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Autore: Scarlett Rose    29/08/2014    0 recensioni
Il capitano Quincy, il nostromo Heart, il pescatore Morimoto hanno fatto davvero una buona pesca, questa notte. Ed ora non resta che godersi il successo mentre si decide cosa fare della preda prima di tornarsene alla Locanda del Faro per un buon brindisi.
In attesa che riparta la prossima caccia.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Benvenuti a bordo e grazie per essere saliti. Si prevede una traversata che spero si riveli per voi piacevole o comunque una lettura che non vi spinga a venire a cercarmi con reti e arpioni. Al termine della nostra piccola crociera, sarei lieta di avere le vostre opinioni.
Se desiderate scrivermele qui ne sarò ben lieta, altrimenti affidate pure il vostro messaggio al mare, mettendolo magari dentro ad una bottiglia.
Vi auguro buona lettura e ricordate: questo racconto, i luoghi e i personaggi ivi contenuti mi appartengono in toto, per cui è vietata la riproduzione totale o parziale senza il mio espresso consenso scritto.










E' stata una buona pesca questa, pensa Morimoto fissando il grosso pesce che si agita convulsamente sul ponte del piccolo peschereccio.
Li ha ripagati di giorni e notti spesi a vegliare, immersi in un buio denso e pastoso come l'incubo peggiore. Avevano trattenuto perfino il respiro, aspettando, ora dopo ora. Il capitano non era sicuro di quanta fede prestare alle voci che al bar del porto circolavano con insistenza da giorni, ma con una famiglia numerosa come la sua non c'era dubbio che tenesse.
Era stato avvistato un grosso branco, aveva buttato lì qualcuno, giorni prima mentre stazionavano alla solita locanda in attesa di un ingaggio. O di un'occasione. Quanto grosso?, aveva questionato qualcun altro sotto la luce sporca dell'unica misera lampadina che penzolava con aria stanca dal soffitto di travi umidicce. La barista aveva sbuffato aggirandosi con grazia fra i tavoli, un vassoio di birra fra le mani e un orecchio teso.
Probabilmente sarebbe stato bello anche per lei se questo fantomatico avvistamento si fosse rivelato reale. Sarebbero arrivati decine di pescherecci e finalmente gli affari sarebbero andati meglio. Quella dannata crisi non dava segno di voler mollare la presa, e anche se il denaro per bere o giocare d'azzardo si trovava sempre, pure la Locanda del Faro non se la stava passando bene.
Morimoto ricordava di aver pensato tutto questo mentre il capitano Quincy fumava lentamente la sua pipa – come da copione per un vecchio, vecchissimo lupo di mare – ascoltando il brusio attorno a lui.
Erano salpati quella notte stessa, prima che chiunque potesse anche solo pensare di mollare gli ormeggi. La ciurma del Sebastian non era nemmeno tutta al completo, ma chi non s'era presentato alla banchina nove a mezzanotte e mezza, per un motivo o per l'altro, era semplicemente stato lasciato a terra. Avevano preso il largo con mare piatto e venti favorevoli, pregando per l'arrivo di una tempesta.
Alle loro prede piaceva da matti spuntare con tuffi e guizzi eleganti fra le onde, rincorrersi sfidando i cavalloni e nuotare a pelo dell'acqua per sentire la pioggia sulla coda. Invece il tempo aveva continuato a rimanere sereno e loro avevano dovuto cercare di mimetizzarsi il più possibile con l'oscurità circostante quando scendeva il buio, le reti calate in acqua e dipinte di nero per farle diventare invisibili. “Il primo che parla e ci fa sfuggire i pesci lo ammazzo.” erano state le uniche parole del capitano Quincy, uomo notoriamente loquace quanto un sasso.
E nessuno aveva fiatato.
Quincy parla poco, ma mantiene sempre.
E non c'era uomo a bordo che avesse voglia di beccarsi una pallottola dalla pistola che lui teneva sempre legata in vita come un corsaro d'altri tempi per poi finire, ironia della sorte, a fare letteralmente da cibo per i pesci. Proprio quei pesci a cui stavano dando la caccia, tra l'altro. Perchè gli animali sono così, pensa Morimoto guardando il frutto della loro fatica che si allunga e contorce tra gli spasmi, non hanno leggi o etica se non quella del “mangiare per non venire mangiati”. Non tributano onore ai morti, non hanno sentimenti pietosi né voglia di fare discorsi. E per quanto questi pesci siano belli, e sa il Cielo se non lo sono, sono pur sempre bestie.
Lo sa bene il capitano, aveva pensato solo poche ore prima Morimoto sbirciando la notte alla ricerca di un movimento di pinne.
Non è un mistero per nessuno che il fanatismo di Quincy sia dovuto al fatto che in mare ha perso il suo primogenito, durante una battuta di pesca. Una delle prede è riuscita a liberarsi dalla rete e nella colluttazione che ne è seguita si è trascinata dietro il giovane prima di cadere in acqua. Non sono più riemersi. Quincy non ha pianto, né si è buttato sulla bottiglia, gli ha raccontato tempo addietro il nostromo fissando un punto nel vuoto. Ha comprato reti di acciaio ancora più spesse, una nuova barca a cui ha dato il nome del figlio e via di nuovo.
Ma quello che prima era lavoro si è trasformato in vendetta.
“Questo lo teniamo vivo o lo vogliamo stecchito?”.
La voce del nostromo sembra rauca, come se le urla selvagge scambiate tra gli uomini nel momento in cui le reti si sono tese segnalando che qualcosa c'era finito dentro, poco prima dell'alba, gli avessero raschiato le corde vocali. Quincy fissa impassibile come sempre l'animale ai suoi piedi ancora mezzo avviluppato dalle maglie della rete, che intuendo di non avere scampo dal Sebastian cerca di arrivare con le zanne ai suoi stivali cerati neri. Il capitano e la bestia si fissano negli occhi con pari disprezzo, ma poi Quincy mette fine a quella prova e lo esamina con sguardo critico.
La coda è ancora lucente come se fosse fatta di pura madreperla, ma sa bene che dovrà tenerla immersa nell'acqua mentre viene trattata per conservarne lo splendore. Questo esemplare ha le squame di varie gradazioni di rosso, cremisi, fucsia e sotto la luce del sole che albeggia emanano un'iridescenza quasi dorata.
Il nostromo si avvicina tenendo le braccia dietro la schiena “E' un bel esemplare di femmina. So che all'acquario della capitale hanno dovuto abbattere quella che avevano, non riuscivano più a controllarla.”.
Quasi avesse capito le sue parole il pesce raddoppia sibili e sforzi per liberarsi dalla rete, invano. Quincy annuisce gravemente “Certo, signor Heart, ce la pagherebbero a peso d'oro. Ma io ho un'idea migliore: le concerie di Bellamy. Credo che per colori come questi la vanità pagherebbe anche meglio della scienza.”. Dentro di sé Morimoto non può che dirsi assolutamente d'accordo.
Anche nella piccola isola al largo di Okinawa su cui è cresciuto, gioielli e vestiti fatti con le squame di quegli animali erano ambiti dalle fanciulle. Suo padre in persona aveva regalato a sua sorella una veretta fatta con quelle particolari squame, quando aveva raggiunto la maggiore età. Ovviamente era un monile molto semplice, ma di certo aveva dato non meno di sei interi mesi di paga al gioielliere. “Sì,” ripete il capitano chinandosi a fissare la creatura “la porteremo a Bellamy. Se non sbaglio, da più parti i sarti si lamentano che c'è assenza di “stoffa marina” Per i ricchi non è mai tempo di crisi.” conclude atono.
A quelle parole Morimoto trattiene un conato di nausea.
Se devono andare fino alla città famosa per le sue concerie, da cui abili artigiani tramite un procedimento segreto passato da padre a figlio riescono a trasformare le scaglie in un tessuto morbido che conserverà per sempre i magnifici colori del pesce, per loro marinai significa dover tenere morbida quella parte di pelle che non finirà in mano ai gioiellieri.
E francamente a lui fa un po' senso.
Nessun problema quando deve spellarli, i pesci, ma maneggiare troppo tempo quelle squame un po' viscide e controllare continuamente che la salinità della vasca in cui vengono immerse sia adeguata, rimestando a mani nude, non lo fa impazzire di gioia.
Quincy abbaia ad uno dei marinai di portargli una pala. Quando l'ha tra le mani ghigna, rivolto al pesce “Accomiatati dagli altri mostri che vivono nei vostri inferni marini, bestia.”. Ed è allora che la creatura si ferma, le mani smettono di artigliare le maglie di acciaio e solleva il viso verso il capitano. Lo fissa negli occhi improvvisamente calma, senza più manifestare né paura né sofferenza per la mancanza di aria nei suoi polmoni – branchie, e sibila qualcosa nella sua lingua incomprensibile per poi sputare con forza sugli stivali di Quincy. Tiene gli occhi fissi in quelli del capitano finchè la pala non si abbatte con violenza sul suo cranio una, due, tre volte. Morimoto rimane qualche istante a fissare l'esemplare di pesce – ah, adesso si ricorda che gli antichi le chiamavano sirene, che nome sciocco – giacere immobile sul ponte, morto. Sembra davvero umana, pensa spostando con la punta dello stivale una lunga ciocca di pelo rosa pallido che le ricopre il cranio, rimuginando su come qualcuno si ostini ancora a chiamarlo capelli.
Okay, assomigliano proprio ai capelli delle donne, ma gli animali non possono avere capelli, giusto?, pensa continuando a fissarla incurante della pozza rosso cupo, quasi nero, che le si allarga da sotto la testa fracassata.
C'è poco da fare, anche se caccia pesci come quello da almeno dieci anni rimane sempre stupito da come la parte sopra assomigli ad una donna bellissima, a parte le zanne al posto dei denti, certo, e quella sotto ad una creatura marina.
Poi la voce imperiosa del capitano inizia ad impartire gli ordini e Morimoto con un sospiro accantona i pensieri e si mette al lavoro.
  
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