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Autore: page93    10/09/2014    1 recensioni
Prendete me: esagitato per le novità, e ve ne erano in quel periodo, voglioso di svolgere ogni mio dovere nel minor tempo possibile e innamorato di me stesso. Erano gli anni del “sogno americano”, del progresso tecnologico, della ribellione giovanile e delle rivendicazioni sociali e politiche.
Quella del 19 gennaio 1961 non era una mattinata particolarmente limpida, giacché fui svegliato dal postino, il quale bussò alla porta di casa col suo discreto “toc toc” e confabulò qualcosa con mia madre, senza capire di fatto cosa avessero poi da dirsi di tanto importante. “Jason?”, puntualmente ricevetti la chiamata di mia madre dal piano di sotto, anch’essa prontamente rispedita al mittente dopo essermi girato dall’altro lato del letto, quello rivolto contro la parete.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prendete me: esagitato per le novità, e ve ne erano in quel periodo, voglioso di svolgere ogni mio dovere nel minor tempo possibile e innamorato di me stesso. Erano gli anni del “sogno americano”, del progresso tecnologico, della ribellione giovanile e delle rivendicazioni sociali e politiche.
Quella del 19 gennaio 1961 non era una mattinata particolarmente limpida, giacché fui svegliato dal postino, il quale bussò alla porta di casa col suo discreto “toc toc” e confabulò qualcosa con mia madre, senza capire di fatto cosa avessero poi da dirsi di tanto importante. “Jason?”, puntualmente ricevetti la chiamata di mia madre dal piano di sotto, anch’essa prontamente rispedita al mittente dopo essermi girato dall’altro lato del letto, quello rivolto contro la parete. Per un attimo la studiai, percorrendo con le dita le venature che separavano le strisce di carta da parati, poi passai a criticare, com’era usuale della mia personalità, il suo colore, sfondo rosso accesso con sopra decorazioni floreali che si ripetevano monotonamente striscia dopo striscia e metro dopo metro. “Jason!” – fui preso di soprassalto dall’entrata di mia madre nella mia camera – “Ti sembra mica questa l’ora di svegliarsi?”. No, in realtà non lo era, e in ogni caso non ero ancora in vena di intraprendere una discussione con la donna che mi mise alla luce diciott’anni, o quasi, or sono. Trovai le forze per girarmi nuovamente dall’altro lato del letto e vidi il viso di mia madre, contratto in un’espressione severa, quella stessa espressione che probabilmente stava rendendo di giorno in giorno più evidenti le “scanalature” sulla sua corteccia. Non tanto perché non avesse riguardo per il proprio aspetto e avesse una pelle scura e impenetrabile come quella di un muratore, piuttosto perché era solita non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni altrui e sapeva ripiegare esponendo la sua nota critica a scapito del disgraziato di turno, che fosse un parente, un conoscente o qualcuno di cui avesse sentito parlare. Ecco, forse era questa una caratteristica che mi accomunava a mia madre, l’asprezza della critica.
Cominciai a prendere conoscenza della situazione e dissi finalmente la prima parola del giorno: “Buongiorno” – nel frattempo che mi alzavo e mi sbarazzavo delle coperte gettandole addosso alla parete con un gesto noncurante – “Ben alzata, vedo”. Mia madre cambiò espressione in un baleno, mi rivolse un sorriso disteso e mi ammonì da brava figura materna: “Attento a come tratti le coperte e, appena puoi, rimetti in sesto il tuo letto”. Sapevo che non si era fiondata in quel modo nella mia camera per dirmi soltanto quello, c’era dell’altro, e non passò neanche un minuto prima che arrivò al dunque. “Senti, caro, è appena giunto un pacco destinato a te da Milwaukee. Credo che lo abbia spedito tuo padre, ma non ne sono certa; controlla appena puoi”. Non finì di pronunciare quest’ultima frase che scesi dal letto, mi fiondai per le scale in un battibaleno e mi ritrovai davanti al pacco ricevuto, per altro un pacco non di piccole dimensioni. Lo osservai per un momento, poi lo assalii, vedendo prima il foglietto incollato su un suo lato con l’indirizzo della mia abitazione, poi proseguii scartandolo. “Wow”, esultai tra me e me, non poteva non essere che un regalo di mio padre, l’uomo che non vedevo da circa tre settimane e che provvedeva al nostro sostentamento a distanza, precisamente da Milwaukee. Circa duemila miglia mi separavano da lui, una distanza siderale considerando l’estensione degli Stati Uniti, eppure lo vedevamo di rado perché impegnato costantemente nel suo lavoro, da bravo operaio della casata motociclistica Harley-Davidson. Già, perché, fin da quando era stato un pargoletto, mio padre aveva manifestato la sua passione per le motociclette; ne vide un paio per la prima volta passare lungo Sunset Boulevard, era in compagnia di mia zia Kate, la sgualdrina di famiglia benché fosse appena maggiorenne, la quale badava a lui mentre mio nonno e mia nonna lavoravano sodo in fabbrica per mantenere la famiglia. Erano proprio due Harley-Davidson vecchio stile, quelle che vide, probabilmente impiegate pochi anni prima come mezzi di trasporto da parte dei soldati americani nel primo conflitto mondiale, telaio color verde militare mimetizzante e sventolanti, com’è logico che ci si aspettasse, bandiera a stelle e strisce. Da allora il mio vecchio crebbe con la speranza di aprire un giorno una fabbrica in cui assemblare le moto, magari dei modelli di sua invenzioni marchiati Johnson, il cognome che portava fieramente con sé dalla nascita, essendo stato uno dei primi coloni americani un tale Thomas Johnson, un sedicenne giunto per la prima volta oltreoceano nel lontano e sbiadito 1774. E’ stata a quell’età che Marvin Kyle Johnson, mio padre, capì di non avere i requisiti necessari per realizzare il suo sogno, dal momento che fino a quel momento non aveva lavorato granché, racimolando qualche dollaro qua e là facendo il “paperboy”, il ragazzo dei giornali, e lavorando nell’officina del suo allora vicino, il signor Wood, che mi prendesse un colpo, quasi omonimo del chitarrista e bassista dei Rolling Stones, chiamandosi entrambi Ronald, anche se il signor Wood preferiva l’abbreviativo Ron. Raggiunta la maggior età, quindi nel 1940, decise di tentare la fortuna andando in cerca di lavoro in qualche altra città americana, eccetto non aver considerato la scarsezza di denaro in tasca, per questo il suo viaggio ebbe un brusco arresto presso Salt Lake City, la “Città del Lago Salato”, nello Utah, ai piedi delle imponenti e spaventose Montagne Rocciose. Fu lì che Marvin ebbe il piacere di conoscere la graziosa e timida Grace Alyson Adams, mia madre, un anno più piccola di lui, di famiglia benestante e morale incrollabile, forse non troppo critica e distruttrice di sogni, come lo è ora, all’epoca. Ne aveva di sogni acerbi allora, la mia vecchia, su tutti diventare una scrittrice di successo rivendicando le libertà represse delle donne, o magari, nel caso in cui avesse fallito, ripiegando sull’attività editoriale, non che fosse malaccio se non per il fatto che di finanziatori ve ne erano pochi in giro e allo stesso modo di scrittrici con le palle. Marvin non esitò un momento per far la corte ad una così piacevole e divertente ragazza, nonché di bel aspetto, portandola a ballare in qualche locale per giovani di Salt Lake City, in qualche luna park, o magari in riva al Grande Lago Salato, laddove ci si poteva immergere in un’atmosfera di pace e beatitudine, osservando l’isola Antilope dalla baia di Farmington e tutta la fauna di uccelli che migra, vive e volteggia in quei luoghi meravigliosi, dubbioso del fatto che fosse mio padre a pagare le spese di tutto, essendo allora uno squattrinato. A poco a poco Grace si sentì conquistata da Marvin, nonostante quest’ultimo provenisse da una realtà differente dalla sua, per molti la “Città dei Vizi e del Peccato”, Los Angeles, mentre Salt Lake City non era altro che una casta e morale città del centro-ovest degli Stati Uniti, protetta da alte e rocciose montagne, e popolata da gente gentile e accogliente come la mamma. No, si sbagliava. Il nonno, Jason Arthur Adams, fu precipitoso come il suo Nebraska e irruento come i tornadi che di lì transitavano di tanto in tanto, tant’è che al loro primo incontro ufficiale, si trattava di un pranzo a casa dei miei nonni materni, Marvin fu preso a ceffoni in faccia dal buon vecchio Jason per aver dato sfoggio della sua disinvolta e adorante “simpatia” per gli uomini, ma soprattutto per le donne, di pianura. Era il peggior periodo da quando il papà e la mamma si erano conosciuti, uscivano insieme da poco più di mezzo anno. Grace era in procinto di scegliere un college di alto spessore in cui proseguire gli studi, Marvin si arrangiava chiedendo alla gente se avesse bisogno di un assistente per qualche lavoro manuale, poiché lui ne aveva di pazienza e di forza da vendere, e di tanto in tanto la fortuna era dalla sua, guarda caso perché Grace stava diffondendo la voce che il suo fidanzato fosse un genio della meccanica, in particolar modo per quanto riguardava le moto. Genio, sì, finché la polizia non lo beccò un giorno, in flagranza di reato, manomettere un’automobile nel bel mezzo della strada, a due isolati dalla casa in cui abitava mia madre, cosicché il giorno successivo l’avesse riaggiustata lui stesso, con quelle mani sapienti e capaci di destreggiarsi tra gli ingranaggi. Grace, in preda alla disperazione per l’arresto di Marvin, pianse fior di lacrime per supplicare l’irremovibile Jason a pagare la cauzione, cosa che straordinariamente avvenne a distanza di pochi giorni dall’arresto. “Ben gli sta!” aveva affermato il nonno in tono feroce, peccato che vedere la sua piccola creatura versar lacrime in ogni dove rappresentasse una debolezza per lui, perciò prese la contraddittoria decisione di pagare la cauzione a quel disgraziato di Marvin. “Duecento dollari…”, così esordì alla nuova vista di Marvin, ora di nuovo in libertà, per poi soffocare caterve di offese e bestemmie ai danni di quel povero disgraziato, che Dio solo sa chi ce lo avesse mandato in quello scampolo d’America a portargli via il cuore della sua figlioccia e a combinar danni a scapito di chi se la passava meglio di lui. “Che vada al diavolo – tuonò Jason, dopo essere tornato di nuovo in sé – “Non farti più vedere nei pressi di casa mia e in questa città, e scordati di vedere mia figlia da adesso in poi”. Marvin, nemmeno a farlo a posta, lo prese di parola, ma senza che lo volesse veramente, perché a distanza di due giorni dalla sua uscita di prigione, era ormai il 1941, fu richiamato alla leva militare per andare a servire la patria a stelle e strisce in quella che stava tramutandosi nella Seconda Guerra Mondiale. Marvin il “Brigante”, denominato così nel corso dell’arruolamento per il suo recente arresto da parte dei futuri commilitoni, si rivelò essere Marvin l’”Ingenuo”, ma se ne rese conto troppo tardi, quando gli venne dato in prestito il suo M1 Garand, uno dei vari modelli di fucile utilizzati dall’Armata statunitense, e un certo numero di “ananas” Mk2, le granate che spettavano ad ogni soldato. La spedizione militare alla quale partecipò il mio vecchio ebbe il via da San Diego, California, e portò i quattromila uomini e passa che sarebbero poi salpati sulla Task Force 19 in Carolina del Sud, dall’altra parte del continente americano, sulla costa orientale, per poi emigrare alla volta dell’isola canadese di Terranova, dove la corazzata americana attese il permesso per volgere in direzione dell’Islanda, il principale punto di arrivo di quella spedizione difensiva. I soldati americani impiegati in quella lontana zona compresa tra la Groenlandia e la Gran Bretannia se la passarono certamente meglio rispetto ai loro compagni d’armi sparsi nel resto d’Europa e del mondo, e persino il soldato Johnson non trovò poi tanto inospitale il clima di Reykjavik, la fredda e sassosa capitale dell’Islanda, anche se durante la notte, durante il turno di guarda presso il porto cittadino, gli si rizzavano i peli su tutto il corpo, lui che non era di certo abituato ad un clima così insolito durante la stagione estiva. Resistette però, eccome se lo fece, e non si lasciò di certo influenzare dal rigoroso codice etico al quale dovevano attenersi i soldati americani e britannici. I maschi erano numericamente il doppio rispetto alle donne presenti sull’isola islandese, tuttavia furono poche le occasioni che si presentarono a Marvin di combinare qualche sveltina con qualche bella donna nordica, occasioni bruciate. Era ancora innamorato: fisicamente si trovava in Islanda, aveva una missione da compiere per qualcun altro, mentalmente era rimasto fuori dalla fastosa abitazione di Grace, proprio lì dove l’ultima volta fu umiliato da suo padre Jason, il quale gli proibì di tornare davanti casa sua ad infastidire sua figlia, quella creatura che non stava aspettando il ritorno di Marvin, a sua insaputa in guerra a dieci ore di volo di distanza. Alcol e divertimento non mancavano a Reykjavik, neanche l’allegria di un tempo, quella da bar, e di tanto in tanto compariva una chitarra con cui allietare i falò notturni, quelli accesi appena dopo il campo di turno.
Gli anni corsero, si fece il 1944, anno in cui rientrarono i primi contingenti americani, tra cui quello al quale apparteneva Marvin, il quale, nemmeno a dirlo, dopo la cerimonia di premiazione dei soldati americani in missione in Islanda, prese il primo volo da San Diego per Salt Lake City per rivedere finalmente Grace. Al suo arrivo, ahimé, le cose erano di poco cambiate: a Grace mancava un anno per laurearsi in Lettere ed aveva trovato una compagnia con cui consolarsi, un omaccione alto un metro e novanta, non particolarmente muscoloso, sicuramente intraprendente e fiero del proprio percorso di studi, dal momento che era prossimo alla laurea in Economia. Non ci fu storia: Marvin percorse tutt’impettito il vialetto nel giardino di casa Adams, addobbato con una medaglia più grande di un sol occhio del signor Johnson in preda ad un tremendo attacco d’ira, busso elegantemente alla porta e sorrise a prescindere da chi fosse ad aprirgli la porta. Fortunatamente si ritrovò davanti Grace, sullo sfondo immagino che ci fosse nonno Jason ad imprecare il cielo, anche se nettamente stupito dal suo aspetto di uomo di mondo.
E fu così che il loro amore sbocciò, e tante altre belle cose, finché arrivò l’ora di riporre la divisa da militare nel cassetto e tornare alle vecchie abitudini, se non la passione e la contemplazione delle moto, quando al reduce Martin Kyle Johnson fu offerta l’opportunità di lavorare per l’Harley-Davidson, presso Milwaukee, dove in ogni sperduto bar girava di sicuro un Arthur Erbert “Fozie” Fonzarelli della situazione, magari a prendere a calci un juke box poco desideroso di riprodurre musica.
Tornai con i piedi per terra ed esclamai mentalmente un nuovo ed esultante “wow”, quando ancora non avevo dato un’occhiata a quale regalo mi aspettasse da parte del mio vecchio. Finii di togliere le ultime cartacce, l’imballo che proteggeva qualcosa al di sotto e potei constatare che si trattava di un giubbotto in pelle, almeno due taglie più grande della mia, con la scritta “Harley-Davidson” cucita all’altezza delle scapole, e al di sotto trovai ancora un modellino di Harley-Davidson, non poteva essere altrimenti, probabilmente assemblato proprio da mio padre, amante delle moto a grandezza naturale e delle loro versioni ridotte. Me lo stavo immaginando, il robusto e mezzo calvo Marvin, all’opera nell’assemblaggio del telaio di qualche ultimo modello HD, oppure intento ad installarvi le sospensioni o la trasmissione, magari non conforme al telaio montato, per di più intestardito e infastidito da così tanta impudenza da parte di una moto. No, forse stavo esagerando, mio padre non avrebbe mai detestato, malmenato e insultato una moto; nemmeno mia madre ebbe un così tanto riguardo se non fino a quando avevo circa tre o quattro anni, poi tornò ad essere nuovamente accecato dalla sua passione di una vita.
La mamma scese al piano di sotto, davanti la porta di entrata, dov’ero io, e si fermò a quattro gradini dalla moquette. “Non mi ero sbagliata, è un regalo di tuo padre” – disse con tono dispiaciuto, probabilmente perché aspettava che mandasse anche a lei un omaggio da Milwaukee, che fosse anche uno stupidissimo modellino di HD. Cambiai repentinamente discorso e mi atteggiai da bravo figlioccio, vi era un secondo fine: “Posso fare qualcosa per te? Oggi ho l’intera giornata libera – mentivo – e vorrei rendermi utile alla causa domestica”, come se ne avessi un profondo interesse. La graziosa e divertente Grace, ancora lo era nonostante i suoi capelli cominciassero a presentare qualche sfumatura di grigio e la sua pelle a raggrinzirsi lievemente intorno agli occhi, piegò di lato la testa e assunse un’espressione stupita: “Da quando in qua sei l’uomo di casa?”. Scese i restanti gradini, tolse la mano dalla levigatura finale del corrimano e appoggiò entrambi le mani sulle mie clavicole. “Jason, mi stai nascondendo qualcosa, non è vero? – cazzo, a volte sembrava che le nostre menti fossero sincronizzate – “Non dirmi che devi uscire nuovamente con Jake e Daniel, non mi piacciono quei due mascalzoni. Hanno dei genitori…”. La interruppi, sfuggii alla sua presa torcendo le spalle e dissi con la scioltezza e l’inganno del momento: “Madre, sai già che ti ho dato la mia parola che non rivedrò quei due, ehm, ragazzi poco di buono. Parola d’onore”. Sì, parola d’onore, corrispondente ad un disonorevole “tranquillo, amico, ogni tre parole ve ne saranno certamente due pronunciate con tono sincero e sottomesso ed una che rappresenterà la realtà”. Se la bevve, a fatica, ma se la bevve. Il nostro dialogo si concluse lì, fortunatamente la donna di casa Grace aveva delle faccende da sbrigare al di fuori delle mura domestiche, nemmeno rifletté se le servisse o meno il mio aiuto, tanto meglio. Sgattaiolai via prima che avesse un ripensamento, bevvi velocemente un succo d’arancia, sbirciai l’ora, nientemeno che le 10 e 24, tornai come un razzo nella mia stanza e mi cambia, per poi andare dai miei amici. Sentii sbattere la porta di casa, mia madre era appena uscita, tirai fuori le mie Winston dalla tasca dei pantaloni, sicuro che anche stavolta l’avrei passata liscia e me ne misi una in bocca. Poi controllai che la mia vecchia stesse percorrendo il vialetto nel mio giardino, era così, ed ebbi l’inaspettato e curioso pensiero se anche lei in gioventù, magari dopo aver conosciuto quello squattrinato di mio padre, fumasse una sigaretta di tanto in tanto o avesse ceduto a tale vizio per tanti motivi, uno dei quali conquistare il vizioso Marvin, il cui sguardo incespicava sempre nei particolari, come una sigaretta. Mi tolsi dalla mente questo pensiero, infilai la mia nuova giacca in pelle sopra un’anonima maglietta bianca, una spazzolata ai capelli, e mi gettai per le via del mio quartiere di Los Angeles, inspirando ed espirando, anche espiando qualche piccolo e insignificante senso di colpa, i fumi del tabacco, e non perdendomi ogni particolare, come faceva il mio vecchio, della mattinata appena cominciata.
Aiuole floreali, marciapiedi puliti, cani a passeggio coi propri padroni, padri di famiglia che innaffiavano prati e siepi, mamme che richiamavano i propri figli all’attenzione, e ancora ragazzi e ragazze a passeggio, fidanzati abbracciati, per mano, seduti sulle panchine, per poi incrociare lo sguardo con qualche strano hipster di periferia, poveri perditempo. Anch’io lo ero, ma non pensavo che lo sarei stato per l’eternità, prima o poi mi sarebbe passata la voglia. Ad un ragazzino quasi sulla decina sfuggì il suo skateboard nuovo di zecca, un lusso in quegli anni; glielo presi prima che scendesse dal marciapiede e che tagliasse la strada, abbastanza trafficata, a qualche automobile. Neanche un grazie, e continuai per le mie.
I ragazzi, tali Jake e Daniel, l’accoppiata Jack Daniels, così li chiamavano per deriderli, mi stavano aspettando a pochi passi dal distretto più bohémien e anticonformista di LA, Venice, laddove avremmo sicuramente trascorso tutta la mattinata rimuginando pensieri su sé stessi, e forse bevuto anche una birra ghiacciata in quale locale lì nei dintorni. Avevano anche una novità per me, corrispondentemente al fatto che nei giorni precedenti non si erano fatti mai vedere né sentire, quei finti sbruffoni, sempre alla ricerca di quel qualcosa che li rendessi più esaltati e fomentati di quanto non lo fossero già. Li individuai, erano all’entrata di un baretto, situato al di sotto della strada, probabilmente in un putrido e desolato scantinato, frequentato da pochi clienti abituali, per lo più marinari, muratori, puttane e papponi, vecchi ubriaconi e noi, i più innocenti e anche i più giovani.
Jake, che stava poggiato di schiena al muro adiacente all’inospitale cancello del baretto, si accorse del mio arrivo ed alzò una mano in segno di saluto. Era un ragazzo biondastro, lentigginoso, placido e pacato, divertito da tutto e da tutti, interessato al più e al meno, se non a tenersi al passo con le mode e con l’”americanità”. Daniel invece, che era di spalle e stava contando quanti spiccioli avesse in tasca, a prima vista sembrava un messicano emigrato clandestinamente attraverso la frontiera, anche lui un poco lentigginoso, serio ad inizio serata, chiassoso mentre ci dava dentro con tutto; con loro c’era un altro tizio, il ragazzo più obeso e dai tratti scimmieschi che avessi mai visto. Anche Daniel si girò nella direzione da cui provenivo e mi rivolse un disteso ed astuto sorriso, come se mi avesse appena cavato una nocciolina dall’orecchio, mentre i suoi occhi diventavano sempre più a fessura.
“Amico, sei in ritardo, e sai cosa vuol dire…” disse Daniel con un accenno di sorriso sulle labbra e un cumulo di centesimi raccolti nel palmo della mano. “Come se volessi farmi credere che avresti offerto te, oggi” replicai e gli diedi una pacca sulla spalla, per poi spostare lo sguardo su Jake, mentre tiravo fuori un’altra sigaretta, e di seguito su quell’altro ragazzo sconosciuto.
“Jason Johnson, fratello, non mi saluti?” esordì Jake, e gli mimai un pugno diretto sul suo viso, per poi deviare la traiettoria verso le sue parti bassi. Un tonfo, anche se non lo feci per fargli male e vederlo rotolare a terra, si contorse, grugnì come un maiale, poi si riprese e tornò in posizione eretta sorridendo e dicendomi con cautela: “E’ perché siamo spariti in questi giorni?”. Annuii, poi abbracciai Jake e Daniel, l’uno da una parte e l’uno dall’altra, e chiesi loro senza il minimo riguardo: “Chi è questo? Perché lo avete portato?”. Ci fu un attimo di attesa prima che Daniel mi informasse che la novità che avevano per me non era nient’altro che quel ragazzo coi capelli spettinati, vestiti larghi e della mostarda sugli incisivi. Il ragazzo, un poco imbarazzato, rimase con lo sguardo fisso sul marciapiede e mi risentii per la considerazioni che gli avevo appena data, nonostante lo continuai a fissare ripugnante e sdegnoso. Voltai loro le spalle e cominciai a scendere le scale del baretto, con la mente rivolta al mio modo di atteggiarmi che, come ripeteva spesso la mamma, stava peggiorando anno dopo anno anche per colpa delle compagnie che avevo intorno e delle presunte amicizie che racimolavo in ogni buio angolo di Los Angeles, specialmente quand’era sera e non vi era più alcun motivo per detestarsi, umiliarsi o anche ignorarsi, quando diversi giri di birra e di whisky bastavano per far di quell’uomo un amico, o di quella donna una musa, o del barista al bancone un padre.
   
 
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