CAPITOLO UNO
Ci
trasferimmo in periferia dopo che mio padre perse il lavoro. Sono
tuttora
convinto che non ci sia stato alcun taglio del personale. Semplicemente
mio
padre beveva, e qualche sera tornava a casa troppo ubriaco per andare
al lavoro
la mattina dopo. Qualche sera a casa non ci tornava affatto. Mia madre
stava
sveglia fino a tardi ad aspettarlo e la mattina dopo la trovavo
addormentata
sul tavolo della cucina, su una rivista di quelle che raccontano tutte
le
storie delle star. Chi va a letto con chi, chi si sposa con chi, chi si
droga
con chi, insomma le tipiche storie da divi. Era addormentata con gli
occhiali
storti e la faccia tutta schiacciata. All’inizio mi veniva da
piangere a
vederla così, poi mi ci sono abituato.
Per farla
breve non riuscimmo più a pagare l’affitto e ci
buttarono fuori. Così trovammo
una sorta di topaia nella ex zona industriale che faceva al caso
nostro. Non so
se ci fosse un padrone, ma se c’era noi non
l’abbiamo mai visto. Il nostro
trasloco fu più simile a una fuga: una cosa molto silenziosa
e rapida. Abbiamo
preso le nostre cose e con l’aiuto di degli amici di mio
fratello in poche ore
era tutto finito. Gli amici di mio fratello erano delle specie di
montagne
umane. Mi ricordo che desideravo di avere quei muscoli un giorno. Ero
un
ragazzo molto magro, cosa che sembrava preoccupare mia madre in maniera
che
giudicavo eccessiva. Era una donna del popolo, per lei più i
suoi figli erano
grossi più erano belli. Io la deludevo, anche se mangiavo un
sacco non mettevo
su niente. Una disperazione. Per me e per lei. Mio fratello invece si
divertiva
un sacco a mostrarmi i suoi muscoli e sghignazzare, lo faceva sentire
un vero
uomo. Aveva diciannove anni, quattro più di me, e lavorava.
Riparava
macchinari, molto grossi e pesanti, intuivo.
Quando
cambiammo casa ci lasciammo dietro mio padre. Credo che la silenziosa
speranza
di mia madre fosse che non ci cercasse, né lui né
altre persone, gente a cui
dovevamo soldi per lo più. Non credo si illudesse di
scomparire nel nulla, solo
di far smarrire le tracce per il tempo necessario per raggranellare un
po’ di
denaro o per far rimpiangere a mio padre la sua famiglia, o
semplicemente di
essere nato.
Durante la
mia adolescenza mia madre faceva le pulizie in delle case, case di
gente ricca.
Portava sempre a casa una marea di avanzi di cibi raffinati che io e
mio
fratello divoravamo insieme alla poca spesa che facevamo noi stessi.
Così sono
cresciuto a caviale e patatine, popcorn e escargot. Potevo dedurre la
situazione economica della famiglia dal contenuto delle vaschette che
ci
arrivavano. C’è stato un periodo in cui non
arrivavano, e là è stata dura.
Io andavo a
scuola, a casa volevano che studiassi, ma a me l’idea non
piaceva per niente.
Andavo male, anche se mi impegnavo, e non mi piaceva il posto. Mi
sentivo a
disagio. Nonostante fosse una scuola senza pretese tutti lì
dentro facevano a
gara per essere un po’ migliori degli altri. Il libro di
matematica riparato
con lo scotch, i vestiti con toppe colorate che tentavano di sembrare
accessori
di moda. Non li sopportavo. E non avevo voglia di incartare i miei
libri solo
per essere “in”. L’ho fatto per un
periodo, ma ho capito che non bastava
quello, bisognava essere sempre pronti a inventarsi qualcosa di nuovo,
a
gareggiare all’ultimo smagliante falso sorriso. E io non ne
avevo voglia.
Durante il mio periodo “libri incartati” ero
convinto che avrei fatto colpo su
qualche ragazza, attirata dai vivaci colori che uscivano dal mio zaino,
ma non
è stato così. Si vede che faceva un po’
contrasto con la faccia depressa e i
vestiti quattro taglie troppo grandi.
Non ero
eccessivamente triste comunque, semplicemente nell’incertezza
tra che faccia
indossare nei giorni normali sceglievo quella meno faticosa.
Ero un
ragazzo solo, secondo mia madre, il che voleva dire che non portavo a
casa
nessun amico. In realtà un amico l’avevo avuto
nella vecchia casa, ma poi non
ci eravamo più visti. Ogni tanto stavo con mio fratello e i
suoi di amici, ma
lui non mi voleva, così con un ghigno mi diceva:
“Ma tu non dovevi vederti con
Julia/ Mara/Sofia/Celine?”. Ogni volta si inventava un nome
di ragazza diversa,
e tutti ridevano, perché sapevano che ero solo come un cane.
Una ragazza. Era
tutto quello che volevo. No, non è la verità.
Detta così sembra quasi che
volessi una relazione seria e duratura. Non era così. Io
volevo solo farmi
qualcuna. Non che disdegnassi le femmine e le considerassi solo
oggetti, o cose
simili. Mi sarebbe piaciuta una storia. Avrebbe voluto dire avere
sempre una
disponibile. Ma non puntavo così in alto. Non credevo che
qualcuna mi volesse
per più di una semplice scopata. Non avevo una grande
autostima da ragazzo.
Un giorno
avevo un compito per il quale non avevo aperto libro, così a
scuola non ci
andai affatto. Era la prima volta che marinavo e non avevo molte idee
su come
passare la mattinata. L’unica cosa che si poteva dire a mio
vantaggio era che
ero del tutto al sicuro. Mia madre era a lavoro fino a sera e avevo
coperto
tante di quelle volte mio fratello che non avevo di che preoccuparmi.
Ho girato
per un po’ tra i capannoni, prendendo a calci qualche pietra,
poi mi sono
stufato e mi sono seduto per terra, con la schiena appoggiata a un
muro, a
disegnare nella terra battuta. C’era il sole ed era parecchio
che non pioveva,
così il bastoncino faceva fatica a tracciare dei segni sulla
terra riarsa. Fino
a pochi anni prima quella zona era abitata. Gente di tutti i tipi, che
viveva
nei capannoni. Ma un giorno erano spariti. Volatilizzati. La notizia
era corsa
fino alla città e a tutti i dintorni. Mia madre diceva che
“Quo
vadis,
gnat?”