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Autore: Wemil    20/09/2008    1 recensioni
Uno scrittore mezzo fallito perde tragicamente l'occasione della sua vita. Un beta-tester innamorato vive semplicemente la sua vita. Un politico appassionato combatte per la sua causa. Cosa succederebbe se questo fosse solo l'antefatto del terzo conflitto mondiale?
Un racconto ove vita quotidiana e apocalisse s'incontrano in uno scenario che muta di capitolo in capitolo, da individuo a individuo.
Genere: Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5. Il medico


I televisori di tutta Italia trasmettevano praticamente a rete unificate la stessa drammatica sequela d'immagini.
Grazie ad una telecamera che era collegata in diretta su internet si poteva vedere la meravigliosa Piazza San Pietro nel suo andirivieni di colonne, stucchi e fontane: al centro della piazza, nella sua gloria, si ergeva l'obelisco.
La bellezza artistica, in quelle videate, non era "rovinata" dalla solita confusionaria presenza di turisti o fedeli che ogni giorno si ammassavano nella speranza di poter ascoltare le parole del Papa; ma al contrario, in quella giornata, i pochi presenti erano i poliziotti che presidiavano l'ingresso della Chiesa, alcuni passanti curiosi che si gustavano la nuova "pax romana" al caos quotidiano e gli immancabili piccioni che erano divenuti i veri padroni della struttura romana.
Il fungo atomico che, di lì a poco, si erse da dietro la Chiesa fece mutare completamente l'assetto dell'opera del Bernini: fra il volo immediato di tutti i piccioni e lo sguardo terrorizzato delle guardie che si riparavano dentro alla Basilica, le fiamme di fuoco e le onde di radiazioni fecero collassare l'intero cupolone che si ergeva da oltre cinquecento anni.
L'intera struttura rovinò su se stessa portandosi con se statue di santi e papi, stucchi e mosaici, quadri e acquasantiere in una sequenza lenta ma inesorabile ove la fede sembrava venisse distrutta completamente dalla potenza della violenza umana.
Nel giro di qualche minuto ciò che rimaneva della piazza era un cumulo abnorme di marmo e macerie; solo l'obelisco, per non si sa quale miracolo, era riuscito a reggersi sulle sue fondamenta.
"L'unico gigante egiziano sulle rovine cristiane è riuscito a vincere tale disastro" affermò con disinvoltura il primario che guardava per l'ennesima volta la distruzione del più grande simbolo architettonico della Cristianità.
"E' veramente impressionante... mai mi sarei aspettata di vedere una cosa del genere in vita mia" rispose, profondamente agitata, l'infermiera che assisteva il suo collega: "Lei cosa ne pensa?"
Alessandro Melchiorre rispose con uno sguardo freddo alla domanda della ragazza: "Mi porti, per favore, la cartella della 343. Non c'è tempo ora per queste domande."

L'ospedale S. Sebastiano Martire‎ di Frascati era praticamente passato, nel giro di una settimana, da normale centro di cure comunali al più grande ospedale italiano: da tutta la regione laziale, e principalmente dal comune romano, c'era stata praticamente un'invasione di malati e storpi.
Chi si aggirava per l'ospedale non poteva far altro che domandarsi che cosa aveva fatto di male quella partoriente a ricevere sul ventre decine di pezzi di vetro o perchè l'innamorato di turno dovesse piangere così disperatamente nell'osservare le orribili cicatrici che la sua fidanzata si portava appresso su tutto il corpo.
La mancanza cronica di letti, poi, non aiutava i malati che continuavano ad arrivare e osservare un uomo d'affari che moriva, da solo, sanguinante vicino al già cadavere di un suo amico era solo un emblematico esempio delle condizioni in cui si trovavano i corridoi.
Freneticamente i becchini entravano armati di guanti e tuta igienica e dai corridoi prendevano, senza troppi complimenti, sia chi era già passato a miglior vita sia chi ormai era dato per spacciato: non raramente nel mucchio di cadaveri si sentiva la gracile voce di donne e uomini che cercavano di salvarsi dalla massa di carne morta in cui erano appena stati immersi.
Ma non si poteva fare nient'altro che ciò: il numero di appestati da radiazioni continuava ad aumentare di ora in ora, di minuto in minuto in un terribile genocidio di sangue e carne.
Lo stesso ospedale era divenuto una specie di antro infernale ove i poliziotti volontari facevano il loro compito di diavoli cercando di allontanare le persone che in quel momento erano inutili o che non dovevano essere salvati.
Padri che quindi cercavano la loro figlioletta ammalata improvvisamente di un tumore al fegato o amiche che cercavano la, ormai cieca, compagna delle superiori venivano allontanate dai tutori dell'ordine col monotono fare di chi sa che bisogna mantenere l'ordine a tutti i costi.
Nel mare così di grida, urla, singhiozzi, pianti, bestemmie, risate liberatorie, lamenti e sputi, il circolo infernale del pronto soccorso era continuamente percorso dalla seria e composta rigidezza dell'apparato medico che era giunto da tutta Italia per porre rimedio alla terribile tragedia romana.
La massa di camici bianchi avanzava, così, istericamente per le varie zone dell'ospedale propinando cure mediche, operazioni chirurgiche e medicinali raccolti freneticamente da tutta Italia col deciso motto: "Non guardare, fa vivere."

Melchiorre era uno di questi medici giunti da fuori regione: proveniva dalla Toscana ed era arrivato, con molti altri medici del nord, con un aereo predisposto proprio per questa tipologia di emergenze.
Mentre era in volo aveva ascoltato emozionato quello che stava accadendo dagli altri medici sospettando di sapere che cosa avrebbe trovato al suo atterraggio: ciò che trovò fu molto peggio e per non perdersi d'animo, nonostante il suo ormai inossidabile sangue freddo da primario, dovette stringersi i denti con tutta la forza a sua disposizione.
Quella volta stava entrando con la cartella in mano nella camera numero C344, posizionata in un'ex-scuola modificata in un ospedale improvvisato dalla rapidissima forza di volontà dei volontari.
"Luisa Castelli, 21 anni, tumore al seno dovuto a radiazioni. Ci sono speranze?" chiese senza scomporsi il medico all'oncologa che curava la ragazza.
La dottoressa prese Alessandro in disparte e gli parlò in privato: "No, mi spiace. E' troppo esteso e difficilmente potrà salvarsi. Morirà probabilmente fra qualche giorno."
"Allora si occupi di far liberare al più presto il letto; non possiamo permetterci di tenere posti occupati. Veda se riesce a recuperare qualche organo per i trapianti." disse secco il primario.
"Dovremo trovare la madre..."
"Non so se mi sono spiegato. Voglio quel letto libero fra cinque minuti e..."
"Signor primario..." la voce della ragazzina, appena risvegliatosi dopo qualche ora di sonno, fece scuotere il medico: "...per favore, potrebbe consegnare questa lettera che ho scritto per il mio ragazzo? Si chiama Marco Luisiani."
"Non sono un postino." rispose scontroso il dottore anche se prese lo stesso in mano la lettera e se la mise nel taschino della sua divisa.
"Grazie." rispose con un sorriso prima di riaddormentarsi a causa dell'elevato numero di tranquillanti che le erano stati iniettati nel sangue.

"Caro Marco,
spero che tu possa leggere queste mie parole di giovane innamorata che ha visto apparire in cielo il sole dell'Apocalisse; ho avuto paura e ho ancora più paura sapendo che la morte mi toccherà fra poche ore con la sua triste falce.
Ti chiedo scusa di non esserti vicino in questo momento difficile ma spero, anzi voglio credere con tutte le mie forze che tu sia ancora lì, sulle colline romane, a guardare il tramonto che appare. Scusami se devo lasciarti per un destino che non ci siamo decisi, ma io ti volevo bene, non ti avrei mai voluto lasciare. Scusami.
Un bacio, ti amo.
La tua Luisa"
Melchiorre lesse tutta quella corta ma appassionata lettera ad alta voce, guardò il cadavere del ragazzo ch'era sotto di lui e, quindi, gliela posizionò in un taschino della camicia bruciacchiata che ancora indossava.
Avrebbe voluto piangere ma non ce n'era il tempo: prese la cartella del malato numero F43 e si avviò nei freddi corridoi dell'ospedale.

  
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