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Autore: A lexie s    27/08/2014    6 recensioni
Chi non conosce il Titanic?! E' una delle mie grandi passioni, non solo in termini filmistici.
Non ci troviamo sulla Jolly Roger, bensì sull'imponente piroscafo affondato nel 1912, ma sempre di una nave si tratta.
Le vicende seguono, più o meno, quelle del film (dico più o meno perché ovviamente ci saranno delle novità).
Dal capitolo: Erano trascorsi settantotto anni ed Emma poteva rivederlo nella propria mente, ogni ricordo era nitido come se davvero si trovasse lì. La consistenza della ringhiera fredda e bagnata dalla rugiada, l’odore di vernice fresca e il rumore del mare. Il Titanic era considerato la nave dei sogni e lo era, lo era davvero.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I personaggi e le ambientazioni non sono miei, la storia non è scritta a fini di lucro. 

Titanic

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Capitolo 1.

Si trascinava stanca per tutta la piccola casa, le forze ormai non l’accompagnavano più ed anche camminare le risultava pesante.
Si avvicinò lentamente alla cucina, sostenendosi al piano di marmo, spense il gas e prese la teiera.
L’acqua calda le riscaldò le mani per qualche secondo, chiuse gli occhi lentamente perdendosi in quella sensazione di tepore. Non aveva più potuto tollerare l’acqua fredda, non da quella notte, così adesso anche in estate necessitava che l’acqua fosse quantomeno tiepida per riuscire ad immergersi nella vasca. Immerse una bustina di tè e tagliò qualche scorza di limone.
“Lascia stare nonna, ti aiuto io.” Si offrì Leila, avvicinandosi al piano e togliendole il coltello dalla mano.
“Grazie cara” rispose l’anziana signora, lasciando che la nipote ultimasse il tutto al suo posto e accomodandosi nella poltrona accostata ad un piccolo tavolino dove solevano prendere il tè.
Quel giorno la casa era meno silenziosa del solito, due bambini si rincorrevano per la piccola cucina. Le tendine gialle lasciavano penetrare una luce tenue dalla finestra, e quei raggi abbattendosi sulla poltrona la riscaldavano.
“Bambini, fate piano.” Li ammonì Leila, si avvicinò amorevolmente ai figli Liam e David e li accompagnò sul divano.
“E’ l’ora della storia?” Chiesero i bambini allegramente, la madre annuì e cominciò a narrare una delle storie preferite dai figli.
La signora continuava a guardare la televisione di fronte a lei, stavano trasmettendo quello che le sembrava essere un documentario. Non riusciva a sentire granché bene, oramai, il tempo aveva inciso parecchio sul suo udito, mentre la sua vista era rimasta più acuta.
Era sempre stata una donna dinamica, anche adesso alla veneranda età di novantotto anni riusciva ad essere, in parte, indipendente. Non poteva fare grandi cose, ma riusciva a camminare e a svolgere qualche attività casalinga.
“Leila, alza il volume, per favore.” Chiese alla nipote, scorgendo un ritratto che sapeva di conoscere.
Una bella ragazza, giovane e aggraziata, distesa su un divano con una collana al collo.
Le sembrò di ritrovarsi lì per un attimo, di sentire ancora il profumo della vernice fresca e di sorseggiare il tè nei servizi di porcellana che non erano ancora mai stati usati prima.
“Nonna qualcosa non va?” Chiese la donna leggermente allarmata, si avvicinò e poggiò una mano su quella rimasta a mezz’aria dell’anziana signora.
“Sono io.” Sussurrò quest’ultima, l’espressione persa e gli occhi verdi, ancora luminosi nonostante l’età, smarriti.
Leila non riuscì a capire in un primo momento, poi si riscosse e indirizzò lo sguardo verso la televisione. Vide la stessa immagine che aveva scorto sua nonna in precedenza, rimase interdetta, un ritratto? Sua nonna non aveva mai accennato ad una cosa del genere prima di allora, ciò che più la sorprese fu il capire dov’era stato ritrovato quel ritratto. Sul Titanic.
“Nonna cosa dici?” Domandò spaesata, facendo vagare lo sguardo più volte.
“Mamma continui la storia?” Piagnucolarono i bambini, ma la madre li mise a tacere ed affidò il compito di narrarla al marito, che si trovava nella stanza accanto.
Charles accolse la richiesta di buon grado, portandoli con lui in salotto e raccontandogli la fantastica avventura di un ragazzo che non voleva crescere mai. Mentre la moglie tornò a rivolgersi alla nonna con aria interrogativa.
“Cara, ho una storia da raccontare e mi sembra giusto che tu la conosca. Non ho mai voluto rivivere quel giorno, prima di oggi, ma adesso sono pronta a farlo!” Sentenziò prendendo con mano tremolante la tazza che stava sul tavolino, poi si rivolse nuovamente alla nipote e la invitò con un cenno a prendere posto sul divano.
Chiuse gli occhi.
 
 *************

Erano trascorsi settantotto anni ed Emma poteva rivederlo nella propria mente, ogni ricordo era nitido come se davvero si trovasse lì. La consistenza della ringhiera fredda e bagnata dalla rugiada, l’odore di vernice fresca e il rumore del mare. Il Titanic era considerato la nave dei sogni e lo era, lo era davvero.
 
Mancava poco meno di un’ora alla partenza e la stradina che conduceva al porto era affollata, dopo qualche minuto di attesa la macchina accostò in prossimità dell’entrata e da questa scese Neal Cassidy.
L’abito scuro che lisciò prontamente una volta fuori dall’auto, si sgranchì le gambe stanche e si girò per porgere la mano alla sua fidanzata.
Emma Swan l’afferrò con prontezza ed uscì, respirando finalmente l’aria salmastra e fresca del mattino. I capelli biondi legati in un morbido chignon, i lineamenti sottili erano contratti e gli occhi verdi sprizzavano tutta la vitalità di una giovane donna di appena vent’anni. Indossava un tailleur gessato, troppo stretto e difficile da portare, coordinato ad un cappellino che richiamava il colore delle strisce del vestito.
Si aggiustò leggermente con le mani, per quanto i guanti di raso permettessero e guardò la nave attraccata al porto poco lontano da lei. La fissò per qualche secondo e successivamente accennò una piccola smorfia di dissenso.. Sopravvalutata pensò.
“Non capisco il motivo di tutto questo gran chiasso, non mi sembra molto più grande del Mauretania!” Affermò convinta, rivolgendosi a Neal. “ Emma si può essere blasé riguardo ad un sacco di cose, ma non riguardo al Titanic. E’ almeno trenta metri più lungo del Mauretania, ed è anche molto più lussuoso.” Concluse questo, aiutando a scendere dall’auto la sua futura suocera, Mary Margaret. “Sua figlia è piuttosto difficile da impressionare,” sussurrò all’orecchio di questa, accennando un breve sorriso.
Poco più avanti dei membri dell’equipaggio stavano imbarcando i vari bagagli, mentre altri si occupavano delle operazioni di routine, quali visite mediche e vari controlli, per i membri della terza classe. Nulla che li riguardasse, loro erano membri di prima classe e non avevano bisogno di simili perdite di tempo, Emma si addolorò vedendo il modo in cui gli altri venivano trattati, controllati a distanza come se avessero qualche malattia contagiosa.
Lei era, quel che si diceva, una ragazza con un temperamento forte ed un carattere molto spiccato. Non amava le distinzioni di classe o trattare gli altri con sufficienza, era tutto il contrario della madre che si sentiva potente nella posizione che ricopriva.
“Sarebbe questa la nave che dicono inaffondabile?” Domandò Mary Margaret, camminando con passo spavaldo ed aprendo un piccolo ombrellino, ornato di piume e fronzoli, per ripararsi dal sole che aveva cominciato a sollevarsi nel cielo chiaro. Cominciava a fare caldo, nonostante dovesse essere una tiepida giornata d’Aprile.
“E’ inaffondabile!” Rimarcò Neal, prima di riporre una considerevole mancia nella mano di un fattorino per farsi caricare le valigie sulla nave evitando sconvenienti perdite di tempo. Lasciò il suo collaboratore, Jefferson, a dettare ordini sulla disposizione delle valigie nelle due suite che avevano prenotato. 
“Benvenuta sul Titanic, signora!” Sussurrò un uomo ad Emma, aiutandola a salire. Lei sorrise, un sorriso cordiale ma distaccato. Per gli altri quella era la nave dei sogni, mentre per lei era una nave carica di schiavi che la riportava in America in catene, all’apparenza era tutto quello che una ragazza di buona famiglia doveva essere, ma dentro aveva un gran bisogno di urlare.

 
 
Poco lontano in una piccola locanda, un gruppetto di ragazzi giocava a poker.
Killian Jones continuava a guardarsi intorno con circospezione, i suoi vispi occhi azzurri vagavano dal viso del compagno a quello degli altri giocatori. Rivolse lo sguardo nuovamente alle sue carte e poi si decise. Bisogna rischiare nella vita si disse, e se sei fortunato con questa manche riuscirai a risolvere tante cose. Fissò per un attimo fuori dalla vetrata, il Titanic si ergeva maestoso e mancavano pochi minuti alla partenza. Doveva prenderlo, doveva riuscirci per arrivare in America e fare fortuna, così da poter tornare a casa sua, in Irlanda, con qualcosa di più del suo bel faccino.
“Punto tutto!” Esclamò, la sigaretta in bocca e l’aria spavalda. Filippo lo guardò seriamente preoccupato, aveva puntato tutti i loro soldi, non gli rimaneva più nulla e se fosse andata male probabilmente lo avrebbe strozzato.
“Sei pazzo, hai scommesso tutto quello che abbiamo” gli sussurrò.
“Quando non hai niente, non hai niente da perdere.”
Killian osservò il tavolo, il bottino era ricco, monete d’argento e sotto il logo della White Star line ad indicare i biglietti d’imbarco. Si accarezzò i folti capelli e passò la mano anche sull’accenno di barbetta, l’adrenalina gli percorse la schiena come un brivido. “Okay, questo è il momento della verità, la vita di qualcuno sta per cambiare” proruppe, poi si rivolse verso l’amico. “Filippo, tu cos’hai?” Chiese al compagno, che rivelò le sue carte. Niente. 
Si rivolse a ciascuno dei componenti del tavolo, il primo non aveva niente, l’altro uomo sulla trentina abbassò due coppie.
“Scusa tanto, Filippo” cominciò. L’altro lo fissò di rimando, il viso ormai paonazzo, “ma vaffanculo, Jones. Hai scommesso tutti i nostri soldi e..” Le parole uscirono a raffica, tanto era adirato.
“Mi dispiace perché non rivedrai tua madre per un bel po’ di tempo, perché noi ce ne andiamo in America. Full, ragazzi!” Concluse, buttando le carte sul tavolo con aria vittoriosa.
Filippo saltò letteralmente dalla sedia, prese i biglietti e cominciò ad agitarli in aria, mentre Killian si apprestò a raccogliere tutti i soldi sul tavolo. L’uomo di fronte a lui si alzò nervoso, strinse la mano a pugno e lo afferrò per il bavero della camicia. Il ragazzo si spaventò, pensando che stesse per colpirlo, ma alla fine la direzione del pugno mutò e l’uomo colpì il suo amico, seduto di fianco, perché aveva scommesso non solo i loro soldi ma anche i loro biglietti per l’America.
Killian rise fragorosamente e cominciò a saltellare insieme a Filippo, “andiamo in America, andiamo in America” intonarono entrambi all’unisono.
“No amici, il Titanic va in America… Tra 5 minuti.” L’informò un uomo che stava dietro al bancone a servire birre.
Loro si guardarono intorno con aria preoccupata, poi raccolsero le borse dal pavimento e cominciarono a correre per raggiungere la nave.
“Sei un pazzo!” Esclamò Filippo mentre correvano.
“Può darsi, ma li ho trovati io i biglietti.” Concluse, girandosi e alzando un sopracciglio.
Quello era il gesto che lo caratterizzava, era una parte di lui e delle volte gli capitava di farlo senza che se ne rendesse conto. Ma non era quello il caso, voleva sottolineare che la sua lungimiranza e il suo “azzardo” erano serviti a qualcosa, perché quella volta la fortuna girava dalla sua parte ed una delle navi più grandi, se non la più grande del mondo, lo avrebbe accolto. Nel suo viaggio inaugurale poi, proprio una gran fortuna, sarebbe stato un avvenimento da poter raccontare ai posteri.
“Aspetti, aspetti siamo passeggeri”riuscì a bloccare il portellone giusto prima che questo si chiudesse.
“Avete fatto i controlli sanitari?” Domandò il membro dell’equipaggio.
“Si, e comunque non abbiamo pidocchi, siamo americani.” Mentì, ma fu sufficiente per lasciarli passare. Entrarono sulla nave e salirono sul ponte principale. Il paesaggio circostante era meraviglioso visto da quell’altezza e tutte le persone sembravano minuscole. Tutti i passeggeri si sporgevano per salutare i loro cari rimasti.
“Addio, non ti dimenticherò mai. Addio.” Cominciò a gridare il ragazzo, scuotendo le braccia avanti ed indietro.
“Ma chi saluti? Conosci qualcuno?” Chiese Filippo, a quanto sapeva non vi era nessuno che conoscessero e nessuno che dovessero salutare.
“Non è questo il punto. Saluta e basta.” Rispose l’altro ridendo e continuando a gridare, così l’amico lo seguì e cominciò a fare come lui. “Addio, non mi scorderò mai di te!” Urlò ridendo. 
La frenesia, quella sorta di eccitazione mista alla gioia, si era radicata nell’animo di Killian. Era su quella nave da circa dieci minuti, ed ogni singolo attimo si era impresso vividamente nella sua mente, facendo aumentare la voglia di scoprire quanto più potesse e di catturare con lo sguardo quante più cose riuscisse a scorgere.
Vennero tolte le ancore e finalmente il Titanic si apprestò a partire, la potenza con il quale lo fece provocò quasi lo scontro con una piccola barca poco distante, ma questa fortunatamente riuscì a virare prima che lo spostamento d’acqua la risucchiasse.
Con il borsone ancora in mano, Killian e Filippo si diressero verso i loro alloggi di terza classe. Le loro stanze erano quelle che si trovavano nella parte più profonda della nave, mentre le suite e le stanze lussuose si trovavano più in superficie. Killian non si preoccupò, non aveva mai avuto grandi problemi con l’acqua ed era anche un ottimo nuotatore, l’unica brutta esperienza risaliva a quando aveva circa dodici anni, ma non voleva pensarci in quel frangente felice, così la scacciò ed entrò nella stanza con Filippo al suo seguito.
“Ciao” salutò un ragazzone riccioluto, “Io sono Killian e lui Filippo, pare che condivideremo la stessa stanza” concluse avvicinandosi e porgendogli la mano. L’altro l’afferrò sorridendo, “Piacere ragazzi, io sono Robin.”
La stanza era piuttosto sfoglia, ma ben ordinata e le lenzuola profumavano ancora di pulito. Vi erano due letti a castello, uno affiancato ad una parete ed uno ad un’altra. In ogni parte vi era un armadio con due ante separate e una piccola scrivania al centro. Poco lontano c’era un lavabo con una bacinella piena d’acqua, mentre il bagno evidentemente doveva essere dislocato altrove, sicuramente in uno spazio comune con gli altri passeggeri.
L’oblò si trovava nella parte alta della parete e non era molto grande, ma permetteva di vedere un mare molto scuro a causa della profondità.
Le pareti erano grigie e tutto l’arredamento era sui toni neutri del grigio e del bianco, non il massimo dell’allegria ma erano solo dieci giorni ed inoltre con le meraviglie che c’erano ai piani superiori chi avrebbe passato tutto il tempo chiuso in quella stanza?!
“Io dormo sopra!” Esclamò Killian, buttando il suo borsone sul letto e svuotandolo delle cose di cui aveva bisogno per sistemarsi. Filippo acconsentì, ma non disse nulla, si sdraiò solamente sul letto sotto e rimase a contemplare il nulla, come se quello fosse solo un sogno dal quale presto si sarebbe svegliato.
“Amico, già dormi?”
“No Killian, stavo solo pensando che siamo stati davvero fortunati” ribadì, sollevandosi appena e appoggiandosi ad un gomito per fissare meglio il ragazzo che era rimasto accanto alla porta.
“Tutta classe.” Sottolineò l’altro, battendosi una mano sul petto e  tamburellando con il piede sul parquet.
Robin continuava ad ascoltare con aria interrogativa lo scambio di battute tra i due, Killian si voltò e capì l’espressione di curiosità sul suo volto così si apprestò a spiegare: “abbiamo vinto i biglietti giocando a poker, giusto cinque minuti prima che la nave partisse.”
“Allora dobbiamo giocare insieme uno di questi giorni” propose il ragazzo, lo sguardo deciso di chi lancia una sfida. “Come no, amico.” Replicò l’altro, avvicinandosi e porgendogli la mano per suggellare quella sfida.
“Adesso, ho decisamente bisogno di un bagno, vado a cercarlo.”
“E’ una porta situata tra la stanza dodici e la quattordici” lo informò Robin che lo aveva già utilizzato prima di lui.
“E la stanza numero tredici?” Chiese Filippo, guardando entrambi i compagni di stanza. “Non esiste.” Rispose l’altro, ma vedendo lo sguardo interrogativo dei suoi interlocutori, “superstizione” si affrettò ad aggiungere scrollando le spalle con disinteresse.
Come se un numero potesse fare la differenza.
Killian prese un cambio, uno dei pochi visto che la partenza non era nemmeno messa in conto quella mattina, d’altronde non aveva molto e si portava sempre tutto dietro. Si avviò lungo il corridoio e cominciò a leggere i numeri affissi nelle placche d’ottone al di sopra delle porte delle varie stanze. Lui si trovava nella stanza venticinque, quindi il bagno doveva essere a circa una decina di porte di distanza, mentre percorreva il viale non poté fare a meno di guardarsi intorno.
Le porte erano tutti di un bianco candido così come le pareti, ad attraversarle soltanto degli stretti corrimano in ottone. I pavimenti erano rivestiti da una moquette blu e percorsi da un lungo tappeto rosso con degli intarsi in oro. Degli ampi lampadari si trovavano a circa quattro metri gli uni dagli altri, mentre altre lampadine erano installate alle pareti.
Trovò tutto molto raffinato, nonostante quelli non fossero i corridoi dell’elité britanniche.
E pochi passi più avanti, scorse anche la porta del bagno, il lavabo presente in camera non era sufficiente per rinfrescarsi in maniera adeguata, per fortuna non dovette aspettare molto e poté usufruirne liberamente per un bel quarto d’ora.
Si cambiò rapidamente, mettendo in una busta di pezza i vestiti ormai sporchi, e indossò un paio di pantaloni color cachi, ed una camicia di qualche tonalità più bassa. Attaccò le immancabili bretelle e si strofinò i capelli neri per asciugarli. Raccolse il tutto e si riavviò verso il suo alloggio.
Era strano trovarsi di nuovo in mare, gli ricordava casa in un certo senso. Gli vennero in mente i pomeriggi trascorsi con suo padre a navigare lungo le coste irlandesi, il loro peschereccio ormai vecchio riportava un piccolo teschio sulla parte della prua, per questo suo padre da piccolo gli raccontava che quella fosse la loro nave pirata, la Jolly Roger. Passava intere notti a fantasticare di lasciare l’Irlanda con quella, ma adesso che si trovava veramente lontano da casa provava quella sensazione di mancanza.
Dopo quelle navigazioni, s’imbarcò soltanto un’altra volta. Lo fece davvero per lasciare casa, attraversò l’Irish sea per raggiungere la Gran Bretagna, ma i suoi sogni di gloria s’infransero nuovamente quando non riuscì a trovare fortuna nemmeno lì.
Faceva lavoretti occasionali e si adattava a tutto quello che gli capitava tra le mani, dopo qualche mese proprio a Southampton, città della contea dell’Hampshire situata lungo il bordo meridionale della Gran Bretagna, conobbe Filippo. Questo era italiano di nascita, ma aveva vissuto lì da quando ne aveva memoria, i genitori infatti avevano lasciato l’Italia quando era ancora in fasce, anche loro alla ricerca di qualcosa che il proprio paese non riusciva ad offrirgli.
Non era quello il momento di pensare al padre perché poi avrebbe pensato alla madre, morta quando aveva appena dodici anni, e questo avrebbe portato sentimenti di tristezza che non era il caso di contemplare. Quello era il giorno del cambiamento, della rinascita.
L’America era tutta un’altra storia, lì sarebbe riuscito ad affermarsi e avrebbe smesso di essere il povero ragazzo rimasto senza madre troppo presto e con un padre distrutto da quella perdita.
Indossò nuovamente la maschera di compostezza che lo caratterizzava, prima di entrare definitivamente nella stanza.
Non vi era nessuno, sicuramente Filippo e Robin dovevano essere andati a fare un giro per scoprire le meraviglie della nave. Forse era meglio così, non era sicuro di essere riuscito ad assumere un’espressione convincente.
Allontana i cattivi pensieri Jones, si rimbeccò mentalmente e ripose i vestiti nel suo borsone ripromettendosi che sarebbe passato dalla lavanderia quel pomeriggio.
Prima di chiuderlo, la sua attenzione fu attirata da un album, lo prese tra le mani e lo sfogliò distrattamente. Lo conosceva bene, aveva sempre amato disegnare e lo aveva fatto anche per professione talvolta, ma si, magari era una buona idea rilassarsi con qualche disegno.
La quiete della stanza non era granché d’ispirazione così raccolse i carboncini ed il blocco e si avviò verso il ponte principale.
La nave pullulava di persone, tutta gente felice che parlottava e canticchiava per i corridoi. Alcuni bambini giocavano poco più avanti con dei sassolini che gettavano a terra, altri intonavano filastrocche ai genitori. L’atmosfera era diversa ai piani superiori, più saliva e più era tesa.
“Stai dritta con la schiena.” “Cammina a testa alta.” “Togli quelle mani dalle tasche.” Erano i continui ammonimenti con cui i genitori richiamavano i figli, questi camminavano come perfette statuine. I bambini avevano rigidi completi e i capelli impomatati e le bambine indossavano degli scomodi vestitini e cappellini abbinati. Non giocavano, non ridevano, si limitavano a mantenere il decoro sui loro volti. Sembrano degli adulti in miniatura.
Killian rimase sconvolto e rattristato da quella visione, che infanzia triste doveva essere quella, nonostante le ricchezze.
Camminò con passo disinvolto e con sguardo fiero. Era bello, alto, la mascella squadrata e la figura imponente. Gli occhi azzurri poi, quegli occhi avevano fatto impazzire molte donne. D’altro canto lui lo sapeva, era a conoscenza della propria prestanza fisica, ma non ostentava e preferiva servirsi dell’intelligenza piuttosto.
Vide una panchina vuota pochi metri più avanti e decise che si sarebbe accomodato lì. Il sole era ormai alto nel cielo, mancava giusto un’oretta all’ora prestabilita per il pranzo. Cominciò a guardarsi attorno per cercare qualche viso che lo ispirasse. Una bambina in braccio al padre che agitava le manine, un neonato in una carrozzina poco distante, due innamorati che si stringevano teneramente guardando il mare.

 
 
“Desidera che li tiri tutti fuori, signora?” Chiese la cameriera, o collaboratrice come preferiva chiamarla Emma, una ragazza alta e dai lunghi capelli scuri.
Alzò una tela dipinta e la fissò meglio, ne rimase affascinata per qualche minuto. “Si Ruby, grazie. Questi li distribuiamo qui, serve un po’ di colore a questa stanza.” Concluse Emma, avvicinando alla parete.
La suite era molto lussuosa, le pareti di un intenso color ocra s’intravedevano appena, coperte da grandi mobili color ciliegio con intarsi in oro. Comprendeva un salotto con uno sfarzoso camino e due divani posti lateralmente, una camera con al centro una struttura in ferro battuto che accoglieva il letto corredato da un ampio baldacchino ed infine un bagno privato.
Emma distribuì i vari dipinti sul divano, il tessuto verde era soffice al tatto e la struttura era arricchita da diversi ornamenti.
“Ancora questi dipinti fatti con le dita? Sono stati uno spreco di denaro” La voce di Neal giunse alle sue spalle, questo estrasse l’orologio dal taschino dei pantaloni di velluto e sorseggiò piano una qualche bevanda chiara che Emma non riconobbe, forse champagne.
“Sai Ruby, tra il gusto per l’arte che ha Cassidy ed il mio c’è una piccola differenza, io ce l’ho!” Affermò ignorando il fidanzato e rivolgendosi alla ragazza, la considerava un’amica non una domestica come sua madre si ostinava a chiamarla.
“Sono affascinanti, sembra come di trovarsi in un sogno o nelle vicinanze. C’è verità, ma non c’è logica.” Gli occhi ardevano dall’intensità con cui ne parlava, l’arte era una delle sue grandi passioni, l’unico modo in cui sentiva di poter evadere da quella prigione dorata che la madre aveva costruito attorno a lei.
“Come si chiama l’artista?” Domandò allora la ragazza, sinceramente interessata.
“Un qualcosa tipo Picasso.”
“Non sfonderà mai” si affrettò a dire Neal, “almeno sono costati poco.” Aggiunse appoggiando il calice sul tavolo in legno.
Emma finì di sistemare i dipinti e poi si preparò per il pranzo. Si cambiò d’abito, indossando un vestito verde pallido con bordature in seta bianca e si fece sistemare i capelli che si erano sfatti durante il viaggio in auto.
La sua suite era allocata nel piano rialzato, attraversò l’ampio balcone privato e si recò insieme alla madre verso gli ascensori per scendere a pranzo.
Incontrarono un’anziana signora, la vedova Lucas, ma tutti la chiamavano semplicemente Granny. Si raccontava che suo marito avesse trovato l’oro da qualche parte nel west, quindi lei faceva parte di quelli che sua madre definiva i nuovi ricchi.
Si recarono nell’immenso salone e si sedettero ad un tavolo con altri amici di famiglia, e cominciarono a pregustare il primo banchetto al bordo del Titanic.



Killian aveva fatto ben tre ritratti in quell’unica ora, gli sembrava propedeutico disegnare, come se quel blocchetto e quei carboncini lo aiutassero ad entrare nel suo mondo, un mondo giusto, diverso da quello in cui viveva.
“Amico è ora di pranzo” lo sorprese alle spalle Filippo, facendolo sobbalzare leggermente.
“Voglio prima vedere una cosa,” sentenziò quello, si avviò verso la prua della nave e salì sulla prima grata, si sporse quanto bastava per poter vedere il mare. “Lo hai visto?” Chiese, indicando un delfino, pieno di entusiasmo. Non era una novità per lui fare simili avvistamenti, anche con suo padre li aveva visti spesso, ma rimaneva sempre una forte emozione poterli vedere nuotare, così liberi.
L’altro annuì contento, per lui invece era la prima volta, non si era mai spostato da Southampton, non aveva mai avuto abbastanza soldi, solo quelli giusti per sopravvivere.
“Riesco già a vedere la statua della libertà” proruppe Filippo, indicando un punto indefinito di fronte a se, “minuscola naturalmente” aggiunse ridendo.
“Sono il re del mondo!” Urlò Killian, alzando le braccia al cielo.
Gli tornarono in mente le fantasie che aveva da piccolo, “Sai che da bambino sognavo d’essere un pirata.” Disse voltandosi e facendo ridere a crepapelle l’amico. “Davvero? Come nella fiaba di J.M Barrie?” Chiese poi.
“Si, ricordo che mia mamma me la lesse quando uscì, mi pare di aver avuto circa undici anni. Solo che io sognavo che fosse Capitan Uncino il buono.”
“Capitan Uncino, vuoi per caso avere una mano sola?” Domandò ridendo il ragazzo.
“No, non potrei più fare i miei ritratti” constatò l’altro scuotendo il capo, poi allontanò i pensieri della sua infanzia e riprese ad osservare i delfini e a ridere felice scuotendo le mani verso l’alto.
 Il vento gli scompigliava i capelli e la nave andava sempre più veloce.
“Uncino, sono sicuro di aver sentito il tuo stomaco brontolare, direi che dovremo andare a pranzo.” Concluse l’amico qualche minuto dopo, scuotendolo per un braccio e facendolo scendere.
“Direi.” Rispose l’altro semplicemente, lasciandosi condurre verso la sala da pranzo riservata alla terza classe.
 


Emma accese una sigaretta con fare distaccato, mentre la compagnia continuava a parlare della costruzione della nave, si erano aggiunti al loro tavolo anche il signor Marco ed il figlio August,  entrambi si erano personalmente occupati della costruzione di quell’enorme piroscafo.
Continuavano il racconto di com’era stato progettato e della sua costruzione, muovendo energicamente le mani per dare più spessore alla narrazione.
“Lo sai che non è di mio gradimento, Emma.” Sussurrò la madre al suo orecchio, indicando con la mano inguantata la sigaretta che la figlia stava fumando.
Questa si voltò verso di lei, ed in tutta risposta lasciò andare un’ondata di fumo vicino al suo viso.
“Lo sa.” La rimproverò Neal, togliendole la sigaretta di mano e spegnendola.
Si rivolse poi al cameriere e ordinò le portate per entrambi. Emma si sentì privata anche della possibilità di scegliere il proprio cibo, tanto che stava quasi per ribattere, ma.. “Hai intenzione di tagliarle anche la carne, Neal?” Intervenne, giusto appunto, Granny sorridendo.
“Se permettete avrei bisogno d’aria” fece Emma, alzandosi svelta dal tavolo e congedandosi dal resto della compagnia.
Tutto quel parlottare, quel disprezzare ogni singola cosa e quelle maniere così composte poi, tutto la soffocava, aveva bisogno d’aria. Il corsetto inoltre, non aiutava affatto, le stringeva il petto in una morsa non lasciandola respirare.  
Uscì fuori e cominciò finalmente ad inspirare l’aria marina, mentre il suo sguardo si perdeva nell’orizzonte.
 
 

Una volta finito di pranzare, Killian riprese il blocco e si avviò con Filippo e Robin alla panchina in cui era seduto poco prima. Mentre i ragazzi parlottavano della costruzione della nave, vi era un dibattito su dove fosse stata costruita, se in Inghilterra o in Irlanda, Killian continuava a disegnare colpito dalla moltitudine di scenette famigliari che gli si paravano di fronte agli occhi.
Osservò un gruppo di cani dal pelo lungo e folto, “tipico, i cani di prima classe vengono a farli qua i loro bisogni” osservò Robin con in mano un bicchiere di birra. La sorseggiava lentamente, alternandola a delle brevi constatazioni. Jones abbassò gli occhi e sorrise, scosse la testa leggermente,“ci fa capire quale posto occupiamo nell’ordine delle cose” concluse amareggiato.
“Riesci a farci dei soldi con quelli?” Domandò indicando il blocco con la mano libera.
Killian nemmeno lo sentì davvero, le parole arrivarono solo alle sue orecchie, ma non ebbero significato. Si persero nell’aria, mentre era ben più occupato ad osservare la figura femminea che stava attraversando il ponte di prima classe.
Un vestito chiaro di cui non riuscì nemmeno a decifrare il colore, troppo preso dal suo volto. I boccoli biondi le sfioravano il viso ed erano tirati indietro e raccolti insieme, la pelle pareva come di porcellana, le labbra rosa scure e gli occhi, gli occhi erano di un intenso verde.
Quel verde gli ricordava casa sua, gli ricordava le passeggiate con la madre sul prato ed i rientri in casa col padre dopo un giorno di pesca, quando finalmente poteva abbandonare tutto quell’azzurro per godersi il verde delle colline.
Quel verde, sembrava avesse le praterie dell’Irlanda negli occhi. Ed in quel momento un pensiero si materializzò nella sua mente, senza che avesse il tempo di controllarlo e razionalizzare.
Doveva vedere quel verde più da vicino, doveva guardarlo, perdercisi dentro e scrutare l’anima di quella ragazza solo attraverso i suoi occhi.
“Ah, lascia perdere amico, dovrai sputare una miniera di carbone prima che tu possa avvicinarti ad una come lei.” Non fu difficile scorgere dove Killian stesse guardando e fare altrettanto, Robin sorrise amaramente nel pronunciare quelle parole poi, per le persone come loro non era contemplato innamorarsi di creature come quella e lui ne sapeva qualcosa.
Aveva amato solo una donna nella sua vita, la sua dolce Marian e lei stranamente lo ricambiava, ma erano di condizioni e discendenze diverse, i genitori non approvavano quell’unione e decisero di trasferirla in una residenza in campagna. Durante il percorso ebbe un incidente e morì tragicamente.
Non era stato più lo stesso da quel giorno e adesso aveva deciso di ricominciare, per quanto potesse, da un’altra parte del mondo, così da non dover rivedere tutti quei luoghi che aveva condiviso con lei.
Killian non riusciva a staccare gli occhi dal viso di quella ragazza, come se uno strano magnetismo lo attirasse verso di lei senza che lui potesse opporsi. Lei si voltò ad osservarlo e mantenne lo sguardo per qualche secondo.
Il ragazzo costatò che avesse un viso dolce, benché sembrasse afflitta e l’espressione risultasse parecchio tirata.
Filippo seduto accanto a lui, fece scorrere più volte la mano vicino al suo volto per distoglierlo, ma senza risultati.
La ragazza si voltò quando vide arrivare qualcuno alle sue spalle, un uomo alto e vestito come un damerino, un damerino ricco però.
L’afferrò per un braccio, e Killian riuscì a sentire chiaramente lei che gli intimava di lasciarla in pace. Voleva alzarsi e correre in suo soccorso, ma si sentiva come bloccato.
Lei lo guardò un’ultima volta prima di scostare l’uomo e rientrare.


Spazio all'autrice:
Ciao a tutti ^^
Questo è un nuovo progetto, ho un'altra storia in corso ma visto che sta per concludersi, ho pensato di trascrivere nero su bianco quest' idea che avevo in mente da tempo.
Come già detto le vicende seguiranno quelle del Titanic (con possibili e probabili cambiamenti), soprattutto per quanto riguarda i personaggi perché cercherò per quanto mi è permesso di caratterizzarli, tuttavia non escludo un possibile OOC.
Spero che quest'idea possa piacere, quindi per qualsiasi parere, consiglio o critica non esitate a recensire. 
P.s. Grafica mia, spero vi piaccia! :)
A presto!
Un bacio :*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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