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Autore: Lara Ponte    09/09/2014    1 recensioni
Questa storia partecipa a due contest. (Sotto i 2 link)
http://freeforumzone.leonardo.it/d/10900995/-Eroi-nel-Vento-/discussione.aspx/1
http://freeforumzone.leonardo.it/d/10880183/This-Is-War/discussione.aspx
L'ambientazione è una della più classiche del genere SF.
L'umanità ha da tempo lasciato la Terra, ormai in profondo stato di degrado per trasferirsi su altri sistemi planetari. La nuova federazione è gestita da un “Impero Centrale” ma sono tanti quelli che invece preferirebbero che ogni singolo pianeta avesse un governo proprio.
Con alcuni pianeti è già in corso una vera e propria guerra civile e il mio personaggio sarà suo malgrado coinvolto nel peggior genere di affari...
Grazie in anticipo a tutti voi che la leggerete. Enjoy
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un eroe mancato.


I

Tre di notte. Mi sveglio madido di sudore in una stanza di questo motel dimenticato da Dio. L'ennesimo incubo è venuto a trovarmi nei miei sogni: so che non finiranno mai di perseguitarmi. Mi sembra quasi di vedere ancora il sangue sulle mie mani: tutta l'acqua di questo mondo non basterà a lavarlo via. Sono passati anni da allora ed ancora non riesco ad abituarmi a tutto questo. Accendo la lampada sul comodino alla sinistra del letto e infine mi decido ad alzarmi.
Di fronte allo specchio logoro del piccolo bagno, unico lusso di questa camera, osservo un perfetto sconosciuto: barba incolta di una settimana e capelli lunghi arruffati. Un tempo sapevo chi ero e cosa credere. Sapevo cosa era giusto. Ora invece non so più nulla. 'Se mio padre mi vedesse in questo stato, direbbe che quello là non può essere suo figlio...' Peccato che lui sia morto da un pezzo. Avevo dieci anni quando accadde. Era stato un eroe di guerra, lo seppellirono con tutti gli onori: il canto triste di una tromba solitaria e la bandiera sulla bara. Una cerimonia commovente, forse fu per quello che a diciotto anni entrai volontario nell'esercito. Forse desideravo soltanto diventare come lui.

Mia madre dovette crescere completamente da sola me e miei fratelli. Il sussidio sociale bastò a malapena per sfamarci e prima dei vent'anni avevamo già “lasciato il nido” per dare un po' di riposo a quella santa donna. Ci aveva allevato con pane, amore e legnate, insegnandoci come cavarcela da soli ed a lottare per i nostri sogni. Maturammo più velocemente rispetto ai nostri coetanei e non fu difficile per ciascuno di noi trovare in fretta la propria strada. Mia sorella in un certo senso fu la più fortunata o semplicemente, la più determinata. Aveva cominciato a lavorare ad appena quindici anni: tutte le ore in cui non stava a scuola era impegnata in questo o quell'impiego e le notti invece le passava sui libri. Alla fine mise da parte abbastanza denaro per pagarsi il college. Ora credo che insegni matematica in non so quale università sperduta nel New Maine. Mio fratello minore che fin da piccolo rivelò una grande devozione a Dio e i suoi Santi, trovò rifugio nella Chiesa ed in questo momento sarà chissà dove coi suoi compagni missionari.

Conservo ancora una foto di quand'eravamo bambini. Uno dei pochi momenti passati tutti insieme, quando nostro padre tornava a casa per il Natale. Non ho bisogno di prenderla dal portafogli per ricordarmela, da tempo è stampata in modo indelebile nella mia mente. In quella foto mia madre aveva ancora dei bellissimi capelli neri lunghi ed ondulati, mentre reggeva in braccio il piccolo Diego di pochi mesi. Mia sorella Rosario, anche se col muso imbrattato di sugo, già si atteggiava a piccola saccente mentre io mi divertivo a tirarle la gonna facendo le smorfie allo zio mentre scattava. Non siamo mai stati ricchi, ma eravamo felici. Per una famiglia di immigrati le cose non sono mai facili e poco importa se “L'immigrato” era stato tuo nonno più di mezzo secolo fa: agli occhi di uno yankee sarai sempre uno straniero. Le cose andarono un po' meglio quando ci trasferimmo nella Nuova California. La gente là era abituata ai tratti ispanici e nessuno faceva più caso a noi di quanto ne facesse a un messicano. Del resto immagino non debba essere facile capire le piccole e grandi differenze che corrono tra un messicano ed uno spagnolo.

Dopo uno sbadiglio lunghissimo mi lavo la faccia: l'acqua gelida è quel ci vuole, poco importa che sia dello stesso colore del piscio. Metto su una vecchia giacca di pelle sintetica quasi del tutto scolorita ed esco a fare due passi. La luna sopra la mia testa è quasi piena, illumina stancamente questi vecchi palazzi sopravvissuti dai primi anni del duemila. 'Avranno almeno trecento anni...'
Soltanto i disperati come me possono trovare rifugio qua : tutto ciò che rimane di quella che un tempo era una delle città più splendide di un pianeta in rovina, la cara e vecchia Los Angeles.
La maggior parte delle persone “per bene” ha terminato l'esodo dalla Terra almeno un decennio fa per stabilirsi definitivamente nelle colonie del secondo sistema solare. Io avevo avuto la fortuna di nascere in uno dei nuovi insediamenti, la mia famiglia così come le altre dei militari, era stata tra le prime a partire. Curioso come stando a ciò che ho visto nei vecchi film, il nuovo mondo sia stato ricostruito a immagine e somiglianza di quello passato. 'Forse per quanto ci sforziamo certe abitudini non cambiano mai...'

Mi si accosta un drogato. Pelle ossa, a mala pena si regge in piedi, non avrà più di vent'anni e ne dimostra il doppio dei miei, eppure non mi fa pena, provo solo disgusto nei suoi confronti. Come se un reietto come me avesse diritto a provare qualcosa. Insiste per farsi dare dei soldi. 'Magari ne avessi!'
Scuoto la testa lentamente deciso ad ignorarlo, non arrivo a fare sei metri che caccia fuori un piccolo coltello e mi urla contro minacciandomi. 'Il suo più grosso errore.' Lascio allora che si avvicini senza sprecare fiato a rispondergli ed appena arriva alla mia portata lo stendo con un colpo tanto rapido che nemmeno riesce a vedere. Prendo il suo coltellino, anche se spuntato e lo lascio a terra piagnucolante. Non mi degno nemmeno di un ultimo sguardo: mene vado come se non fossi mai stato là. Intanto i miei pensieri corrono nuovamente a quel dannatissimo giorno.

 

***

Ricordo tutto come fosse stato ieri.
Appena una settimana prima ero stato promosso a Sottotenente: 'Ufficiale Leandro Castillo' Suonava proprio bene. Non mi ero mai sentito tanto orgoglioso di me stesso, anche mia madre mi prese tanto in giro al telefono che a momenti mi fece pure la predica:
“Ci manca solo che ora il mio figlioletto si monti la testa!” Mi salutò ridendo prima di chiudere.
Ero così felice che coi miei compagni avevamo festeggiato due sere di seguito.
Non avrei mai creduto che il mio primo incarico sarebbe stato l'inizio della fine.
Successe all'improvviso. Una normale ricognizione si trasformò nell'inferno in terra. Nessuno, nemmeno tra i superiori, si aspettava quell'attacco e di conseguenza anche il nostro equipaggiamento era ridotto al minimo.
In realtà la guerra coi Separatisti era da un pezzo in una strana situazione di stallo. Negli ultimi due anni avevano perso molto, ma disponevano ancora dell'appoggio di una buona fetta della popolazione di Marte Secondo e di alcune tra le più potenti famiglie criminali. Al momento c'era una sorta di armistizio che somigliava a quella che un tempo sulla Terra era stata chiamata “Guerra fredda”. Noi tenevamo d'occhio loro e loro spiavano noi.

Quel giorno, mi era stato dato il comando di una squadra di dieci uomini della mia sezione. Uno di loro era stato mio compagno di classe alle medie, era stata una bella sorpresa rincontrarlo in caserma, fu proprio lui a dare l'allarme.
“Merda Leo. Guarda questi segnali, non doveva esserci nessuno, che cazzo sta succedendo?!”
“Calmati Reeves, saranno soltanto di passaggio, andrà tutto bene.” Risposi osservando la mappa satellitare che improvvisamente si era riempita di puntini rossi luminosi. Il nostro campo era ben lontano da ogni percorso strategico o presunto tale ed almeno in linea teorica non sarebbe stato facile trovarci. Ci trovavamo su un satellite artificiale abbandonato il cui unico vantaggio era di offrire un buon punto d'osservazione per gli strumenti che dovevamo piazzare. Il piano era stato deciso da tempo, avevamo soltanto aspettato il momento buono in cui la sua orbita lo avrebbe condotto nelle vicinanze dell'altopiano di Armur. Zona semi-desertica non lontana dalla capitale del pianeta, che a detta dei ribelli meritava l'indipendenza. Stando ad alcune fonti, avevamo motivo di sospettare che là vi fosse una grossa base sotterranea. Dovevamo solamente raccogliere dati di tipo geologico e sparire. Se ci fosse stato anche un solo buco di un metro cubo, l'attrezzatura l'avrebbe rilevato.

Osservai quei segnali come ipnotizzato, più si avvicinavano e meno riuscivo a credere che stessero cercando proprio noi. 'Come diavolo fanno a sapere dove siamo?' Avevamo attivato il 'Ghost-system' prima dello sbarco e nessuna strumentazione comune poteva aver rilevato la nostra presenza, eppure quei maledetti sembravano puntare dritto alla nostra postazione.
Loro sembravano una cinquantina, forse di più. Noi invece undici più quattro droni. Sudavo freddo ma non potevo perdere la calma. Per prima cosa misi la nostra micro AI dentro un razzo-capsula e la inviai a chiedere soccorso al quartier generale: una grossa nave da carico orbitante sopra le nostre teste. Con un po' di fortuna i rinforzi sarebbero arrivati in poche ore.

Ci dividemmo in tre gruppi per nasconderci più facilmente e guadagnare tempo. Con un simile svantaggio, l'idea d'ingaggiare battaglia non mi sfiorò nemmeno da lontano. La mia unica speranza era di riuscire a metterne in salvo almeno qualcuno. Speranza che si dissolse in meno di un secondo: non facemmo a tempo ad allontanarci gli uni dagli altri che un lampo accecante ci piombò addosso all'improvviso. Armi a lunga gittata. Due ragazzi, forse i più fortunati di noi furono travolti e uccisi all'istante, altri rimasero feriti di cui uno gravemente. Il sangue sgorgava come un fiume da una ferita lungo il suo addome, rivelando parte delle interiora. Distolsi lo sguardo, mentre con un ultimo sforzo si puntava la pistola alla tempia. Mi sentii avvilito ed impotente, ma non potevo fare nulla per lui e probabilmente io al suo posto avrei fatto lo stesso. Con la vista annebbiata cercai di ritrovare gli altri prima che arrivasse la fanteria a finirci, ma il danno subito era irreparabile. Il panico si era già diffuso tra le file e solo Reeves era rimasto al mio fianco senza dire una parola mentre io urlavo inutilmente ai fuggitivi di raggiungermi. Un altro boato, fumo, schegge, subito dopo un altro e un altro ancora. Questa volta erano passati ai mortai. Ci bombardavano a distanza con armi di vecchia data, a quanto pareva i bastardi avevano deciso di eliminarci senza sporcarsi le mani. L'ultima cosa che ricordo prima di perdere i sensi è la mia mano stretta inutilmente sul fucile d'assalto.

  
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