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Autore: smarsties    04/09/2014    2 recensioni
Avril trascorre le sue giornate dietro ad una maschera: finge di essere una persona il cui ruolo non le si addice davanti a tutti, mentre tiene una parte di sé nascosta al mondo.
Evan, che all’apparenza ha una vita pressoché perfetta, scoprirà di essere stato tenuto allo scuro per più di dieci anni riguardo un argomento per lui importante dallo stesso padre.
Entrambi continuano ad essere assiduamente collegati con il passato.
Lei vuole dimenticarlo, andare avanti per essere felice, ma con scarsi risultati.
Lui, al contrario, vuole saperne di più, vuole far luce sulla questione.
Cosa succederanno se questi due ragazzi, così diversi all’esterno ma profondamente simili all’interno, si incontreranno?
E se sarà proprio una passione che hanno in comune ad essere la chiave per una dolce storia d’amore, contrastata dai troppi parallelismi con i rispettivi passati?
***
~Estratto dal capitolo tre~
-A domani, Ramona.-
Quando si voltò per salutarlo, purtroppo era già sparito dietro l’angolo.
Arrivederci, David.
E in quel momento tornò quantomeno ad apprezzare quel buffo secondo nome che si ritrovava.
In quel momento si sentì, anche solo per pochissimi secondi, nuovamente Avril Ramona Lavigne.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ramona ~

(Chapter three)

 

Pioggia, ancora pioggia scrosciante. Tutte quelle gocce continuavano a precipitare ormai da parecchie ore.

Fuori sembrava che la notte fosse scesa con molto anticipo; le strade erano diventate, più che altro, dei torrenti e le macchine facevano fatica a “sguazzare” in quelle due dita d’acqua; ben visibili erano le tele colorate dei pochi ombrelli che circolavano per strada.

Questo quadretto di una normalità quotidiana durante un giorno qualsiasi di pioggia si prostrava da circa venti minuti davanti agli occhi di Evan, intento a finire di mangiare una brioche ripiena di marmellata alla fragola.

Mentre mandava giù l’ennesimo boccone, era impegnato a osservare le gocce, che ai suoi occhi sembravano sempre più grandi, infrangersi contro il vetro e scivolare velocemente verso il davanzale.

La pioggia: un fenomeno atmosferico che, secondo la gente, è buono soltanto a rovinare un bel weekend; per lui, invece, era molto di più: lo considerava il dissenso del cielo e la “punizione divina” verso comportamenti assurdi e alquanto commentabili dell’uomo.

Adorava quando quell’infinito astro celeste decideva finalmente di vendicarsi, sin da quando era un bambino.

Ricordava ancora quei lunghi pomeriggi passati a giocare sotto l’acqua battente, a saltare dentro le pozzanghere che si formavano sull’erba a piè pari con i suoi stivaletti gialli e a correre lungo tutto il perimetro della casa. E ricordava ancora sua madre, impaziente, ferma sul ciglio della porta d’ingresso, munita già di un asciugamano: sapeva bene che suo figlio sarebbe rientrato zuppo dalla testa ai piedi.

Già, mamma.

I suoi genitori si erano separati quando lui era ancora piccolo - aveva forse cinque o sei anni -, non rammentava più di tanto.

Di sua madre, Evan poteva appena rivederne i lineamenti delicati, la lunga cascata di cioccolato che aveva al posto dei capelli e quei due cristalli che facevano risaltare tanto le sue pupille. Non di più, non di meno.

Era sempre stato tenuto allo scuro su quest’argomento, era come se un pezzo del suo passato era stato strappato dalla sua mente da una forza superiore - in questo caso, suo padre. Le uniche informazioni che aveva ricevuto a riguardo erano che sua madre viveva negli Stati Uniti, a Baltimora - era originaria di lì -, e che aveva deciso di abbandonarli per stare assieme a un altro uomo.

Era ancora un bambino, quando suo padre decise di deliziarlo con un discorso più grande di lui e di renderlo partecipe della situazione familiare, non capiva cosa volesse dire “stare con un altro uomo”. Ora, invece, sapeva benissimo cosa significasse quell’espressione. E lo disgustava.

Inizialmente pensava che volesse raggirarsi il discorso come più gli conveniva, per far sì che la ragione fosse dalla sua parte. Era un avvocato e inventare versioni su versioni di un solo e semplice fatto era il suo lavoro.

Lui, però, voleva rimanere attaccato alla figura materna che vagamente ricordava: comprensiva, ragionevole, dolce e, soprattutto, fedele e rispettosa verso il marito - mai una volta si era azzardata a rispondergli.

Forse voleva semplicemente illudersi che fosse così.

Ma più capiva come funzionava realmente il mondo, più dava ragione al padre. Dopotutto, lui gli era stato sempre vicino - per quanto severo potesse essere - e mai lo aveva lasciato. Non come la madre!

Come lui, era dell’idea che chiunque abbandonava la propria famiglia per vivere con il proprio amante, non meritava alcun tipo di perdono. E lo stesso, pur avendo un legame di sangue, valeva per la donna che lo aveva messo al mondo.

Non c’era stata quando aveva imparato ad andare in bicicletta.

Non c’era stata quando aveva ballato per la prima volta davanti ad un pubblico vero.

Non c’era stata quando aveva dato il primo bacio.

Non c’era stata quando aveva il cuore a pezzi.

Non c’era stata quando aveva bisogno di confidarsi con qualcuno.

Non c’era stata, mai.

Quale riconoscenza, in fondo, merita?

Quando suo padre lo stava preparando a ciò che c’era là fuori, lei dov’era?

Dov’era quando aveva imparato ad andare in bicicletta?

Dov’era quando aveva ballato per la prima volta davanti ad un pubblico vero?
Dov’era quando aveva dato il primo bacio?

Dov’era quando aveva il cuore a pezzi?

Dov’era quando aveva bisogno di qualcuno con cui fidarsi?

Dov’eri, eh?

Era con un altro che non aveva mai visto, uno sconosciuto. Ma, d’altronde, non lo era anche lei?

Può considerarsi mamma una persona che non ti chiama nemmeno per farti gli auguri di compleanno?

Può considerarsi mamma una persona che si è persa un pezzo della vita del proprio figlio?

Può considerarsi mamma una persona che preferisce dedicarsi ad altro, piuttosto che educare con amore il suo bambino?

Può considerarsi mamma una persona che non si è fatta più viva da oltre dieci anni?

E la risposta era tanto scontata: No.

Non poteva, non era plausibile una cosa del genere. Non poteva nemmeno se ci si sforzava.

Il rumore dei passi contro il parquet della cucina fecero risvegliare Evan dai suoi pensieri che, mai come quella mattina, gli avevano oscurato la mente. Si trattava di suo padre che, come al solito vestito in modo impeccabile e in perfetto orario - né troppo tardi, né troppo presto -, faceva il suo ingresso.

-Che ci fai ancora lì alla finestra? Non hai visto che ora è? Sei in ritardo, come sempre. Dovresti già essere alla fermata.- gli fece notare, iniziando a preparare il suo solito caffe delle sette meno cinque.

E, come ogni mattina, fu costretto a richiamarlo. Non sapeva perché suo figlio perdesse tanto tempo a osservare il paesaggio di quella piccola città che, dopotutto, non aveva granché d’interessante.

Eppure, per il ragazzo era qualcosa di speciale, un rituale di cui non poteva fare a meno. Nemmeno lui se lo spiegava, ma guardare quelle strade isolate - tranne quando pioveva: in quelle occasioni tutti si risvegliavano, nessuno escluso - gli diffondeva una strana quiete interiore, una tranquillità indescrivibile e la carica giusta per affrontare al meglio le sue giornate.

-Che c’è? Ti sei perso anche tu nei meandri delle infinite gocce d’acqua, com’era solita tua madre fare?- insistette, marcando parecchio sulla parola “madre”.

Mandò giù l’ultimo boccone di pasta sfoglia mista a quel poco di marmellata che era rimasta all’interno e, caricandosi sulle spalle lo zaino, decise finalmente di incamminarsi per strada.

Com’era solita tua madre fare.

Quelle parole lo avevano colpito profondamente.

Vagamente, se ci provava, le immagini di una giovane donna sognatrice, il cui dito disegnava forme irregolari e infinite, seduta alla finestra durante un giorno di pioggia qualunque, le scorrevano veloci davanti agli occhi.

Una cascata di cioccolato fondente che le incorniciava il viso: questo ben ricordava ogni qualvolta la trovava lì, in quell’angolino. Lui che tornava dal parco giochi, puntualmente sudato, rumoreggiando e, quando la vedeva così intenta nel non sapeva quale attività, taceva improvvisamente e filava mogio mogio in camera. Di solito memorie come queste ricollegava a quei capelli lunghissimi - il più delle volte raccolti in una coda o in una treccia - e in cui tanto adorava infilare le sue manine in un momento di dolcezza.

Com’era solita tua madre fare.

Anche quella mattina - quella in cui l’aveva abbandonato per sempre -, quando era venuta a svegliarlo per andare a scuola, si era seduta accanto alla finestra e aveva guardato per un attimo fuori, come se stesse trovando il coraggio per proferire quelle parole che sicuramente avrebbero ferito molto di più lei.

-Ascoltami, tesoro.- gli aveva sussurrato appena. -Oggi non ti accompagnerò io, ma tuo padre. La mamma deve lavorare e non tornerà prima di cena. Non mi aspettare fino a tardi, tornerò in tempo per rimboccarti le coperte. Ora me lo dai un abbraccio forte forte?-

Gli aveva gettato le braccia al collo senza pensarci due volte perché era certo che avrebbe mantenuto la sua promessa. Quella sera, infatti, si era infilato sotto le coperte e tenne gli occhi aperti un po’ di più, giusto per ricevere il bacio della buonanotte.

Quando si addormentò, esausto, non avrebbe mai immaginato che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe rivista.

Non avrebbe mai immaginato che quello sarebbe stato l’ultimo abbraccio che si sarebbero scambiati.

Non avrebbe mai immaginato che lei lo lasciasse solo.

Come tua madre era solita fare.

Da quando aveva capito come stavano realmente le cose, Evan aveva cercato di evitare ogni contatto con il suo passato e, soprattutto, con i parallelismi che ancora lo legavano indissolubilmente alla madre. Eppure, anche se suo padre era il primo a voler dimenticare, era proprio egli che, per primo, non poteva non fare a meno di ricordare le abitudini della sua ex moglie e di quanto simili fossero a quelle del figlio.

Non riusciva a spiegarsi perché non facesse altro che piazzargli lì, in continuazione, anche solo qualche parola riguardante quella che per lui oramai era come un’estranea.

Alle volte, infatti, arrivava persino a pensare che magari provasse ancora qualcosa - anche solo del semplice affetto, non necessariamente amore - per quella donna. Ma subito dopo capiva che quella cosa era pressoché impossibile: suo padre non era un tipo che manifestava facilmente i suoi sentimenti agli altri, nemmeno a lui che era suo figlio. Come avrà fatto a convolare a nozze con il cuore di pietra che si ritrova?

Lui, invece, nemmeno pensava a quelle sciocchezze, così frivole e prive di significato. Che cosa voleva mai star a indicare se svolgeva le stesse attività della madre - che tale non poteva essere considerata?

Però, anche se non ne dava peso più di tanto, più si ostinava a negarlo ogni qualvolta quell’argomento venisse fuori, più si rendeva conto che, molto in fondo, lui e sua madre avevano realmente parecchio in comune.

Oltre ad essere due “sognatori” - sempre a detta del padre, perché lui aveva smesso di credere nei sogni quando aveva capito come realmente girava il mondo, in modo vorticoso, senza aspettare nessuno, diventando all’improvviso più maturo -, entrambi, ad esempio, avevano gli stessi occhi color cielo - da bambino, pensava infatti che quel colore provenisse dal troppo rimanere a fissare quello scorcio di blu limpido -, quei due cristalli che erano capaci di leggerti l’anima.

Quando raccontava ogni tipo di menzogna a sua madre - innocenti, però. Dopotutto non aveva nemmeno un decennio di vita! -, lei riusciva a capirlo con un semplice sguardo. Non una parola, solo quell’occhiata indifferente. La stessa che bastava per farlo filare in camera sua, muto e rassegnato all’idea di essere stato scoperto pure quella volta.

Anche lui, quando sarebbe diventato grande, desiderava ardentemente di ottenere quel dono più unico che raro: voleva conoscere i sentimenti degli altri per non ferirli e trattarli proprio come loro sognavano. Come se fosse un sensitivo, insomma.

Sebbene ci si sforzasse, però, non gli pareva affatto di comprendere lo stato d’animo delle persone - tranne quello di suo padre, tanto lui era sempre lo stesso: burbero, severo e con strani superpoteri.

Dopotutto, pensava, essendo ugualmente sua mamma, era una cosa normalissima avere i suoi stessi occhi. Ma non riusciva a spiegarsi perché avessero entrambi il fanatismo smodato per gli origami e per la torta al cocco, perché entrambi adorassero le lunghe passeggiate nel parco e, soprattutto, perché avessero la stessa passione: la musica.

Effettivamente, se ci pensava, era stata proprio lei a fargliela amare così tanto, sin dalla tenera età: a quattro anni, gli aveva donato la sua prima chitarra ed era stata lei a insister affinché potesse prendere lezioni di quest’ultima, poiché suo padre non ne voleva sapere. Pensava che con essa la possibilità di fare successo era di una su un milione.

Forse, in parte, avrebbe dovuto esserle riconoscente: se non fosse stato per quel regalo tanto adorato - per quanto potesse ferirlo, lo conservava ancora appeso alla parete della sua camera -, non avrebbe mai conosciuto quella che nel giro di pochi anni sarebbe diventata una delle sue più grandi passioni, nonché il canto.

Anche questo aveva in comune con la madre, la quale aveva l’abitudine di canticchiare mentre volteggiava qua e là per la cucina. Gli piaceva sentirla intonare canzoni a caso intanto che gli serviva la colazione come tutte le mattine dei suoi primi sei anni di vita; suo padre, invece, distogliendo lo sguardo dal solito quotidiano, le “ordinava” di cucirsi il becco, chiamandola affettuosamente Usignolo.

Il fatto strano era che, quando pronunciava la fatidica frase - ovvero: «Ehi Usignolo, cosa ne diresti di mettere a nanna quel becco per un po’?» - tempo fa, la voce - così rammentava - assumeva una sfumatura totalmente differente dal solito, un certo non so che di dolce, soprattutto quando faceva cadere l’accento su quel nomignolo; a distanza di ben undici anni, se il figlio si azzardava soltanto ad accennare qualche semplice nota, il suo tono diveniva improvvisamente brusco e scocciato. Non che fosse proprio intonato - lui stesso si giudicava una campana che suonava a morte, anche se la realtà corrispondeva alla versione opposta -, ma il suo atteggiamento, ogni volta che metteva l’intera casa nuovamente a tacere, suonava come un unico messaggio alle sue orecchie: stava come a simboleggiare di non voler averne più nulla a che fare,  di voler definitivamente chiudere i ponti con il passato.

Del resto, come potete affibbiare torto a una persona a cui, sul cuore, ci hanno praticamente sputato sopra?

Più che a interpretarle, però, Evan, le canzoni, era migliore a comporle.

Già, sebbene il suo caro papà gli impedisse di cantare in sua presenza, non poteva in alcun modo evitare che svolgesse la medesima attività “in silenzio”. Tutto quello che non usciva dalla sua bocca, quindi, finiva dritto sul primo pezzo di carta che gli capitava davanti, sotto forma di pochi versi coincisi. Di quelli che, anche solo con poche parole, riescono a scaldarti dentro.

Aveva scoperto di essere propenso per la scrittura alla tenera età di dieci anni, quando la maestra gli aveva assegnato l’importante compito di concludere la recita di fine anno con una poesia a tema libero, ma che dovesse emozionare a tal punto da far venire la pelle d’oca a chiunque l’ascolti. Inutile dire che fu un successone: non ci fu nessun occhio asciutto nell’intera sala - tranne quelli di suo padre, Mister Cuore di Pietra, il quale non fece una piega dall’inizio alla fine.

In seguito si concentrò più sui testi musicali con le rispettive tracce melodiche. Negl’anni di scuola media, infatti, le compagnie che iniziò a frequentare lo avvicinarono così tanto alla musica che ne rimase praticamente folgorato.

Non aveva composto granché, essendo del parere “L’ispirazione, o ce l’hai per l’intero brano, o no”: la cartellina, in cui li conteneva, ospitava circa una decina di fogli stropicciati e mezzi strappati e forse il triplo in più di corte frasi significative. Frasi di quelle che ti segnano incondizionatamente nel profondo, le quali erano destinate a divenire canzoni di grande successo nei bar della citta dove venivano riproposte ogni sera ma che, invece, rimanevano solo gruppi di lettere sistemate in un perfetto ordine - studiava quelle posizioni anche per parecchie ore, anche a costo di fare diecimila cancellature - per rimanere così e basta, senza nessun tipo di variazione.

A dispetto dei generi che l’adolescenza ti porta a “venerare” al pari di qualsiasi altra divinità ci sia lassù - citandone uno in particolare: rap -, la sua vena romantica parecchio nascosta - ci teneva alla sua reputazione, non poteva di certo rovinarla! - quasi lo costrinse di provare ad ascoltare musica che si avvicinava più a uno stile pop e, soprattutto, ballate melense.

Riservava sempre un posto d’onore all’amore, quello che considerava il sentimento più vero e al contempo più bugiardo che esistesse, destinato a durare per sempre per quanto male potesse farti.

Perché la cicatrice che ti lascia sul cuore è per sempre.

Certo, non era mica il tipo di ragazzo che, nel segreto della sua camera, guardava ogni fiction o telenovela “da diabete” che trasmettevano sul palinsesto televisivo più importante del suo paese; non si metteva nemmeno a sognare davanti a quell’amore così perfetto, il quale i cantanti si ostinavano a citare nei loro pezzi.

Come se, poi, potesse sul serio esistere.

Forse, temendo di poter distruggere la vera essenza di quel sentimento tanto prediletto, non era mai riuscito a comporre una canzone d’amore, mentre, invece, la maggior parte delle frasi che potremmo definire “incomplete” racchiudevano in ogni singola parola una passione immensa.

Evan era sempre stata una persona brillante, originale… e testarda, molto testarda: se si metteva in testa una qualsiasi cosa, niente e nessuno poteva fargli cambiare idea.

C’era, infatti, un motivo - più che valido, oserei - che giustificava questa sua “scelta”: il suo progetto era di scrivere una ballata diversa dal solito. Non doveva parlare della solita storia tutta rosa e fiori, ma neanche di quel tradimento che oramai in molti erano riusciti a banalizzare. Doveva trattare qualcosa di diverso, di nuovo, ma doveva sempre fare lo stesso effetto a coloro che, accendendo il proprio mp3 e inserendo la riproduzione casuale, la ascoltassero, cioè emozionarli e lasciarli fantasticare per un po’.

Come tua madre era solita fare.

Riflettendo così a fondo su quelle sei parole, tanto dannate quanto reali, non si accorse di essere già arrivato alla fermata del bus e lo stava anche per perdere, se non fosse per il fatto che si risvegliò da quella sottospecie di coma in tempo.

E mentre si fece spazio tra la gente rimasta in piedi, scovando un posticino libero affianco a una vecchietta in penultima fila, osservò ancora una volta tutte quelle gocce crescere sempre più d’intensità e oscillare leggere al vento fino a depositarsi sull’asfalto zuppo.

 

***

 

Ritardo. Sono in un ritardo bestiale!

In altri giorni perdere sia il proprio accompagnatore personale - il padre - che, nel frattempo, si era già portata dietro sua sorella e l’autobus non sarebbe stato poi un così grave problema: le bastava correre come una pazza. Ma non appena si accorse che la sveglia segnava già le sette meno cinque e che le strade erano diventati più simili a dei canali d’acqua, Avril accolse con immenso dispiacere la notizia di doversi infilare letteralmente un cornetto al cioccolato e una tazza di latte dritti nell’esofago e di darsi una mossa.

Ecco perché, quella particolare mattina dei primi d’ottobre, si trovava a sgusciare con fatica tra ombrelli, persone e pozzanghere a bordo di una tavola con quattro ruote.

In altri giorni avrebbe adorato la pioggia. Quelle infinitesimali goccioline infrangersi contro la sua pelle di porcellana.

Era pur sempre diversa - o almeno così si considerava - e la sua diversità la portava ad amare cose che altri odiano. E quel fenomeno atmosferico era un perfetto esempio.

Mentre altri la maledirebbero perché appena lavatisi i capelli, lei li avrebbe lasciati infradiciarsi senza alcun tipo di problema.

Mentre altri si sarebbero lamentati di un weekend saltato, lei sarebbe benissimo rimasta alla finestra a guardarla scendere.

Mentre altri l’odiavano, lei l’avrebbe semplicemente amata.

Ma non quella mattina.

Quella mattina decisamente la detestava. Non è che la “detestava” nel senso letterale della parola: era come se non riuscisse ad accettare il fatto di non potersela godere almeno per un po’.

Adorava giornate come quelle, sebbene nascondessero dolore. Molto dolore.

 

Una giornata piovosa. Una quercia al centro di un parco. Una tredicenne di ritorno da scuola.

Sedeva sul suo zaino all’ombra dell’albero e fissava attentamente il paesaggio davanti ai suoi occhi: ridenti colline - non tanto ridenti, quel giorno - avvolte da una fitta nebbia ed acqua piovana.

Una situazione tranquilla, immaginerete. O, perlomeno, una situazione tranquilla sino a quel momento.

Tutto un tratto, due liceali - avevano forse uno o due anni in più di lei - le si avvicinarono senza alcuna valida ragione.

-Ehi bambina, cosa fai fuori di casa a quest’ora?- le chiese il primo, castano dal ghigno perennemente dipinto sul volto.

-Dai, corri, altrimenti mammina incomincia a preoccuparsi!- continuò l’altro, moro con un cappellino in testa.

I soliti simpaticoni che giocano a fare i grandi, pensò ingenuamente. Ma, in realtà, non si capacitano di essere loro i bambini.

Oh, come si sbagliava!

-Non avete niente di meglio da fare che perdere del tempo prezioso?- domandò beffarda, scattando in piedi. -Mi fanno decisamente pena quelli come voi, che se la prendono con chi non è alla propria altezza solo per puro divertimento, perché sanno che con i propri coetanei ci rimetterebbero qualche dente.-

Quelli rimasero perplessi, confusi. Soltanto poi scoppiarono in una risata fragorosa, pensando che si trattasse di qualche assurdo scherzo.

In fondo, chiunque sapeva chi erano i due e qual era la loro reputazione. Lei non poteva rappresentare un’eccezione.

-Ci prendi in giro, mocciosa?- disse il moro. -Sai, è meglio per te che sia così.-

-Già, perché non ci piacciono quelli come te. I saputelli della situazione, per intenderci.- Accompagnato a queste parole, arrivò una forte stretta ai fianchi piuttosto grassocci della ragazzina. -Soprattutto se i santarellini sono dei bambocci obesi come te.-

-Ridicoli.- Lo mormorò, per via dei pizzicotti che, piano piano, si facevano sempre più dolorosi. Quasi si sentiva la circolazione sanguigna interrotta.

Sputò sulle scarpe del bruno indignata, colui che padroneggiava quella morsa, quasi sperando che quel gesto potesse restituirle la libertà. E, soprattutto, dargliela vinta.

Ma quello era solo l’episodio iniziale di un capitolo della sua vita non ancora concluso. Lei, però, questo ancora non lo sapeva.

Dopotutto, come poteva?

Quel gesto, al contrario, finì solamente con il peggiorare le cose.

Uno schiaffo. Due, tre.

Qualcosa riguardo l’acquisto di nuove scarpe. Insulti pesanti ed offese.

Ebbe la strana sensazione di immaginarsi come un’ebrea ribelle, appena scoperta a fare qualcosa che non doveva, maltrattata - in quel caso, però, non in pubblico - da un soldato tedesco, all’epoca della Germania nazista.

Ormai aveva perso il conto degli schiaffi che stava ricevendo in pieno volto.

Si sentiva sanguinare, ma non voleva cedere. Non voleva dare quella soddisfazione tanto ambita a quei due.

Il moro, come per rivendicare l’amico, calciò il suo zaino in un pantano e vi camminò ripetutamente sopra - non prima di essersi accertato che le scarpe fossero abbastanza sporche.

Intanto l’altro, finito con la razione di sberle, la spinse così forte da farla inciampare e successivamente cadere a pancia in giù nel fango.

La lasciarono lì, derisa, mentre loro si allontanarono sghignazzando.

-Spero tu abbia imparato la lezione!- esclamò uno, ma non riuscì a comprendere chi data la sua lontananza.

La pioggia continuava a cadere, infischiandosene del destino di quella ragazzina indifesa. Per la prima volta, quel fenomeno che tanto adorava le parse infinitamente crudele.

 

Come se provasse ancora profonda umiliazione per quel giorno - e il che era vero. Insomma, non era riuscita a difendersi, segnando nel suo destino qualcosa che poteva perfettamente essere evitato -, abbassò lo sguardo.

I suoi occhi si scontrarono contro i suoi piedi ermeticamente premuti contro la tavola di legno. Guardava lo skate correre veloce sul marciapiede e schivare con abilità qualsiasi ostacolo gli si presentasse davanti.

Avrebbe potuto benissimo dire, mentendo spudoratamente, di non aver più rivisto quel ragazzo - di cui aveva difficoltà a rammentare il nome. Ethan? Ivan? Ma il problema non era quello, bensì era che lui, il suo nome, lo sapeva perfettamente! - da quando le aveva donato generosamente il suo skateboard. Tanto, a chi vuoi che importi?

Sebbene mentire era ciò che forse le riusciva meglio, questa volta non poteva. Era come se quella faccenda, in fondo, fosse estremamente importante nella sua futilità.

La Napanee High School - il liceo che frequentava - non era un grande istituto e conteneva un numero modesto di allievi, quindi trovare una qualunque persona al suo interno non risultava un’ardua missione. Ed era forse lo stesso pensiero che anche lui aveva avuto.

Poco tempo dopo quel giorno, si erano rincontrati casualmente nel giardino sul retro, sotto il solito salice. Nessuno dei due avrebbe mai pensato che, di lì ad un mese circa, quello sarebbe stato l’inizio di una serie di ricreazioni - all’esterno o, se pioveva, vicino alla vetrata a guardar piovere - passate a  contemplare tutto ciò che li circondava e, in primis, il cielo.

Avevano trascorso, più che altro, tempo ad osservare le nuvole e a discutere riguardo le forme strane che assumevano, che a parlare di loro stessi e di ciò che preferivano o meno. Eppure, soltanto avendo a disposizione fattori tanto irrilevanti, le sembrava di avere così tanto in comune con lui, con un perfetto estraneo: entrambi erano due tipi riflessivi e piuttosto profondi.

E, diavolo, quanto adorava quando formulava uno dei suoi pensieri poetici!

Nonostante tutto, però, non ancora riusciva a fidarsi, ad aprirsi completamente a quella nuova situazione: le faceva ancora uno strano effetto essere accettata almeno da una persona. Quel passato, il suo passato, la opprimeva con forza, schiacciando anche il più piccolo ed innocente bagliore di allegria.

Aveva paura che ogni sua azione potesse essere influenzata da esso e, a sua volta, influenzare il futuro in modo irreversibile.

Aveva paura di condizionare - e condizionare cosa, poi? - la vita di qualcun altro che non fosse lei con i suoi problemi, di trascinarlo nel suo stesso supplizio.

Aveva paura e basta.

Arrivò finalmente davanti ai parcheggi sul retro della scuola e saltò giù dalla tavola, che, in fretta, ripose al sicuro dentro il suo zaino. Non voleva che quei disgraziati, vedendola, potessero inveirvi contro per il semplice fatto che era lei a possederla, non una miglior presenza.

Quello skateboard aveva uno strano valore affettivo - sebbene fosse stato uno sconosciuto a regalargliela - e non avrebbe permesso a niente e nessuno di farla a pezzi. Per qualche strana ragione ci teneva parecchio.

Si diresse con passo svelto verso l’ingresso, che sciamava di alunni pronti ad affrontare l’ennesima giornata scolastica. Di lì a poco la campanella sarebbe suonata e tutto ciò che voleva era arrivare in tempo in classe, per sfuggire a quei due.

Ma, non appena svoltò l’angolo che l’avrebbe portata sulle scalette d’ingresso, si ritrovò davanti quei due, i disgraziati. Sapeva cosa volevano.

-Ehi, Ramona, bella mattinata, eh?- annunciò Thomas al riparo sotto il suo bel cappellino.

-Perfetta per donarci, generosamente, la tua merenda.- continuò Jake, adagiato comodamente contro il muro dell’edificio. -Chissà cosa ci avrai portato oggi…-

Avril si affrettò a cacciarla dallo zaino e la poggiò sulla mano sinistra del moro, stesa come se volesse chiedere una qualche offerta caritatevole. Non voleva assolutamente perdere tempo con loro, non si meritavano nemmeno la soddisfazione di vederla opporsi.

Inizialmente rimasero attoniti. Insomma, non aveva opposto nemmeno un po’ di resistenza?!

Poi, si congedarono, con un falso sorriso in volto.

-È bello fare affari con te.- sentì dire dal bruno.

Riprese a camminare anche lei, ma più lentamente. Guardava le sue scarpe da tennis nere inciampare in piccole pozzanghere d’acqua e lasciare successivamente leggere impronte lungo la via che percorreva.

Ramona.

Il suo secondo nome.

Aveva iniziato ad usarlo molto, ma molto, meno da quando aveva amaramente scoperto di essere vittima di bullismo, sebbene le piacesse proprio per via della sua particolarità.

Essendo, però, un nome così insolito, era per questo usato anche come oggetto di derisione contro se stessa. Veniva pronunciato con un tale disprezzo da quelli solo per recarle un fastidio immenso.

E qual è il risultato? Era finita con l’odiare il suo secondo nome.

Eppure, se tanto l’odiava, perché a lui lo aveva confessato?

La campanella suonò.

Si strinse un poco di più nel suo cappotto e si mimetizzò tra la folla, che si accalcava sempre più verso l’ingresso, fino ad essere inghiottita da quei lunghi corridoi spogli.

 

***

 

-Non trovi rilassante il modo in cui l’acqua piovana scende dal cielo?- chiese Evan senza, però, ricevere alcuna risposta.

Era una ricreazione come tante e, come ogni ricreazione, non aveva perso il tempo per sgattaiolare fuori dalla classe ed incontrarsi con quella ragazza talmente misteriosa nel corridoio che dava sul retro.

-Se uno non lo studiasse, credo che si penserebbe ad una magia.- aggiunse.

Ma continuava a non ascoltare.

Avril continuava a lanciare delle occhiate fugaci prima fuori dalla finestra, poi al suo viso - quel fantastico viso incorniciato da degli splendidi capelli biondi - ed infine a quella mela solitaria che sostava nel suo portapranzo. Quando si voltò in sua direzione, la sorprese ad osservare proprio quest’ultima.

-Fammi indovinare: questa mattina un barboncino con la rabbia ti ha aggredita strappandoti via la merenda?- ridacchiò ironico.

Effettivamente, ogni giorno si inventava sul momento scuse alquanto improbabili - del calibro “Mi è caduta in un tombino” -, invece di optare per la pura e semplice verità, anche se questa avrebbe potuto avere risvolti negativi sulla prima cosa bella che le stava capitando dopo che Matt era andato a lavorare in Italia.

Finalmente si decise a proferire parola: -Simpatico.- borbottò, cacciandogli la lingua. -L’ho semplicemente dimenticata.-

L’ennesima bugia, sospirò.

Il ragazzo prese istintivamente il frutto, lo pulì appena con la stoffa della sua maglia e glielo cedette. Dal canto suo, non ci pensò due volte: accettò in silenzio la gentile concessione, dandole un morso.

-Posso farti una domanda?- Quella frase uscì fuori senza pensarci due volte. E, magari, nemmeno voleva uscire.

Non appena lo vide annuire, si schiarì la voce ripetutamente: -Cosa ne pensi del mio secondo nome? Ramona, intendo.-

Evan si sporse verso il davanzale.

-Sai qual è il mio parere sui doppi nomi?- la sollecitò. -Fortunato chi li possiede! Non so, è come sentirsi doppiamente importanti. Cioè, uno può chiamarti o in un modo, o nell’altro… o magari entrambi. E quando li pronunci assieme, non so, è come far parte per un attimo di una famiglia reale.-

Vedendo che la ragazza se ne stava lì, ammirata, ad ascoltare, decise di continuare: -Prendi me, ad esempio. Credi che da bambino mi piacesse David? Certo che no, ovvio.  Mi dava fastidio quando veniva pronunciato con sdegno, quasi come fosse reato.-

Sempre più simili.

Si sentiva come… compresa?

Non sapeva spiegarselo. Non provava una cosa del genere da tanto tempo.

-Eppure, col passare degli anni, mi ci sono affezionato. Ho iniziato a vederla così, come se fossi dietro ad una maschera, come se il mio essere David fosse coperto e non volesse venire allo scoperto. David è un po’ la mia essenza, la mia anima. E questo mi piace.-

Staccò un altro pezzo dal suo panino.

Avril è la maschera di Ramona.

Non l’aveva mai pensata in quella maniera. Invece, ora le sembrava un discorso piuttosto sensato per quanto contorto.

Avril era il lato che mostrava in pubblico, quello migliore di sé. La buccia, la maschera.

Ramona era il suo lato, quello più nascosto, quello fragile e debole. La sostanza, l’anima.

Presentarsi con entrambi i nomi era una formalità, come non potesse farne a meno. Ma ciò non significava che sentiva di appartenere entrambi i lati di sé.

Da tempo si vedeva come Avril, quasi si fosse dimenticata del suo vero io, sebbene emergesse nei momenti di sconforto. Ramona era morta e risuscitarla era impossibile.

-Dicevi… Ramona. È così unico. Avrei dato milioni per avere un nome splendido come questo. Non che Avril non lo sia, eh! Non fraintendermi.-

Adorava quando si comportava così. La faceva scoppiare in una risata fragorosa.

Rise anche quella volta.

-Lo adoro, in pratica. Spero lo adori pure tu.-

-Credo sia così.- mormorò con un sorriso appena accennato.

Tornarono a guardare fuori.

-Non hai risposto al mio precedente quesito, però.- disse, riferendosi chiaramente alla pioggia.

Proprio prima che aprisse bocca, la ricreazione decise di concludersi.

Lo vide allontanarsi in fretta. Gli occhi azzurro cielo pieni di tristezza, come se gli dispiacesse di non aver potuto finire quell’interessante discorso

Si girò, diretta per tornare il classe. Ma, dopo nemmeno qualche secondo, una voce la immobilizzò.

-Comunque, il mio nome è Evan!- urlò alle sue spalle.

No, aspetta. Come diavolo ha capito che non mi ricordavo come si chiamasse?

-A domani, Ramona.-

Quando si voltò per salutarlo, purtroppo era già sparito dietro l’angolo.

Arrivederci, David.

E in quel momento tornò quantomeno ad apprezzare quel buffo secondo nome che si ritrovava.

In quel momento si sentì, anche solo per pochissimi secondi, nuovamente Avril Ramona Lavigne.

 

 

 

 

Angolo dell’autrice

Salve gente. *schiva della frutta che le stanno lanciando contro*

Ehi, ehi, calma! So che non aggiorno dal 19 marzo ma non mi sembra il caso di scaldarsi così tanto!

Giovanni: Ma anche no!

Sempre a sostenermi te, eh? Bravo, congratulazioni.

E meno male che gli amici dovrebbero sostenerti…

Sarò veloce, anche perché non ho granché da dirvi.

Cosa ne pensate di questo “bel” capitolo? Io sono abbastanza soddisfatta, non so voi. Ed è anche bello lungo, così mi faccio perdonare l’assenza.

*sottofondo di grilli*

No, eh? No.

Spero di essere più veloce nel prossimo aggiornamento (insomma, peggio di sei mesi non posso fare!), anche perché iniziamo ad addentrarci sempre più nella narrazione.

Comunque, avevo progettato di rendere questa fan fiction piuttosto lunga (un trenta/quaranta capitoli), mentre invece credo ne saranno una quindicina, forse venti (se non anche di meno). Sto progettando anche un sequel di questa storia e non vorrei prolungarmi troppo.

Sì, ho idee molto chiare: sono appena al terzo capitolo e già penso al sequel.

Giovanni: Fortuna che non avevi nulla da dire.

Già.

Tutto qui, credo.

Ci si vede presto al quarto capitolo. E in recensione.

With love,

Solluxy ♥

  
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