star, se non si fosse capito. Ho i pantaloni di doppio pile, quelli pesanti, sopra alla calzamaglia. La felpa ingombrante nasconde altri sei strati di maglie e magliette. Penso che di me si intravedano solo gli occhi sotto il berretto e la sciarpa.

Le all-star tengono caldo – non sono come i modelli di trent'anni fa, di tela. Hanno mantenuto un design simile, ma quelle che vendono ora sono un susseguirsi di strati di Gore-Tex e lana. Ne ho un paio e basta, come tutti – costano un occhio. Per i bambini sono in comodato, ma dai sedici in su devi arrangiarti. Sono le uniche scarpe con cui puoi uscire senza gelarti le dita o dover ricorrere allo scaldino elettrico – a molti non piace, nemmeno a me: non puoi correre, con gli scaldini ai piedi. Non liberamente: rischi di inciampare spesso, sei goffo. Nessuno sotto i trenta tiene gli scaldini. Abbiamo tutti le all-star, comprate quando il piede ha finito di crescere e da allora nostre fide, fisse compagne.

La maggior parte del tempo, per lo meno.

Il trenino giallo si ferma davanti a me, aprendo le porte. La temperatura interna è sempre più alta, anche se non certo come in una stanza da letto. Forse qui si arriva allo zero, non lo so. Dipende dai macchinari. E dal fatto che una persona, seduta, tende a raffreddarsi velocemente. Qualche anno fa c'erano le termocoperte, ma non ne vedo più una da mesi. Penso che servano altrove. Poter prendere il metrò è già un lusso, cerchiamo di non esagerare.

Vado a sbattere contro uno dei pali di sostegno, preso come sono ad essere logorroico con me stesso. Il borsone che porto con me – pieno da scoppiare, mio compagno di vita, per me, ben più delle all-star – mi scivola dalla spalla e cade per terra con un tonfo sordo.

Un uomo si volta distrattamente verso di me, abbozzando un sorriso che nel rintronamento non riesco né mi spreco a decifrare. È un uomo dalla carnagione nera, i cui denti bianchi risaltano non appena schiude le labbra carnose. Ha il naso ampio e appiattito, la testa coperta da un largo basco informe color panna sporca, che lascia presumere sia calvo. Grosso, stagno.

Devo averlo già visto, da qualche parte – ma devo aver già visto almeno mezzo distretto, o almeno un terzo. Credo.

La verità è che mi sta venendo un colpo di sonno di quelli notevoli.

L'ultima volta che ho controllato l'ora erano le tre. Penso fosse l'otto ottobre. M'è rimasto in testa perché nella mia lingua madre suona un po' ridicolo, ottottobre.

O forse era il settesettembre?

"Ehilà, cucciolo."

Deve essere uno del bunker.

Ma ho le all-star.

Sfilo la mano dal tascone della felpa e la infilo sotto il berretto, cercando di massaggiare la tempia. Ho i guanti di pelle di mio padre, tengono bene il freddo – anche se sono stati pensati per il clima prima del Dieci Agosto.

Io lo so perché tanto di stelle per l'aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla.

Padre maledetto, ormai me l'ha ficcata in testa con tanta di quella forza che solo a pensarci mi viene in mente – la cita ogni volta che qualcuno dice "Diec...".

"Non ti vedo bene." continua l'uomo.

"Non sono bene." mi limito a rispondere, lasciandomi cadere a sedere su di uno dei sedili laterali, a tre o quattro posti di distanza; il borsone stretto tra i piedi.

"Franz?" mi chiama lui.

Adesso mi tocca voltarmi sul serio. Lo guardo senza nemmeno degnarmi d'assumere un'espressione interrogativa, il campo visivo già assai ristretto dalla palpebra calante. No, davvero.

Non ho voglia.

Ho le all-star.

"Kofi."

"Allora sei sveglio."

Alla fine l'ho riconosciuto lo stesso: devo essere davvero malmesso per non riconoscere Kofi. Fa il buttafuori al bunker. Non è pelato, ha una bellissima cresta alla mohicana, lunga forse due centimetri.

Me la fare anch'io, ma con il volto da fantasma che mi ritrovo finirei par assomigliare a uno scheletro. E poi così dovrei mettermi una parrucca, e le odio. Sono pesanti.

Ho dei capelli bellissimi, medio lunghi, color ebano e vagamente ricci: me li tengo stretti. Anche se la mohicana mi ha sempre stuzzicato.

"Che ora è, Kofi?"

"Le sei, cucciolo."

Storco le labbra, non sapendo se essere più infastidito dall'ora o dall'appellativo.

"Ho le all-star."

"E quindi?"

Faccio per guardarlo male, ma il risultato è uno sguardo ancora più assonnato di prima.

"Da quanto non dormi?"

"Non lo so."

"Dovresti dormire."

Kofi è protettivo da far paura. Con me e con Muriel in particolare, e non serve uno studio per sapere perché.

Siamo piccoli. In un certo senso.

"Sto andando a casa per quello." biascico.

"Quando vieni?"

"Quando avrò dormito, direi."

"Mao si sta scazzando per i tuoi orari casuali, lo sai?"

Certo che lo so, ma Mao può smontare il cazzo e tornare a casa a piedi. Io sono uno studente, prima di tutto. Lo sa meglio di me, Mao, cosa non darei per restare al bunker per sempre. Mettere la branda all'Antiatomico13 e non uscirne più se non per andare in farmacia.

Come Muriel.

Ma non posso.

E se mi chiedete perché, non vi risponderò in modo logorroico. Non vi risponderò e basta.

Non posso.

Punto.

"Franz."

Kofi mi sta scuotendo la spalla. Riapro gli occhi, per poi strizzarli con forza.

"Sei arrivato."

Grugnisco.

"Vai a dormire a casa, il metrò è scomodo."

Sì.

"Mezz'oretta te la sei presa, intanto."

Sì.

"Cerca di ripigliarti, cucciolo."

Sì.

"Che ti vogliamo attivo."

Sono il primo a volermi attivo.

"Sì."



Mi sveglia il feticcio che sorge – o tramonta, non lo so: la luce filtra dalla porta della mia camera, rimasta socchiusa. Mi rotolo ancora un po' nel fuuton, cercando di decidere se voglia o meno alzarmi.

Non c'è granché spazio in cui rotolarsi, a parte il fuuton la mia camera è pressoché vuota. E piccola, due metri per due, giusto per stenderci il materasso giapponese, aprire la porta all'interno e lasciare un angolo di pavimento che faccia da comodino. Poiché il riscaldamento è a terra, da almeno dieci anni non si usano più le reti per i letti: il fuuton è perfetto, essendo un materasso posato direttamente sul pavimento. Si risparmia spazio ed energia.

Dalle pareti sbuca qualche gancio e una serie di robustissime mensole, su cui riporre altri oggetti – tra cui il borsone; ma potrebbe dormirci una persona, anche se non particolarmente comoda. Non serve molto altro, in fin dei conti. La mia camera mi è sempre piaciuta, nonostante sia più un reduce che un nativo. I nativi non fanno una piega agli spazietti angusti che ci siamo ritagliati sotto terra, il problema sono i reduci, specialmente se abituati a spazi ben più grandi di quelli che abbiamo ora. Io rientrerei nella loro categoria, ma non del tutto

Insomma, avevo cinque anni.

Io sono della Generazione Di Mezzo.

O Portatore di Luce.

Cazzate, ecco. C'è più fantasia a scegliere i nomi per chi è rimasto, che a preoccuparsi di chi se n'è andato.

Perché i reduci, alla fin fine, non sono poi così tanti.

Il Dieci Agosto non è stata un'apocalisse, affatto. Piuttosto l'inizio di un lungo declino. La riduzione degli spazi, il buio.

Il vento finto.

Le all-star.

Sono tutte discriminanti che hanno diviso la popolazione fra chi va e chi rimane.

Io, per ora, sono qui.

E mi rigiro nel fuuton.

"Franz!"

Grugnisco.

"Franz!"

Grugnisco più forte.

"Alla porta!"

La voce baritonale di mio padre sembra scuotere il pavimento. Sono in mutande sotto il piumino, e la temperatura nei ballatoi dovrebbe essere sui dieci gradi. Non mi sento molto intenzionato ad uscire dal mio bozzolo.

"Devo venire a prenderti di peso?"

So che potrebbe farlo, è un mulo. Io non sono proprio grosso, al confronto. Nessuno è grosso, al confronto. Forse Kofi.

Mi alzo buttandomi addosso la vestaglia, e non appena esco da camera mia già mi pento d'averlo fatto: la porta è rimasta aperta abbastanza da lasciar scappare buona parte del calore della casa – ci credo che mio padre si stia scazzando, con quello che costa il riscaldamento.

"Francesco Loi?"

Il tizio alla porta è particolarmente bardato: la temperatura dev'essere sotto i dieci, sui ballatoi, oggi. Sta arrivando l'inverno, provo a dedurne mentre gli annuisco.

Mi caccia in mano una busta di carta. La prendo senza nemmeno rendermi conto di quale misterioso oggetto essa sia.

Mi porge un monitor e una penna: "Una firma, per favore."

Sono troppo assonnato per chiedergli perché ho in mano una lettera di carta.

Firmo.


Subito dopo aver chiuso la porta, mio padre mi tira uno scappellotto sulla nuca.

"Il riscaldamento di oggi te lo defalco tutto dalla tua borsa, così vediamo come reagisci la prossima volta che ti chiamo."

Me lo merito – sebbene sia ufficialmente piùchemaggiorenne, me lo merito. Anche se odio quando inizia a prelevare più del dovuto dalla mia borsa di studio.

Non che se ne profitti, la borsa ha lo stesso valore e funzione di uno stipendio: finché si vive assieme, tutti gli introiti vanno a far cassa comune. E di questi tempi le famiglie non si separano facilmente; al più si allargano. In casa siamo in quattro: io, mio padre, la sorella di mia madre e sua figlia, mia cugina. Siamo quasi una famiglia MulinoBianco.

Siamo come pinguini, bisogna stare tutti vicini o va a finire male.

E poi i borsisti non possono allontanarsi dalla famiglia o dal loro nucleo comunitario, la borsa di studio non serve solo a loro, ma anche a sostenere chi gli sta attorno. Sta scritto nel regolamento.

Però ci sono spese che non posso affrontare con la mia parte di cassa comune – tolte le spese per vitto, alloggio, riscaldamento e mezzi; per quelle mi serve il bunker. E loro servono al bunker. Sinergia, la chiamano.

Ma sono a casa, e oggi uscirò con le all-star – come sempre.

Mi rigiro la busta tra le mani, tastandone interessato la carta sotto i polpastrelli: è una grana molto spessa e irregolare, direi riciclata. Se ne vede poca di carta, in giro: io conosco solo quella dei libri. La produzione costa follie, vista la penuria di alberi. E anche riciclarla spreca abbastanza acqua, non è il caso di produrne troppa.

Eppure oggi mi è arrivata una lettera di carta.

Mio padre la scruta a sua volta, da dietro la mia spalla. Avviandomi verso il cucinotto, inizio a cercare di capire come aprirla.

Non ne ho mai aperta una.

Papà mi porge un coltello.

"Usa questo. In alto, dove c'è..."

"Sì, ho visto."

"Caffè?"

"Che ora è?"

"Da quando ti interessa?"

"Non capisco se il feticcio sta sorgendo o tramontando."

Poggia la moka sulla piastra e fa per accendere.

Quello che oggi chiamiamo caffé è un surrogato abbastanza schifoso, ma arricchito di caffeina, quindi ci va comunque meglio che ai tempi del fascismo. Fa più schifo dell'orzo, ok, ma almeno è efficace.

E comunque in casa Loi abbiamo la moka, che è tutta un'altra storia. Penso che ce ne siano dieci in tutto il distretto. Il caffé farà schifo, ma la ritualità l'abbiamo salvata – dice sempre mio padre. Anche l'aroma del caffé è vagamente rassomigliante. Visto quello che costa, mi pare il minimo.

"Merda –" impreco, per poi portarmi rapidamente l'indice alle labbra e succhiarne il sangue che ne gronda. Mi sono tagliato.

"Dà qua, handicap."

Roteo gli occhi alla battuta politically-incorrect: lui non sembra farci caso, dissimula disinteressato mentre traffica con la busta. Sono io quello cresciuto in Svezia, non lui. Alla sua generazione si perdonano molte cose, a partire da queste.

Si perdonano nel senso che non lo sbattono dentro, si limitano a una multa. Perché lo dice anche in pubblico.

Non è un buon momento per essere scorretti nei confronti di certe minoranze.

"Hah." fa lui, aperta la busta e posati gli occhi sul contenuto.

Io mi sto ancora guardando il taglio sull'indice, preoccupato. Potrebbe essere più pericoloso di quel che può apparire, soprattutto se non ci metto qualche tonnellata di alcool.

Di un cerotto non se ne parla, se oggi voglio andare al bunker.

Sì, sto ignorando completamente mio padre. Levo lo sguardo sulle pareti della cucina, dai cui quadretti si vede il feticcio calante – la luce è sempre più fioca.

"Calendario Franz " chiamo, scandendo.

Oh, ecco.

Siamo il dodici ottobre, mi dice la parete su cui si è proiettato il mio calendario.

Com'è possibile?

No, non lo voglio sapere. Lasciamo perdere.

Scorro il calendario: non ho esami per il resto del mese, parrebbe. Ma la cosa non mi torna, ero abbastanza sicuro che verso il trenta ci fosse qualche test. Invece il calendario è immacolato.

Papà mi sventola la lettera sotto il naso.

"Leggitela."

La prendo, spiegandola sul tavolino.

Merda, no.

Merda.

Ma che cazzo.


Lucifero.

Ma lo sanno chi sono io, questi idioti? Che sono del bunker?

Che cosa faccio al bunker?

Ovviamente No.

O Sì?

Oddio, sì?

O no?

Non so decidermi. Perché la risposta potrebbe essere , davvero. Potrebbe essere appunto per questo.

E adesso?

Dio, mi sento sprofondare.


"Non puoi tirati indietro, Franz."

Manuela, mia zia, sa perfettamente che cosa combino dentro (e fuori) al bunker, al contrario di mio padre che se ne ben guarda dall'indagare. All'Antiatomico13 mi ci ha portato lei, la prima volta.

Ha dodici anni più di me, s'è fatta mezza adolescenza nel periodo peggiore in cui uno poteva farsela; era inevitabile che finisse lì – auspicabile fu il termine che usò all'epoca.

"Non posso fare il Lucifero."

Manu continua a scrutare la lettera, come intenta ad analizzarne ogni singolo carattere stampato.

"Hai firmato. È come quando ti chiamano per la giuria, non ti puoi tirare indietro una volta che ricevi la convocazione."

"Mi hanno anche cancellato gli esami di questo semestre."

"Esonerato temporaneamente. Cazzo, ringrazia, no? E poi sapevi che ti sarebbe toccato, prima o poi. Hai dei livelli di salute mentale perfetti."

"Agli occhi dell'equipe psichiatrica dell'università, certo. Solo che ometto un po' di cose, con loro."

"Pensi che se adesso andassi lì e gli dicessi di essere uno degli... showman dell'Antiatomico13 cambierebbero opinione?"

La guardo corrucciato, domandandomi come possa farmi, seriamente, una domanda del genere.

"Mi pare ovvio."

"Franz, so che sei negato con la fisionomia, ma almeno potrebbe venirti il dubbio che qualcuno di loro sia un frequentatore?"

"Oh, ma non ti arrampicare sugli specchi. E anche se fosse? Pensi mi riconoscerebbero?"

"Non sto dicendo quello. Dico che se anche loro frequentano, non dovrebbero avere nulla da eccepire su quello che ci fai tu."

"Scherzi?"

"Franzi, non è l'Italia del duemila. Grazie a Dio. C'è un motivo se l'attività del bunker non è illegale."

"Perché un giorno diventerà legale." la imito, scocciato, ripetendo le parole che lei stessa dice più che spesso. "Sono dieci anni che me lo dici."

"Beh, in dieci anni non è diventato illegale, siamo sulla buona strada." sorride.

Mi guarda fiduciosa. So che l'idea di un Lucifero dell'Antiatomico13 le piace, specie se dichiarato. Cosa che io sono a metà.

Sì, sarebbe l'occasione del secolo.

Colgo la palla al balzo: "Sai se qualcun altro del bunker ha fatto da Lucifero?"

"Beh, di gente della tua età non ce n'è tantissima, lo sai. Quella è la fascia per i Lucifero... sicuramente fra i frequentatori. Ma sotto i trenta, dentro, ci siete solo tu e Muriel."

Non penso Muriel possa essere una buona candidata per fare da Lucifero.

E nemmeno io, in tutta onestà.

"A volte tuo padre ti influenza troppo. Stai attento."

Sì. Lo so.

"Forse non ho semplicemente voglia di assumermi questa responsabilità." ammetto infine.


   
 
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