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Autore: Hermione Weasley    25/09/2008    1 recensioni
Solo in quel momento si rese conto di un paio di scarpe eleganti, proprio a due passi dal banchetto, ormai deserto, che aveva allestito per i piccioni. Erano nere, e a punta e assurdamente lucide per un luogo come quello.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Angela Petrelli, Sylar
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Prima di iniziare, la fic ha luogo quando Gabriel è ancora piccolo, e in più:
SPOILERS PER LA TERZA STAGIONE.







Whatever It Takes.

Whatever it takes, I'll try
So don't pay no mind
To whatever people say
Whenever it is in my life
Know that I will be on time
'Cause you know why
There's no standing in our way


Whatever It Takes (Leona Lewis)


*


Infilò una mano nella busta di chicchi di mais che sua madre gli aveva lasciato prima di mettersi a chiaccherare con una vecchia signora che frequentava la loro chiesa.

Adelaide era bassa e di corporatura piuttosto tozza. Quando sorrideva e ridacchiava (il che, secondo il piccolo Gabriel, succedeva fastidiosamente troppo spesso) il suo viso si contraeva in una smorfia odiosa: gli occhi si assottigliavano fino a sparire del tutto tra le pieghe del suo viso rugoso.

Gabriel pensava che fosse spaventosa. Avrebbe giurato di averla sognata, una notte.
Per questo, tutte le volte che sua madre lo trascinava in chiesa, si sforzava di guardare dritto di fronte a sé. Fissava il Crocifisso con estrema attenzione, cercando di capire con esattezza com'era possibile che stesse sospeso a mezz'aria sull'altare.
Ci voleva poco perché finisse ad osservare il soffitto. Era capace di restare in quella posizione per ore se solo sua madre, con la sua maniacale attenzione, non si accorgesse (ogni santa volta) che non stava prestando ascolto alle parole del pastore. Allora gli tirava una leggera gomitata nello stomaco, richiamandolo al suo dovere.

Lanciò i chicchi di fronte a sé, aspettando che i piccioni accorressero per pranzare in sua compagnia.
Continuò a far dondolare le gambe oltre la panchina. Era ancora troppo piccolo per poter riuscire a toccare terra coi piedi.

Fece una smorfia infastidita.

Sentì lo svolazzare e il dispiegarsi di tante ali, e poi uno, due, tre piccioni atterrare esattamente di fronte a lui. Fissò il piccolo capannello di uccelli che aveva radunato, iniziando a contarli, lasciando rapidamente perdere quando realizzò che stavano aumentando senza alcun controllo, e che non ce l'avrebbe fatta a contare abbastanza in fretta.

Sembravano tutti uguali.

Mentre il pensiero gli attraversava la testa, sollevò lo sguardo per cercare quei bambini che di solito frequentavano il parco. Li conosceva tutti, di vista.
Sapeva i loro nomi perché sentiva i loro genitori chiamarli ad alta voce per richiamare la loro attenzione. Li aveva etichettati tutti, e pensava che anche loro, come i piccioni, fossero tutti uguali.

Giocavano a calcio o col frisbee, mentre le ragazzine saltavano la corda.

Era sicuro che una persona sana di mente non si sarebbe divertita a saltare sul posto, mettendo a repentaglio l'integrità del proprio mento (perché Gabriel sapeva benissimo che se cadevi in avanti, la prima cosa che ti rompevi era il mento) per il puro gusto di ingannare il tempo.

Non poté fare a meno di pensare che era tutto estremamente stupido.

Si spinse improvvisamente indietro sulla panchina quando l'arrivo di qualcuno spaventò i piccioni, causando un fuggi fuggi generale e improvviso che lo colse di sorpresa.
Corrugò la fronte, stringendo i pugni per non lasciarsi sfuggire nessuna imprecazione fuori luogo.

(Suo padre gli aveva detto che certe parole poteva dirle solo lui, perché era un adulto.)

Fissò con amarezza il mais rimasto a terra, mischiato con la ghiaia del viottolo.
Solo in quel momento si rese conto di un paio di scarpe eleganti, proprio a due passi dal banchetto, ormai deserto, che aveva allestito per i piccioni.
Erano nere, e a punta e assurdamente lucide per un luogo come quello.

Fece risalire lo sguardo sulle calze nere, e poi sulla gonna stretta in vita, di quelle che indossano le donne in carriera.
E ancora il cappotto grigio di lana, col bavero largo e la cintura stretta in vita.
Le mani, con le unghie dipinte di rosso, stringevano la borsetta di pelle nera che portava al braccio.

Avvertì un brivido quando era ormai sul punto di scoprire che viso avesse la donna che aveva così prepotentemente interrotto i suoi pensieri.
Aveva intenzione di salire molto lentamente, per pregustarsi l'aspettativa e l'attesa.
Era come se sapesse esattamente che tipo di viso dovesse avere una donna che vestiva così.

(Le aveva viste nei film, soprattutto, prima che Virginia arrivasse tempestivamente a spengere la TV.)

Ma poche parole pronunciate con tono sicuro e autoritario, lo costrinsero ad accelerare i tempi, e dopo qualche secondo la stava fissando dritta negli occhi.

"Dov'è tua madre?" Chiese la donna, ricambiando il suo sguardo senza alcuna esitazione.

Gabriel era sicuro che quella fosse la seconda volta che gli ripeteva la domanda. Le sue riflessioni avevano il potere di isolarlo dal mondo.

C'era qualcosa nell'austerità dello sguardo di quella donna, che riusciva a metterlo profondamente a disagio, facendo vacillare la facciata di sicurezza che sfoggiava solitamente con gli altri bambini.

Si strinse nelle spalle, senza dire niente.

"L'uomo nero ti ha mangiato la lingua?"

Un sorriso di scherno si aprì sul volto della donna. Non era brutta, pensò Gabriel, ma incuteva timore.
Doveva avere dei bei capelli neri, lucenti e lunghi e morbidi, ma li aveva intrappolati in un'elaborata crocchia che le teneva la fronte e le spalle libere.

"No, signora," si sforzò di dire, sperando che la voce non gli uscisse troppo stridula o flebile.

"Immagino che non ti dispiaccia se mi siedo un po' qua, vero?" Domandò di nuovo, ma Gabriel non ebbe il tempo di rispondere: la donna già aveva preso posto di fianco a lui, posizionandosi la borsetta sulle gambe.

"Bella giornata, non è vero?" Continuò come se niente fosse, alzando il viso alle fronde degli alberi.
"Preferisco la pioggia," borbottò Gabriel in risposta, riprendendo a dondolare le gambe per allentare la tensione.

La donna si voltò verso di lui, rivolgendogli un microscopico sorriso.

"Arriverà anche quella, Gabriel," gli assicurò, distogliendo nuovamente lo sguardo.

Il bambino sgranò gli occhi, fissando con stupore il profilo elegante della signora.
Come faceva a sapere il suo nome?

"Quando?" Le avrebbe voluto chiedere se lo conosceva per qualche motivo, ma si risolse a domandare quand'è che il tempo sarebbe cambiato.

"Presto. C'è una tempesta in arrivo."
"Davvero?"
"Davvero."
"Come fa a saperlo?"
"Lo so e basta," sentenziò la donna, scoccandogli un'occhiata storta, come a rimproverarlo per la sua impertinenza.

Gabriel fece cadere nuovamente lo sguardo sui propri piedi, che apparivano e scomparivano sotto la panchina, con una cadenza lenta e regolare.

"Non trascurare mai le apparenze, Gabriel," la sentì parlare di nuovo, ma con tono più grave e controllato, "possono sembrarti stupide accortezze da persone superficiali, ma l'involucro è quello che giudichiamo per primo."

Non lo guardava mentre pronunciava quelle parole.

"Non è cattiveria, ma soltanto ingenuità. Ti lasceranno in pace se darai loro un motivo per crederti come loro. E tu, Gabriel, potrai essere te stesso più liberamente."

La vide reclinare il capo di lato, come se si stesse concentrando su un qualche particolare del prato.

"Si è sempre più bravi a capire i problemi degli altri, che i nostri, non è vero?"

Gabriel la fissava con interesse, ma per quanto si sforzasse, non riusciva ad immaginare quale fosse il problema di quella donna.

La sentì sbuffare una risata che aveva dell'ironico nel tono in cui le uscì di bocca.

"Nessun ostacolo è troppo grande da non poter essere superato," aggiunse, come se si stesse riferendo a qualcosa in particolare, "e anche qualcuno piccolo come te può capirlo."

Gli scoccò un'occhiata strana, cercando i suoi occhi senza esitazioni.

"Non è vero, Gabriel?"

Lui fece un cenno di assenso.

"Capirai," assicurò la donna, come se gli avesse letto nel pensiero, "capirai tutto, alla fine, ma fino ad allora...," si alzò dalla panchina, lasciando la frase in sospeso, "mantieni le apparenze."

Gabriel annuì molto seriamente, sebbene la donna non fosse molto convinta. Sapeva che le cose sarebbero andate diversamente.

La vide chinarsi su di lui.

"Nessuno è speciale e nessuno è ordinario," gli confessò, prima di rimettersi dritta.

Gli rivolse l'ennesimo sorriso. Gabriel non lo ricambiò, e rimase immobile mentre la donna si congedava.

"Ci rivedremo, signor Gray," piegò leggermente il capo nella sua direzione prima di dargli le spalle e allontanarsi.

La seguì con lo sguardo fin quando non fu sparita dal suo campo visivo.
Sarebbe arrivata la pioggia?

Inspirò a fondo, sperando di sentirne l'odore, ma niente gli ricordò il profumo che il maltempo portava ogni volta con sé.

Suppose che era soltanto una povera pazza. Gli venne persino da ridere.

Non poteva immaginare che una tempesta sarebbe seriamente arrivata.

E si sarebbe portata via suo padre, e con lui l'unica cosa che teneva sua madre saldamente ancorata al mondo reale.

Solo allora si rese conto dello sbattere d'ali che riempì di nuovo l'aria.

Erano tornati.

  
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