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Autore: wiston87    05/09/2014    0 recensioni
"Vivevo nel buio di quello scomparto strozzato da convulsioni ritmiche e costanti.
Ovunque mi volgessi, il paesaggio era sempre lo stesso: isole di carne, pane masticato in un mare di poltiglia e vulcani acidi pronti a esplodermi addosso. Solo guardando verso l’alto mi pareva di scorgere talvolta qualcosa di diverso… una sorta di buia imboccatura attraverso la quale passava tutto quel che finiva nel mio scompartimento"
Genere: Avventura, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vivevo nel buio di quello scomparto strozzato da convulsioni ritmiche e costanti.
Ovunque mi volgessi, il paesaggio era sempre lo stesso: isole di carne, pane masticato in un mare di poltiglia e vulcani acidi pronti a esplodermi addosso. Solo guardando verso l’alto mi pareva di scorgere talvolta qualcosa di diverso… una sorta di buia imboccatura attraverso la quale passava tutto quel che finiva nel mio scompartimento.
Com’ero finito lì? Non lo ricordo affatto. Ho però dei lontani bagliori sfumati risalenti ai miei primi momenti di consapevolezza; ai tempi in cui ero tanto minuscolo che occupavo meno della metà di una di quelle isole di carne. Ora che sono cresciuto, e quasi sto stretto in questo anfratto, mi tocca attorcigliarmi stiracchiandomi sulle pareti della mansarda, col rischio di strozzarmi il collo col mio stesso corpo bislungo, e nei momenti peggiori (quelli in cui la mia golosità non si trattiene dall’ingurgitare a mo di Pac-Man tutto il ben di Dio proveniente dalla tubatura in alto), mi si crea nel basso ventre una protuberanza lipidica tanto pronunciata che quasi sempre corre il rischio di incastrarsi nei labirinti intestinali del piano sottostante. Allora non posso fare altro, per salvarmi la vita, che mettermi a defecare come Dio comanda: e sguazzando nella mia stessa merda, che evito attentamente d’ingurgitare, passo tutte le ore seguenti, finché finalmente tutto viene espulso dall’apparato escretorio giù in basso.
Una volta avevo un compagno qui dentro. Si chiamava Luis Garcia Lopez. Credo che avesse discendenze spagnole, o portoghesi. Portava sempre un buffo cappello blu in cima al quale, aveva fatto attaccare una penna per ornamento. A me ricordava il verme della versione cartoon di Robin Hood, quello che faceva il consigliere sibilante del principe Giovanni.
Organizzavamo rave party, stavamo svegli sino a notte fonda a chiacchierare, scansavamo la noia con interminabili partite a dama. Vivevamo assieme da parecchie settimane, nella quiete più placida. Nulla lasciava presagire alcun cambiamento imminente. Poi un giorno, all’improvviso, ci accorgemmo che entrambi eravamo cresciuti troppo per quel piccolo anfratto.
Mi svegliò con uno scossone accigliato e mi fece tremare con le testuali parole: “uno di noi due se ne dovrà andare”.
“E perché mai? C’è abbastanza spazio per entrambi, mi pare”, gli risposi non senza un filo di dispiacere per quel suo monito, che ritenevo un’offesa nei miei confronti. In fondo, se due amici stanno bene assieme, entrambi possono fare un piccolo sacrificio per far posto all’altro, anche se c’è poso spazio.
“Uno di noi due se ne dovrà andare”, ripeté Luis Gargia con aria stralunata, quasi non avesse neanche ascoltato la mia obiezione, ma con un tono ancor più convinto di prima.
“Mio caro Luis Garcia”, gli dissi, “parliamone. Ne convengo, qui c’è poco spazio, ma non potremmo mangiare un po’ meno entrambi, e così facendo smussarci al punto tale da essere in perfetta sintonia con quanto ci circonda?”.
“Ed io dovrei rinunciare al cibo, l’unica gioia della mia miserabile esistenza, solo per aver ancora a che fare con un pezzente come te?”, rispose ridacchiando a denti stretti. “No mio caro, non ci penso nemmeno! E per dimostrarti quanto dissento, ora mangerò tre volte di più rispetto al solito: tu sarai relegato dalla mia espansione sulla parete opposta e verrai schiacciato dalla mia massa!”.
Terminò con una risata isterica, quasi psicolabile; uno di quel tipo di strane risa che si vedono solo nei vecchi film di animazione in cui il cattivo di turno, dopo aver pronunciato il suo diabolico discorso, si sperde infine a ridere tra se e se, con quel bizzarro modo che nella vita di tutti i giorno non vedremmo mai, a meno che avessimo a che fare pazzo furioso.
Lui ERA un pazzo furioso. Nonostante sino a quel momento l’avessi ritenuto un essere rispettabile.
Aprì le fauci e cominciò a masticare a destra e a manca qualunque cosa trovasse sul suo cammino: resti di pollo fritto, patatine, pasta, tonno e fagioli, pancetta, costine di maiale.
Quando si rapprese nel suo angolo, ebbi l’impressione che avesse mangiato non il triplo, ma cinque volte più del solito. Era tanto ingozzato che faceva fatica a parlare, ed io ero ormai stipato nell’angolino sulla destra, con le sue calcagna addosso ed il suo corpo che superava il mio di dieci volte.
“Hai visto quanto sono grosso ora? Non c’è più spazio per entrambi, ora ancor più di prima. Adesso vattene, prima di farmi perdere la pazienza!”
Non ebbi tempo di replicare, che dall’imboccatura in alto calò una nuova sostanza liquida, differente per odore da tutte quelle che di solito ci piombavano addosso. Ne assaggia una goccia.
“bleh!”, rimuginai tra me è me, “questo è una di quegli strani miscugli alcolici che capitano nei fine settimana… troppo forti per il mio palato delicato, tutt’al più possono essere utili dopo una gran mangiata, o quando non si riesce a prendere sonno, ma non certo per il sapore!”
Non appena anche Luis Garcia si rese conto del contenuto di quel liquido, subito spalancò le fauci avidamente, e ne bevve tre quarti abbondanti.
“Ahh! Mi ci voleva proprio un bel digestivo dopo il mio banchetto!”. Mi fissò con sguardo incattivito. “Oh, sei ancora qui? Non te ne sei ancora andato?”.
Non ebbi tempo di rispondere che iniziai a sentire uno strano rumore proveniente dal suo stomaco.
“La merda! Sta arrivando la merda! In quanità industriale!”, gridai fuori di me per il terrore.
“Credo di non sentirmi tanto be-bene…”, commentò lui ondeggiante; così dicendo strabuzzò gli occhi e stramazzò quasi svenuto al suolo.
“Hai mangiato troppo questa volta! Ora dove la metterai tutta la merda che dovrai cagare? Perché non ci hai pensato prima?”.
“Sta zitt….. zitt… zzzz”.
La merda, la divina sostanza regina degli scarti, quanto mai simile a cioccolato nel colore e quanto mai diversa nel sapore, iniziò a sgorgare a flutti di fontanella dal retro del suo apparato CAGATORIO. Certi schizzi acidi avevano cosparso pure le mie pareti, ma il resto, una montagna immane di escrementi chimicamente trattati, lo stava sommergendo da capo a piedi e lui, incapace di muoversi a causa della paresi post-pasto/post-sbronza, ne stava venendo sommerso.
“Aiut… aiutami… ti preg… zzz…”
“Come posso aiutarti? Come?”, gli risposi sinceramente preoccupato. “Tu sei solamente vittima della tua ingordigia! Volevi lo spazio tutto per te? E invece ora sarà tutto per me! Perché tu morrai tra breve, annegato nei tuoi stessi escrementi… prolungamento simbolico quanto mai azzeccato del tuo essere merda dentro!”.
“Scusami caro amico… sono stato un egoista… ora me ne rendo conto… zz… zzzz… la fine è ormai vicina… lo sento!”.
Spirò annegato in quello schifo, o forse morì poco prima, soffocato da quei gas rancidi ad alto potenziale tossico. Poco importa, quel che conta è che io rimasi solo.
Solo come un cane.
Solo come un verme.
Come un verme solitario.
 
 
 
Ma il suo corpo non fu espulso completamente dall’apparato escretore giù in basso. Io ne mangiai una parte, come per farlo rivivere in me, lui e la sua anima; dal momento che, nonostante non l’avessi salvato a causa del suo comportamento becero (e perché se lo avessi fatto lui mi avrebbe infine comunque cacciato), mi ero infine dispiaciuto molto della sua dipartita, e mi lagnavo della sua mancanza.
“Ora che farò? Rimarrò solo a vita? Tanto varrebbe ammazzarsi subito allora!”.
Passai i tre giorni seguenti tra atroci sofferenze interiori ed immani rimorsi di coscienza.
“Forse avrei dovuto salvarlo… lui mi sarebbe stato grato e non avrebbe più tentato di cacciarmi”, mi dicevo talvolta. “Ma come? Non avrei potuto salvarlo in ogni caso!”, mi ripetevo poi discolpandomi. “Come potevo estrarlo da quel mare di merda? Era impossibile, anche mettendoci tutta la volontà di questo mondo!”.
Al terzo giorno, sentii qualcosa di strano avvenire dentro di me. E con DENTRO DI ME, non alludo ad una sottile metafora alludente ad un brigidino del cuore, o a un travaglio concernente la mia coscienza.
Qualcosa accadde DENTRO DI ME, ovvero dentro il mio FOTTUTO STOMACO. Lo sentivo contrarsi in strane e bizzarre fluttuazioni che mai mi era capitato di percepire.
“Che anche per me stia giungendo la fine? Che abbia sbadatamente ingurgitato del materiale tossico? Tutto può essere. È difficile essere accorti e selezionare il cibo quando non si ha a disposizione che quello.che ti cade dall’imboccatura in alto! Vi sono inoltre, notoriamente, molte intolleranze alimentari, e spesso capita che chi si ammala per loro causa, viene a sapere di esserne affetto proprio in concomitanza con l’insorgere della malattia”.
Così riflettevo, sempre più triste e inquieto; quando qualcosa si mosse dentro al mio stomaco.
Era come un calcio tiratomi da un rigorista professionista.
Poi un altro calcio.
Poi un atro ancora.
“C’è qualcosa dentro di me… o qualcuno? Chi va là? Fatti riconoscere, oh bastardo infame che mi prendi a pedate intrufolandoti dentro di me! Abbi almeno il coraggio di uscire allo scoperto!”
Nessuna risposta.
Poi, cominciai ad udire una debole vocina cantilenante.
“Potrei dire la stessa cosa di te, mio caro. Non vivi forse anche tu all’interno di uno stomaco?”.
“Che cosa?”, chiesi sbalordito. “Chi sei? Come sei? Come sei finito dentro di me?!?”.
“Debbo presumere che sei tanto ignorante da non sapere neanche dove ti trovi. Ne riparleremo a tempo debito, mio caro!”.
“Dimmi chi cazzo sei!! O mi auto-squarto e ti faccio secco, a costo di morite dissanguato!”.
Un altro calcione ben piazzato mi colpì più forte che mai alla base dello stomaco.
“Sei fortunato che non ho preso lezioni da Check Norris”,  continuò la vocina “con un calcio di quella portata avrei distrutto non solo il tuo stomaco, ma anche quello dentro cui abiti tu”.
“Io abiterei in uno stomaco, secondo te? Ma che diavolo vai dicendo?”.
“Ne riparleremo al momento opportuno, quando sarai pronto per l’illuminazione in piena regola. Quanto alla mia identità… posso dirti di essere un amico. l’unico che tu abbia mai avuto in tutta la tua miserabile esistenza!”.
“Luis? Luis Lopez Garcia?”.
“Precisamente”.
“Come sei finito la dentro?!?”.
“Quando morii annegato nelle mie stesse feci, passai i tre giorni seguenti nell’oblio… sospeso come un equilibrista su quella flebile cordicella di filo di lana che dal tramonto della mia misera vita conduceva ad un insperata resurrezione postuma. Fuor di metafora, il guardiano del purgatorio mi pose la seguente condizione: Se traverserai quella corda sospesa in equilibrio sugli inferi, avrai la possibilità di tornare in vita! E dove sta la fregatura? Gli domandai. Nessuna fregatura, mi disse: semplicemente, se cadrai sarai condannato al fuoco eterno. Se invece rinunci, otterrai al pari di tutti i pezzenti come te la strada sicura e spianata verso l’eterno purgatorio. Ed io che cosa feci secondo te, mio caro Sebastian?”.
“Attraversasti il filo…”
“Bravo! Vedo che l’avere un ospite indesiderato nel tuo stomaco non ti ha fatto perdere l’intuito! Ora, il guardiano continuò dicendomi che questa possibilità non era certo data a tutti, me la stava invece offrendo perché nel mio caso si erano presentate condizioni molto particolari. C’era infatti un essere ancora in vita che teneva serbati in lui, nel suo stomaco, brandelli del mio vecchio tessuto. E come ben sai, questo essere eri tu, caro  Sebastian. Solo a patto che sia soddisfatta questa condizione è possibile il ritorno, mi disse il guardiano, in caso contrario la forza vitale, e la resurrezione, non ha modo di implementarsi in alcun materiale tangibile, tutt’al più sarebbe possibile far tornare nel mondo l’anima senza il corpo ma… sai che bellezza vagare come osservatori di un gigantesco film, con un mondo su cui, non avendo corpo, non potremmo in alcun modo interagire?”.
“Quindi tu attraversasti quel filo di lana?”.
“Lo feci! E debbo confessare che, col senno del poi, il mio assenso a compiere questa pericolosissima imprese fu più dettato dal furore della follia che dalla ragione: solo il pensiero di tornare in vita entro lo stomaco del mio aguzzino mi diede coraggio! Mi incamminai su di una colonna che si stagliava su di una fossa di serpenti e rovi, scorgendo all’orizzonte l’altra colonna, collegata alla prima con quel filo sottilissimo e quasi invisibile. Tre due uno via! Gridò il guardiano, ed io scattai col furore ceco di un proiettile centometrista. Non ero nemmeno a un quarto del percorso, che iniziarono a piombarmi addosso decine di frecce, scagliate a viva forza dai dannati giù di sotto. Chi sono costoro? Gridai al guardiano. Sono coloro che non hanno passato la prova, rispose. Falliti eterni che godono del fatto che nessun’altro, come loro, sia in grado di portarla a termine. Maggiore sarà il numero degli esseri che cadranno da questo filo, e più sarà difficile per i seguenti portarlo a termine, a causa della moltiplicazione iperbolica del numero di frecce. Quando giunsi in fondo, il guardiano parve molto dispiaciuto. Ero giunto in una sorta di tempio in cui regnava la più assoluta calma e tranquillità. Nuvole bianche come latte appena munto si stagliavano in un cielo azzurro di serenità. E li incontrai colui che mi aprì gli occhi: il supremo creatore e signore di tutto quanto esiste. Non si mostrò in viso, alludendo al fatto che casomai avessi scorto anche solo un milionesimo della sua immensità ne sarei rimasto pietrificato; ma alluse alla ricompensa cui avevo diritto. L’illuminazione! La coscienza della vera essenza della nostra vita! Ma quanto può esser considerata un dono, se essa conduce alla disperazione più cupa… rendendoci fatalmente consci della nostra nullità?!? Noi, mio caro Sebasian, viviamo nello stomaco di un altro essere vivente. Viviamo nello spazio teso tra l’ingurgito e il buco di culo del mondo… siamo VERMI SOLITARI, siamo dei FOTTUTI PARASSITI che si nutrono del cibo già ingurgitato da un altro!”
“Non è vero! Non può essere vero!”.
“È così. Fattene una ragione, caro Sebastian!”.
“No! Il mondo che conosco IO è questo, e non esiste nient’altro al di fuori di questo involucro di flaccide pareti rossastre!”
“IO potrei dire la stessa cosa, non ti pare? Dal mio punto di vista, il mondo è il tuo stomaco. Eppure tu capisci bene che c’è ben altro…”
“Beh..”, a questo punto cominciai a sentirmi seriamente perplesso, quasi dubbioso. Ondeggiante. “Ma se sono dentro lo stomaco di qualcuno… chi è costui? Quali sono i veri contorni del mondo, fuori da queste mura entro le quali l’infingardo destino ci ha costretto?”.
“Il mondo non ha dei veri confini, se non quelli che TU di volta in volta gli assegni a causa delle TUE limitazioni. Occorre spogliarsi del proprio IO individuale per poter raggiungere la vera essenza del…”
“Palle! Tutte favole da sballati!”, gridai fuori di me. Se per un attimo ero stato tentato di concedergli il beneficio del dubbio, quelle rivelazioni divennero di colpo troppo pesanti per esser sostenute.“La morte e la resurrezione devono averti dato alla testa, come già successo a quel fariseo due millenni or sono, quando si convinse di possedere il segreto dell’immortalità! Anzi, sai che ti dico? Che secondo me non sei mai nemmeno morto; non so ancora bene come ma devi esserti furbescamente nascosto in qualche doppio fondo di questo scomparto! Che è l’unica cosa esistente al mondo!”.
“La verità è difficile da accettare, ne convengo. Tieni presente che… ehi, ma che diavolo è questo rumore?!? Lo senti anche tu? Oh mio dio!!”.
Era un gracidare indecifrabile. Freddo e metallico, entrava nel bassoventre facendo vibrare all’unisono le corte adibite all’ansia.
Fu allora che vidi la luce.
 
 
 
Anche questa, non va intesa come metafora. Quando parlo di VEDER LA LUCE intendo quella reale, delle lampadine e del sole, e non un esperienza interiore, un illuminazione come nel caso dell’amico/nemico Garcia Lopez.
Oppure il caso volle che subito dopo, o addirittura in concomitanza con quella, per suo tramite, raggiunsi anche l’illuminazione interiore.
Ecco cosa accadde: come un cielo che si squarcia rivelando una quarta dimensione nello spazio, così la parete superiore dello scomparto fu ripiegata verso l’esterno, rivelando la luce accecante di una sala operatoria. Una torcia elettrica, come un faro nella notte, era puntata su di noi come nei film polizieschi con l’indiziato, durante l’interrogatorio, come fossimo stati i colpevoli da mandare al macero.
“Eccolo qua il bastardo!”, sussurrò il chirurgo operante, mentre mi estraeva con un’enorme pinza apposita. “D’ora in poi non le darà più noie, può starne certo!”, disse con tono più eccitato all’uomo che se ne stava sdraiato sul lettino.
Mi girai per vedere quel tale. Era un quarantenne con baffetti neri, viso anonimo, sofferente, ma con un lontano bagliore di soddisfazione recondita causa l’essersi liberato di me. Per sempre.
ALLORA ERA VERO!
Era tutto maledettamente vero!
La storia di Luis Garcia Lopez… il nostro far parte di qualcosa di più grande… un corpo in piena regola! Il nostro esser stati parassiti sin dall’alba della nostra vita!
Ma che sarebbe stato di noi, adesso?
Mi voltai dalla parte opposta e vidi una rotella meccanica, fumante, pronta a tranciarci in due prima che potessimo attaccare altri corpi inerti…
Come potevo morire proprio allora, che ero finalmente giunto alla grande Verità?!?
La rotella si avvicinava
Si avvicinava.
E ancora.
Inarrestabile.
“FERMI TUTTI!!!”, gridai con quanto fiato avevo in corpo. Non volevo tanto salvare me stesso, non me ne importava più molto ormai. Ma la Verità che portavo in grembo… quella si, era troppo grande per andar perduta!
I presenti si pietrificarono per qualche istante.
“Signori, ascoltatemi con molta attenzione! Fino ad un attimo fa nemmeno io credevo, ma poi… ho visto la luce! E stato allora che ho percepito la vera essenza del mondo! Facciamo tutti parte di qualcosa di più grande… io come voi. Noi eravamo parassiti nel corpo del qui presente baffuto… e voi invece, dentro che cosa state? All’interno di quale grande stomaco cosmico percorrete le vie traverse delle vostre grame vite, inconsapevoli del grande piano che aleggia su di voi?”.
“Non credevo che questo COSO potesse anche parlare!”, disse il chirurgo impietrito agli infermieri. “E viste le puttanate che racconta, sarebbe stato tanto meglio che avesse taciuto per sempre!”.
Un infermiere mi guardò storto e si rivolse al chirurgo: “Devono esser stati tutti quei residui nucleari… l’inquinamento… i cibi OGM… ormai viviamo in un mondo malferme! Quell’essere demoniaco sta solo cercando di confonderla, per non farsi gettare in pasto alla ruota dentata; presto! Lo maciulli per bene prima che sia troppo tardi!”.
Luis Gargia Lopez, che fino ad allora se n’era stato tacito, non capendo bene cosa stava succedendo (essendo ancora dentro di me e non potendogli la vista venire in aiuto), sbottò quasi impazzito. Ma non contro gli esserli là di fuori; contro di me!
“Sebastian, la mia lezione ti ha fatto andar di volta il cervello?! Sei passato al non credere allo scetticismo assoluto all’universalizzazione indebita del principio in uno schiocco di dita! Cosa ti fa pensare che anche… lor signori là fuori, chiunque essi siano, soggiacciano allo stesso tremendo meccanismo d’inclusione in un corpo d’altri??”.
“Ma cosa succede?”, sbottò il chirurgo come dinnanzi al Satana in persona. “Adesso parla con un'altra voce affermando l’opposto!”.
“Lo butti sulla rotella, presto!”, gli fece eco l’altro infermiere.
Senza darmi la pena di ascoltarli, stavo già ribattendo Luis Garcia: “sei stato tu a darmi questo insegnamento! E se adesso ti rifiuti di trarne le conseguenze fino all’ultimo, sei come la sfera di Flatlandia! E non sei tanto diverso dal me di cui ti facevi beffe fino ad un secondo fa! E… AHHHH!!!”. Come appena risvegliatomi da un sonno placido, mi avvidi che la rotella assassina mi stava davanti, insanguinata, a meno di due metri di distanza.
Il chirurgo infame aveva preso la rincorsa per gettarmi addosso e tanti saluti.
La liberazione del Luis Garcia giunse proprio al momento propizio: con uno spasmo di dolore atroce mi aprì il bassoventre facendosi strada a carponi fuori di me.
A quel punto, non so cosa diede al chirurgo quell’attimo d’indecisione che gl’impedì di soddisfare il suo fine; se fu più lo sbigottimento smodato del veder uscire da me un mio simile, oppure… la lontana consapevolezza che quanto avevo affermato poteva corrispondere al vero; che se cioè Luis Garcia stava in me, ed io dentro il baffuto, pure loro (ed il baffuto compreso) potevano stare dentro altro… fatto sta che riuscimmo a svincolarci assieme, con l’agilità di anguille, e piombammo ancora sul ventre semi-aperto dell’operato, facendo bene attenzione a non ripiombare NEL BARATRO.
O meglio: quello che da poco avevamo compreso esser tale, e che da sempre avevamo ingenuamente reputato la nostra dimora.
 
 
 
“Ma cosa cazzo… prima era uno solo e adesso sono due!”, gridò il chirurgo mentre brandiva il bisturi.
“Moltiplicazione cellulare!”, gli fece eco l’assistente. “Ho visto un film di fantascienza che… si, insomma, siamo nella merda fino al collo se non…”
“Signori! Datevi un minimo di contegno!”, dissi con voce roca e cavernosa, che il maggior quantitativo d’aria là fuori iniziava a farmi avere. “Non siamo i vostri aguzzini, ma i vostri liberatori! La nostra missione: fornirvi la visione di una via traversa con cui concepire l’esistenza tutta!”.
“Parla per te!”, mi fece eco Luis Garcia. “Io non mi sento proprio un profeta! E tu stai prendendo un grosso granchio! Dai, diamocela a gambe e fondiamo un associazione vermi, potrebbe avere successo!”.
“Un associazione VERMI SOLITARI? E a quando una per il FUOCO GHIACCIATO?”.Fece per ribattere ma lo interruppi sul tempo. Ero troppo ebbro dalla grandezza che intravedevo nella mia missione; in quel mentre avrei potuto scagliarmi senza remore contro il grande esercito di Costantinopoli.
Il chirurgo fece un passo avanti. “Mi pare d’aver capito che lei… afferma che NOI tutti facciamo parte di un altro corpo… sulla base del fatto che anche lei, ed il suo amico, ne avete fatto parte? Dico bene? Mi perdoni, se è così come può essere che nessuno se ne sia mai accorto? Noi uomini non siamo vermi… con tutto il rispetto. Abbiamo un certo acume per passare al vaglio i misteri. Se fosse stato così, sarebbe certamente giunto prima o poi un certo spilungone a metterci la pulce nell’orecchio e…”
“E infatti sono arrivato io! Le pare poco? Ma per rispondere alla sua domanda, direi che nessuno l’ha mai scoperto semplicemente perché nessuno ha mai tentato. Non ha mai avuto la nozione di tentare ad andare oltre. Proprio come NOI, con la parete dello stomaco!”.
“Forse però le sfugge un piccolo particolare. Dove diamine sarebbe questa direzione X percorrendo la quale giungeremmo fuori dal nostro involucro? Suvvia, sia serio, è una tesi completamente ridicola!”.
“La stessa cosa potremmo dire noi. Lo sa che i vermi percepiscono si e no soltanto due dimensioni spaziali? Le dico una cosa: ci provi”.
“A far che?!”.
“Che diamine, a raggiungere l’altra! Oltre la quale si trova il corpo di cui siete abitanti! Su, su, non sia timido, ci provi. È la base della scienza, questa, o no? Empirismo. Provare a fare una cosa. Giudicare con l’esperienza. Non giudicare PRIMA!”.
Il chirurgo sbuffò accigliato, aprì le gambe e pose le mani davanti al corpo come per aprire una fessura nell’aria.
“Ah! Anche i suoi colleghi!”, precisai.
Sbuffarono e si misero in posa, esattamente come il loro capo.
Passarono dieci minuti di mugugni, espressioni concentrate e semi-annoiate come stessero defecando l’anima sulla tazza del cesso.
Mezz’ora.
“Ha visto?”, sguainò il chirurgo, coi colleghi che gli facevano eco in un brusio scomposto. “Non succede assolutamente nulla! Non so neanche perché mi son prestato a questa pagliacciata… avrei dovuto triturarvi immediatamente! Ed è  proprio quello che farò ora… anzi, data la vostra anormalità, vi rinchiuderò in barattolo per vendervi ad un sezionatore di mostri della natura”.
Le pinze furono ancora su di noi.
Era finita.
Avevo fallito.
Ero stato un illuso.
Meritavo di morire in malo modo.
Riuscii solo ad udire il bisbiglio depresso di Luis Gargia, “Hai visto? Che ti avevo dett…”, prima d’essere serrato per bene nel barattolo e riposto in sede separata sulla mensola in alto a destra.
A quel punto ci fu un'altra luce.
Come un miracolo a ciel sereno.
Ma molto più splendente della prima… quasi celeste.
 
 
 
Era d’un azzurro turchese zaffiro violaceo, nel bel mezzo della sala operatoria. Come di tutte le migliori rifrazioni dei diamanti del mondo, concentrate in un unico mezzo metro quadro.
Si udì una voce tonante provenire dall’altra parte.
“Qualcuno deve aver provato ad aprirmi lo stomaco a forza… era almeno un milione d’anni che non succedeva, dalle parti della Via Lattea. Meglio farli venir di qui a forza, o combineranno un casino come quei beoti di Andromeda!”.
“Ne convengo, mio signore”, rispondeva una voce esile e nasale. “Aziono immediatamente il passaggio. Trattenga il fiato per un istante, prego”.
Si aprì un vortice ipnotico in concomitanza della grande luce diamantata. E tutti, vermi e uomini, fummo trascinati dall’altra parte della barriera, dello stomaco, o di quel diavolo che era.
Nel ricadere a terra, entrambi i nostri barattoli di prigionia si ruppero in mille pezzi.
Tutti quanti, nel vedere colui che ci si parava innanzi, trattenemmo il fiato in visione della sua possanza, ma non riuscimmo ad identificarlo subito.
Solo Luis Gargia Lopez ce la fece; quando rialzò lo sguardo innanzi gridò: “è lui! È il Supremo!”.
Era l’unico ad esser stato morto, ad aver traversato il filo di lana sospeso sull’abisso, e ad aver potuto vederlo in fondo alla costruzione massiccia.
Ci circondava un pavimento a scacchi bianchi e neri. Il signore di ogni cosa se ne stava sul di un trono alto quaranta metri, con uno scettro delle dimensioni dell’Empire State Building ed una pelliccia rossa sgargiante, come un Babbo Natale in versione acido, su cui s’intravedeva un piccolo foro. Aveva i contorni del viso di qualche animale esotico, ma non riuscivo ad identificar bene quale. Forse un miscuglio.
Accanto, una piccola lucertola in paltò, che doveva esser l’aiutante.
“Siete stati voi a volermi oltrepassare? Orsù allora, da bravi, ditemi che volete”.
Non stetti più nella pelle. Sapevo che non era il momento, ne il modo, ma non resistetti: “ve l’avevo detto! Avevo ragione io! IO! Io! IO!”. Fissai Luis Garcia Lopez ancora mezzo estasiato e gli diedi un batuffolo sul ventre.
“Questa mi pare una confessione bella e buona!”, se la rise il Supremo portandosi una mano al mento peloso. “Nel caso vi siano ancora dei dubbi, è bene dirlo chiaramente. IO sono il contenitore di TUTTE le galassie del vostro universo, di tutte le stelle e gli esseri ed i microbi ed i granelli di polvere. Voi siete le mie piastrine, proteine, i componenti essenziali. Che figata, no?”
Fissò Luis Garcia Lopez. “Ma tu… ci conosciamo già? Ah si! Il grande guerriero equilibrista!”, si bloccò all’improvviso. Il bagliore di un collegamento tra idee parve farsi strada dentro di lui.
“Adesso ho capito! Per mezzo dell’illuminazione di cui ti ho fornito, hai potuto illuminare a tua volta questi simpatici saltimbanchi tuoi compari”. Si fece pensieroso.
Mi feci avanti lievemente imbarazzato per la sfollata di poco prima e dissi: “mi perdoni, Supremo, vorrei farle una domanda. Probabilmente gliel’avranno già chiesto un milione di volte, ma… lei è l’ultimo anello della catena? È il contenitore di ogni cosa, non contenuto a sua volta da qualcun altro?”.
“Esattamente. Comunque, non mi hanno mai fatto questa domanda”.
Paradossalmente, rimasi più sbalordito dalla seconda parte della risposta, che era quella non richiesta. Anzi: rimasi sorpreso proprio perché davo per scontato il contrario.
“Com’è possibile che nessuno gliel’abbia mai chiesto? Avrà incontrato un miliardo di miliardi di esseri da quando esiste… e a nessuno mai è saltato in testa di…”
“Un osservazione intelligente, la tua”, rispose il Supremo. “Ma in realtà, c’è una spiegazione più che logica. Vedi, una condizione necessaria al vostro giunger qui, era che io rivelassi al qui presente Luis Garcia Lopez l’arcano mistero. Cosa che a dire il vero ho iniziato a far solo ultimamente, tanto per variare il programma. Evidentemente, sei stato il primo di quei pochi esser ad esser giunto in qui con una tale domanda in testa”.
“Ah”. Rimasi lievemente deluso. Mi attendevo un gran mistero e tutto si risolveva in nulla. Rincarai la dose sull’altro versante. “Però non ho ben capito… come fa ad esser certo di essere il sommo, non contenuto da alcun altro?”.
“La parola Supremo ti dice qualcosa? Son sopra tutto e tutti, è chiaro”.
“È solo una parola!”.
“Ma indicativa! E comunque… io sono eterno, infinito, onnipresente, è proprio impossibile sul piano della logica più basilare che le cose stiano diversamente da così. Tutti i teologi del mondo, nonostante fossero in contrasto su molti punti, non hanno mai avuto la cecità intellettuale di negare questo punto!”.
“È solo una sua supposizione, dunque… non ci sono prove in senso stretto”.
Per un infinitesimo istante, il Supremo parve accigliarsi in una smorfia sorda. Se era vero quel che affermava, in tutta la storia dell’eternità non c’era mai stato un solo essere che l’avesse messo innanzi ad un tale atroce dubbio.
“Io… io…”, ripeté quella cantilena egocentrica un altro paio di volte, poi gli venne in salvo l’aiutante lucertola; voce di menestrello.
“Signore, vuole che mandi via questi seccatori? Le hanno già rubato abbastanza tempo”.
Difficile rubar tempo all’eternità; non è una scusa che regga poi molto. Sapevo che il Supremo avrebbe potuto spazzarci via con un colpo di mano, ma non se lo sarebbe mai permesso. Non era un dittatore golpista: era buono e giusto. Sommamente onesto. Se intravedeva un minimo germoglio di veridicità in quel tarlo che gli avevo installato, non poteva esimersi dal prestargli ascolto. Al contrario: sentivo che avrebbe quasi voluto ringraziarmi per averlo condotto su quella strada, nonostante la piccola ferita apertasi in sua vece.
“Non lo so con certezza”, disse infine con l’umiltà propria dei filosofi. “L’ho sempre presupposto, ma non posso dimostrartelo. Anzi si, si che posso!”, una nuova forza s’impadronì di lui. Si alzò con un impeto tale che tutto si mise a tremare, e protese le mani in avanti per aprire un fantomatico varco, così come avevano fatto i chirurghi prima. “Lo vedi? Se non si apre un varco né si aprirà tra breve, vorrà dire che ho ragione”.
Era vero.
Ma forse non del tutto.
Poteva ben essere che coloro che stavano “di là” fossero di natura affatto differente; d’altronde poteva non esser proprio la stessa cosa aprire un varco nel nostro mondo ed uno per trarre a sé un Dio universo.
E infatti, nonostante anche nei minuti seguenti nessun varco si fosse aperto, nemmeno lui sembrava proprio convinto.
Si risedette sul trono col pugno chiuso e pesante poggiato sulla guancia e se ne stette immobile, pensoso.
Può un Dio… deprimersi? O tale dovrebbe esser solo una possibilità scaturente dall’imperfezione umana ed animale?
Senza consultarsi col superiore, l’aiutante lucertola ci aprì un nuovo varco conducente alla terra facendoci segno di passare. Stavamo per farlo, quando il supremo si alzò di scatto e gridò: “fermi! Fermali! Voglio che assistano anche loro all’esperimento che fugherà ogni dubbio! Apri un varco verso il purgatorio, zona del filo di lana teso!”.
A questo annuncio, Luis Garcia Lopez si sentì mancare; lo trascinammo svenuto al nuovo vortice sguaiato verso il basso.
 
 
 
“Così questo è il famoso guardiano del purgatorio… non c’è che dire, ha proprio l’aria del Tristo Mietitore”.
“È un parente stretto della Morte”, commentò il Supremo, mentre traversavamo un ponticello sospeso sul mare di lava. “Ma non siamo qui in villeggiatura. Solo per domandare in prestito al guardiano il suo telescopio speciale, costruito assieme a quei mandrilli del quinto girone. Non so perché, ma ho il vago sospetto che se il nostro dubbio non può esser fugato volgendoci all’infinitamente grande, lo potrà esser invece nell’infinitamente piccolo. D’altronde, non è forse vero che gli opposti estremi s’incrociano nell’infinito?”.
“Se non lo sa lei che sa tutto, e che essendo infinito può comprenderlo…”
Giungemmo alla sala del super microscopio elettronico, che si trovava al centro di otto ponti lastricati sospesi sull’oceano di lava ribollente.
Sul mega schermo a lato, potevamo vedere le immagini con l’occhio del Supremo.
Iniziò ad ingrandire la tavolata.
Poi di più.
Poi sempre di più.
Quasi sino all’infinito.
Infine, col massimo ingrandimento ponderabile, vide se stesso di spalle che fissava nel super microscopio elettronico.
  
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