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Autore: LadyTargaryen    01/09/2014    1 recensioni
Una notte di tempesta. Una notte attorno al fuoco, assieme, ad ascoltare antiche storie. Strani e nuovi racconti di cui eppure Athelstan conserva il ricordo. Racconti che avranno il potere di aprirgli una volta per tutte gli occhi e fargli comprendere che Ragnar aveva ragione: non sono poi così diversi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non siamo poi così diversi

 

 

 

 

Era notte, una notte con dense nubi ad oscurare le stelle. Da dietro un nembo scuro faceva appena capolino una luna lattea e pallida, quasi fosse troppo timida per mostrarsi del tutto.

 

Il vento ululava, frustando gli alberi con rabbiosa furia. Le fronde coperte di neve erano scosse con cieca violenza, i cespugli si inchinavano impotenti al suo passaggio, piegandosi ubbidienti a quel feroce tiranno.

 

Tutto era oscurità, un'oscurità dominata dal ruggito del vento. Il nero delle tenebre e il bianco della neve regnavano su cielo e terra.

 

Athelstan, accoccolato davanti al davanzale di una delle piccole finestre della Sala dello jarl, l'osservava fare strazio di alberi ed arbusti, sferzando i monti dalle cime innevate senza requie.

 

D'un tratto, oltre l'urlo del vento, riuscì a distinguere un poco gli altri sebbene flebili suoni che portava con sé.

 

Udì un cigolio metallico, un tintinnio, un rumore come di catene che stridono, di ferro appena forgiato che venga battuto, come se il fabbro avesse lasciato aperta la porta della fucina e il vento avesse preso il suo posto all'incudine.

 

E cos'era quello? Pareva un lupo che alzasse al cielo il suo canto selvaggio assieme al branco. Ed ecco invece il ruggito di un orso, il bramito di un cervo...E voci, come voci umane che popolavano la notte con le loro grida. Come se l'intera foresta, a dispetto della furia degli elementi, stesse sfidando faccia a faccia la tempesta, fronteggiandola.

 

- Sei pensieroso, Athelstan. - Ragnar sbucò alle sue spalle, i pollici infilati nella cintura e il suo eterno sorriso sulle labbra. L'altro gli fece posto e lo jarl si accomodò accanto a lui. - Allora, mi vuoi dire a che pensi? -. Athelstan sorrise senza smettere di guardare fuori. Gli piaceva quando Ragnar pronunciava il suo nome, col suo secco accento nordico. - A nulla in realtà. -

Loðbrók sogghignò e allungò un braccio per prendere un paio di corni dal barile contenitore lì a fianco. Tolse il tappo ad una botte di idromele e ne spillò quanto bastava per riempire i due corni; ne porse uno al giovane e lo invitò a bere. - Così forse ti si scioglierà la lingua, prete. - scherzò e diede un colpo al bicchiere di Athelstan in un brindisi. Questo rise e bevve. Ragnar ingollò il suo idromele in un solo sorso, quindi fece un gesto all'altro, invitandolo a parlare.

- Non saprei spiegarlo...Ma questo, tutto questo – ed il sassone indicò con un ampio gesto l'oscurità all'esterno – mi turba un poco. C'è qualcosa di...non so...di innaturale. - Il sorriso del normanno si allargò, criptico, ma lui non disse nulla. Gli assestò una pacca sulla spalla e prese anche lui a fissare fuori, senza una parola.

Athelstan sorrise a sua volta: aveva imparato che quando Ragnar sorrideva così stava a significare che c'era un qualche mistero che gli sarebbe stato svelato...A tempo debito.

Gli piaceva quando Ragnar raccontava. Come sapeva narrare le storie più diverse, come sapeva dare corpo ai personaggi, dei od uomini che fossero. I suoi personaggi erano vivi, reali, le sue storie scoppiavano di vita.

 

Sopra ogni altra cosa amava che scegliesse di raccontargliele di sua iniziativa, come un fratello grande che istruisca il minore nelle cose del mondo a lui ancora ignote.

 

Era bello, sedersi con lui, Gyda, Lagertha e Björn attorno al grande fuoco della sala, quando Ragnar li chiamava tutti, lui compreso, accanto a sé, e cominciava un'altra storia di guerre e battaglie, di eroi coraggiosi e guerrieri astuti.

 

Gli ricordava casa sua. La sua famiglia.

 

Gli mancavano. Suo padre, sua madre, i suoi fratelli e sorelle, tutti loro.

 

Pensava spesso ai suoi cari. Si domandava cosa avrebbero pensato, vedendo lui, un sassone, un cristiano, assieme a quegli uomini, ad ascoltare storie di dei pagani. A vivere con loro e come uno di loro.

 

Ma non se ne pentiva.

 

Non provava vergogna.

 

Avrebbe potuto scappare, ma non l'aveva fatto.

 

Al monastero di Lindisfarne, non aveva mai provato quel calore che solo la propria famiglia può dare.

 

Quando gli avevano detto che la peste aveva colpito il suo villaggio e se li era portati via qualcosa in lui s'era spezzato. Un vuoto gelido gli si era scavato nel petto.

 

Aveva cercato conforto in Dio e nella preghiera. Aveva invocato il Suo nome sino a perdere la voce ricercando un balsamo per il dolore.

 

Nella Bibbia c'era scritto che tutti i dolori prima o poi passano.

 

E quel dolore poco a poco era passato, scivolato via col tempo. La ferita si era rimarginata, ma la cicatrice era rimasta, un segno indelebile sulla pelle a ricordargli ciò che aveva perso. Quel pezzo di sé smarrito per sempre.

 

Eppure ora non era più così.

 

Con loro, con Gyda, Lagertha, Björn, con Ragnar, con tutti loro sentiva quel vuoto colmarsi. Nuova pelle sana si stendeva su quella vecchia cancellando la ferita. Era arrivato lì come schiavo, ed ora era uno di loro. Era un cristiano ma a Ragnar pareva non importare. Per lui non sembrava contare quale dio adorasse ma solo e soltanto lui, Athelstan, il minuto “prete” sassone che da prigioniero di guerra era divenuto parte di quel mondo. Quel mondo che ora era anche suo.

 

E lui era felice con loro. Felice che condividessero con lui le loro leggende, che lo considerassero degno di fiducia, che non lo vedessero come un nemico.

 

Che lo avessero accettato, che lo avessero accolto con rispetto nonostante fosse un prigioniero ed uno schiavo.

 

“E' esattamente come noi.” aveva detto Ragnar ai curiosi contadini della sua fattoria quel giorno che, appena arrivato, si erano precipitati a vederlo come fosse stato un bizzarro ed esotico animale da fiera. “Solo è uno straniero.”

 

A volte si chiedeva cosa ne avrebbero pensato suo padre e sua madre. Di lui, di Ragnar, di quel posto che ora chiamava suo, che aveva imparato a considerare casa sua. Avrebbero compreso? O lo avrebbero biasimato, vergognandosi di lui?

 

Avrebbe dato qualunque cosa per saperlo.

 

- Padre! Vieni, è pronto da mangiare. - L'allegra voce di Björn alle loro spalle li riscosse entrambi. Ragnar si mise in piedi e sorrise al ragazzino. - D'accordo, Björn. Arriviamo. - Gli spettinò i capelli biondi con la mano quindi chiamò Athelstan. - Allora, vieni a mangiare? O resti a covare la finestra?- Il giovane sassone s'alzò, sorridendo. - Certo che vengo. Ho un discreto appetito. E anche una certa sete. -. Björn approvò:- Bravo il nostro monaco! - , e gli mollò un amichevole pugno sul braccio come faceva sempre il padre; quindi si inoltrarono nella Sala, accostandosi al focolare che vi ardeva al centro riscaldando tutto l'edificio. Attorno ad esso vi erano raccolte Lagertha, intenta a rimescolare il contenuto del paiolo appeso ad un treppiede sul fuoco, e Gyda, che tagliava una fetta per ciascuno da una grossa pagnotta. Ragnar sollevò tra le braccia la figlioletta ruggendo come un orso e la ragazzina scoppiò a ridere.

 

Athelstan si sporse curioso ad annusare il contenuto del paiolo: era chiaro, e profumava piacevolmente di erbe aromatiche. - Zuppa di aringhe e merluzzo. - spiegò Lagertha sorridendo, e ne versò un paio di mestolate al marito in una scodella. Gyda ne riempì una per sé e ne porse un'altra ad Athelstan, che la ringraziò con un sorriso e si sedette con gli altri a mangiare.

 

In quanto moglie dello jarl aveva numerose serve ma quando poteva preferiva ancora fare da sé; come aveva fatto pochi giorni prima, quando assieme alla famiglia e a tutta Kattegat si era festeggiato Jul, la festa del solstizio d'inverno, in cui il sole sconfiggeva l'oscurità e tornava a nuova vita, di nuovo caldo e splendente.

 

La Sala dello jarl era stata tutta decorata con vischio e agrifoglio; agli alberi sacri, gli abeti di Jul, sacri ad Odino, che portavano fertilità e fortuna al villaggio, Ragnar e la sua famiglia avevano offerto pane e birra, in segno di ringraziamento. Per ultimo avevano sacrificato un maiale a Freyr, sgozzandolo e versandone il sangue sull'altare dove era posta la statua del dio. Salsicce, prosciutto, arrosto e sanguinaccio erano stati i protagonisti del banchetto, birra e idromele erano scorsi a fiumi mentre uomini e donne ballavano attorno ai fuochi, tra canti stonati e allegre risate impastate dall'alcool. Ragnar, Thorstein, Arne e gli altri lo avevano trascinato nelle danze; insieme avevano svuotato boccali su boccali e mangiato fino a scoppiare, narrando storie di battaglie, donne e saccheggi, tra rutti, risate sguaiate e battute.

 

L'odore aspro dell'alcool, il profumo della carne arrostita, il puzzo di sudore e il calore dei falò di legna di pino scoppiettanti. Le urla, le risate. Athelstan non ricordava di essersi mai sentito più a suo agio.

 

Più felice.

 

“Cosa fanno i cristiani per Jul?” gli aveva domandato curioso Ragnar, bevendo con lui un ultimo boccale di birra scura, a festa ormai finita. E Athelstan gli aveva raccontato delle messa di mezzanotte, della nascita di Gesù Cristo, di come ogni famiglia si riunisse a festeggiare assieme, dell'albero che ogni villaggio addobbava, dell'agrifoglio e del vischio con cui anche loro usavano decorare le proprie case.

 

Di come si celebrasse la nascita di Gesù, figlio di Dio, da Lui inviato tra gli uomini per diffondere il Suo amore e la Sua parola, venuto per scacciare il male ed allontanare le ombre come un nuovo fulgido sole.

 

Ragnar lo aveva ascoltato, una guancia appoggiata al pugno, seduto con lui sulle pellicce davanti alle braci quasi spente del focolare nella Sala. Lo aveva lasciato finire quindi aveva sorriso: “L'ho sempre saputo che in fondo non eravamo poi così tanto diversi.”

 

- Mi fa tanta paura questo vento. - confessò ad un certo punto Gyda, lo sguardo inquieto rivolto alla finestra lì accanto da cui si udiva l'urlo della tempesta. Il fratello le mise un braccio attorno alle spalle, con fare protettivo. - E' solo il vento, Gyda. Non hai nulla da temere. -

 

- Vi sbagliate. -

 

I due ragazzi guardarono il padre con espressioni interrogative. Ragnar si mise in bocca l'ultimo pezzo di pane inzuppato nel brodo di pesce e ridacchiò sotto i baffi, masticando con fare misterioso. Lagertha, al suo fianco, sorrise.

 

Anche Athelstan, che ormai aveva imparato a conoscerlo, sorrise. Era in arrivo una storia.

 

- E che cos'è allora, padre? - domandò Björn pieno di curiosità. - Diccelo, padre! Diccelo! - rincarò Gyda e lo jarl, sospirando per gioco come se tutto ciò gli costasse uno sforzo immane, fece cenno ai figlioletti di avvicinarsi di più e prese a raccontare.

 

- Sapete in che periodo siamo, ragazzi? -.

- Sì! Nei dodici giorni che seguono Jul. -

- Esatto, Björn. E sapete perché in questo periodo il vento soffia con così tanta violenza? -

 

Nessuno rispose. Ragnar sorrise. - Questa che sentite infuriare là fuori è la Caccia Selvaggia. -

 

Björn e Gyda si guardarono negli occhi. - E che cos'è? - domandarono infine. - E' il corteo di Odino. - rispose loro Lagertha, accantonando le ciotole di zuppa vuote. - Il Padre di Tutti scende su Midgard in sella a Sleipnir, il suo terribile cavallo a otto zampe, e porta con sé le anime di coloro che sono morti combattendo in battaglia, seguiti dagli animali della foresta. Solo coloro che sono vissuti con onore e si sono battuti con valore possono banchettare con lui nel Valhalla. -. - E guai! - concluse il marito – Guai al mortale che si trovasse lungo la loro strada! -

 

Athelstan ricordò quella sera, nella capanna di Floki, quando Ragnar e tutti gli altri gli avevano narrato le loro leggende. Di Thor, di Freyr, del gigante del ghiaccio che morendo aveva dato origine alla Terra e ai mari. Mai, sino a quel momento, avrebbe mai pensato di poter un giorno provare interesse - attrazione, perfino - per un culto pagano.

 

Per tanti anni era vissuto nella convinzione che l'unico vero dio fosse quello cristiano. Che ogni altra divinità fosse solo frutto di menti rozze ed ignoranti.

 

Eppure quelle storie non gli erano del tutto estranee. Quale bambino dell'Inghilterra non cresceva udendo gli anziani raccontare la storia di come Finn, il gigante irlandese, avesse battuto in duello il suo rivale, McConigle, il più forte gigante di Scozia?

 

C'era qualcosa di arcano, di primitivo, di...familiare, in quei racconti, nei racconti di Ragnar.

 

Come se una parte di lui, una parte sepolta, dimenticata, già li conoscesse.

 

Ascoltando quelle leggende, quelle storie, Athelstan ritrovava in esse elementi di incredibile somiglianza con la sua religione.

 

Yggdrasil, l'Albero del Mondo, il Ragnarok, l'ultima lotta tra bene e male. E il concetto di Padre.

 

Odino. Il Padre di Tutti.

 

Non era forse Dio Onnipotente padre di ogni creatura?

 

- E perché non si può uscire, quando passa la Caccia Selvaggia? - stava domandando Gyda, mentre Athelstan era ancora assorto nelle sue riflessioni. - Perché le anime di coloro che non ci sono più non si sono ancora del tutto distaccate da questo mondo e tentano di ricongiungersi con coloro che sono ancora vivi. O in alternativa di trascinarli nella loro folle corsa senza fine. Non è mai facile lasciare ciò che per tanto tempo si è amato. -

 

Rialzò il capo e si accorse che Ragnar e la sua famiglia lo fissavano. Aveva parlato senza rendersene conto. Loðbrók sorrideva. Arrossì.- Come fai a saperlo? - chiese Björn stupefatto. - Conosci anche tu questa storia? - fece Gyda, accostandoglisi. - Chi te l'ha raccontata? - aggiunse Lagertha, accomodatasi sulle pellicce stese sul pavimento. Per un momento Athelstan non seppe cosa rispondere. Poi sorrise loro. - Me l'ha raccontata un vecchio del mio villaggio, quando ero bambino. Solo che in Inghilterra colui che guida la Caccia è Herla. Infatti in anglosassone si chiama Herlaþing, l'Assemblea di Herla. -

 

Il viso di Gyda si illuminò. - Raccontaci la tua storia, Athelstan! -. - Sì, avanti! Dicci di più! - insistette il fratello, e si sedette accanto al giovane imitato dalla ragazzina. Athelstan sollevò lo sguardo a fissare prima Lagertha, poi Ragnar. L'uomo sorrise e gli fece cenno di iniziare il suo racconto.

 

Lo ringraziò con un silenzioso sorriso. Le parole a loro due non servivano.

 

Infine si rivolse ai due ragazzi. - Beh, tutto comincia con Herla, fiero sovrano dei bretoni. Un giorno, andando per la foresta con il suo seguito, incontrò un nano e...-

 

Le parole fluivano dalla sua bocca senza sforzo, i ricordi affioravano spontanei come se non fosse passato neanche un giorno da quando aveva ascoltato per la prima volta quella storia.

 

Si sentiva felice. Si sentiva a casa.

 

Guardò Ragnar, e senza che questo parlasse capì cosa stava pensando. Perché anche lui stava facendo lo stesso pensiero.

 

L'ho sempre saputo che in fondo non eravamo poi così tanto diversi.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'Autrice: Ma salve, carissimi e carissime! Sono tornata, ebbene sì. Con un'altra bella (?) shot su Vikings (sono ufficialmente pazza per questa serie tv <3). E chi potevo metterci se non il mio Tiny Viking aka Athelstan in compagnia di Ragnar e della sua famigliola *.* ? *Fa la dura ma ha il cuore tenero*

 

E' stato una luuuuunga lavorazione, quella di stavolta, un parto plurigemellare diciamo. Perchè se la FF della volta scorsa si esauriva come tematiche nell'amicizia tra Ragnar e Athelstan questa volta volevo scavare un po' di più. E questo è il risultato. Intendevo mostrare come il mondo di Ragnar, vichingo devoto agli dei asgardiani, e quello di Athelstan, sassone e cristiano, siano più simili di quanto a prima vista non sembri. Ciò che fa “da ponte” tra loro due e i loro mondi è la reciproca curiosità, il voler comprendersi a vicenda. E lo scoprire, attraverso i racconti e le leggende (“Dai racconti il passato tornerà e ci riavvicinerà”...cit. Koda Fratello Orso XD) che sono meno diversi di quanto credano. Su questa premessa si basa la mia storia. Ora, il solito papiro tecnico (se mi state odiando, e mi starete odiando, vi autorizzo a saltare ^^”):

 

La Caccia Selvaggia (o Caccia Morta, o Caccia Matta, come la si chiama in Nord Italia) è una leggenda riguardante un corteo infernale, di uomini e animali, che nei 12 giorni dopo Jul appare in cielo o sulla terra. In Inghilterra è nota come Herlaþing, l'assemblea di Herla.

 

Jul (o Yule, secondo i celti) è l'equivalente pagano del nostro Natale. Jul ne è la variante germanica, che si caratterizza per il sacrificio del maiale e il consumo di carne suina (ancora oggi in Scandinavia il giorno di Natale si mangia il maiale). Da questa festività deriva l'uso odierno dell'agrifoglio, del vischio e dell'abete.

 

Finn e McConigle sono i due giganti protagonisti di un racconto contenuto nel libro “Elfi e draghi” di Edna O'Brien.

 

Per la leggenda di re Herla e del suo incontro col nano...Beh, vi rimando a Google :)!

 

E' tutto! Buona lettura, e spero mi lascerete anche solo due righe!

 

#Raky

 

 

PS: L'ascolto de “La Caccia Morta” dei Furor Gallico è vivamente consigliato ;)

 

 

 

 

  
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