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Autore: fiorinatinelcemento    12/09/2014    1 recensioni
Riley Coleman è una ragazza inglese ritrovatasi in Australia all'inizio del 2013 a causa del lavoro del padre, psicologo in una clinica di recupero per persone drogate o alcolizzate. Qui, il padre intreccerà una relazione con una donna in cura, Jenna, che nella loro vita porterà il figlio adolescente, Ashton. Quando Jenna andrà via lasciando un vuoto nella vita del figlio e del compagno, Riley si ritroverà a mettere da parte il cinismo che la caratterizza e a provare ad essere da sostegno per i membri della sua inusuale famiglia. Ignara di come una cosa del genere, per la prima volta, scuota Ashton dalla sua perenne chiusura emotiva, si ritrova in qualcosa più grande di lei, mentre nella sua vita entrerà silenziosamente un'altro ragazzo, Luke.
Lei si ritroverà in mezzo ai due, ma questa storia non è una favola a lieto fine. Qui si racconta di diversi modi di amare, di sentimenti provati per la prima volta, di come si impari a lasciare andare, delle volte. E' così che si racconta la vita, è così che va, a volte.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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Prologo.


Salve a tutti, se così si può iniziare il racconto di quella che potrei giudicare la storia d’amore più strana di cui abbia mai sentito parlare. Mi chiamo Riley Coleman e vengo dalla cara, vecchia e tempestosa Inghilterra, sapete quella terra in cui piove sempre? Ecco, quella, il mio habitat naturale. A questo punto ci si può ovviamente chiedere quale sfortuna mi abbia portata nell’assolata Australia, no? Ebbene, la risposta sta nella classica storia del lavoro dei genitori. Madre morta, padre iperprotettivo che ti dice di no quando esprimi in tutti i modi il desiderio di rimanere lì dove sei nata, di non lasciare che le tue origini si mescolino con quelle di tizi super abbronzati il cui principale pensiero è una tavola da surf. E invece no, dovevo anche farmi piacere la bella villetta che papà aveva comprato, una di quelle vicine alla spiaggia, un paradosso visto che io non so nuotare. Avevo già il mio piano perfetto di vita, la mia musica, la scuola e qualche malaugurato che chiamavo “amico”, tutto questo mi bastava, mi sarebbe bastato anche vivere da una nonna sempre intenta a riempire le forme già ben nutrite da me. Ebbene sì, Riley Coleman diciottenne amante del cibo è una leggenda metropolitana vera, non tutte abbiamo bisogno di una 38 nella vita. Ma tornando all’Australia, potete immaginare la scena. Un caldo e rosso tramonto in contrasto col freddo boia che ero costretta a sopportare a Manchester, sole, mare, collane di fiori. E poi i miei jeans strappati alle ginocchia, le Converse che mi fasciavano i piedi fedelmente, una canottiera verde, del mio colore preferito. Ah, dimenticavo la ciliegina sulla torta, ovvero la felpa. Sì, lo so, potrei sembrarvi pazza, ma è stato il mio unico modo di ribellarmi al sistema, almeno finchè non avrei potuto ricollegare la mia chitarra all’amplificatore e suonare il mio odio per il mondo. Era il mio piccolo gesto da outsider, d’altronde lo dicono tutti che noi dai capelli rossi abbiamo un caratterino niente male, mio padre non ha mai contestato solo perché gli ricordo molto mia madre, il suo amore per la vita e bla bla bla.

Ovviamente uno psicologo professionista non poteva non farsi prendere dal complesso del Buon Samaritano, specie se lavorando in una clinica di recupero per gente affetta da dipendenze di ogni tipo, tra cui droghe, alcol, medicine.. Chissà se l’ispettore capo si è mai accorto che la reincarnazione del suo unico vero amore a volte fumava erba. Eh beh, c’è chi crede ai misteri religiosi, poi c’è la mia famiglia che per misteri batte tutti.
Come al solito divago, ma pazienza, apprezzatemi come sono. Dopo due mesi lì, il Buon Samaritano aveva accolto a casa nostra una donna reduce da alcolismo patologico, praticamente beveva fino a dimenticare chi fosse, fino a dimenticarsi addirittura del figlio Ashton, nato da un concepimento poco coscenzioso in auto  durante il ballo del liceo. E Dio, clichè su clichè stile 16 and Pregnant che non starò qui ad elencare. Sì, so cosa state pensando. Diamine, Riley Coleman, sei proprio un’insensibile. E qui vi sbagliate di grosso, almeno in parte. Se dopo il trasferimento l’unico oggetto degno di affetto era la mia chitarra, dopo l’arrivo dei compiti a casa di papà avevo trovato qualcun altro a cui offrire dell’affetto velato, una sorta di “siamo sulla stessa barca, tanto vale andare d’accordo”. Ebbene, Ashton non aveva bisogno di parole per conquistarmi. L’abbigliamento non diceva “ciao, sono un figo australiano”, i capelli scompigliati stavano indietro solo grazie ad una bandana, le maglie avevano le maniche tagliate, così che fossero senza. Aveva dei lineamenti così dolci che se sorrideva poteva farti intendere di avere le migliori intenzioni, ma appena parlava ti smontava l’idillio. Se stava con sua madre, era solo perché non aveva altri parenti. In compenso era grato a mio padre e tollerava me,  almeno questo faceva vedere. Il punto non era quello, per nulla. Il punto era la catastrofe che avevamo dovuto vivere solo due mesi dopo il loro arrivo. La madre di Ashton se n’era andata senza dare spiegazioni, da allora lui non faceva altro che starsene in camera a fare nonsochè, e spero non si trattasse di seghe su dei video porno. Mio padre, innamorato com’era di Jenna, cercava di mascherare il dolore gettandosi sul lavoro. A me non restava che occuparmi della casa, cucinare quando non ero a scuola, fare i compiti. Cenare era come stare in una casa popolata da fantasmi, per cui mi toccava semplicemente lasciare un vassoio colmo di cibo davanti alla stanza di Ash, un altro davanti allo studio di papà. Visto il loro dolore, che io non riuscivo a capire visto il mio poco affetto verso quella sottospecie di donna, cercavo di essere vicina a loro ma discreta. Quando finivo le faccende che la donna delle pulizie non sbrigava, mi rinchiudevo anche io in camera e mi limitavo a pizzicare le corde, come per cercare di portare via con la musica qualcosa che a loro faceva male. Era tutto un equilibrio precario, ma era il massimo a cui, per adesso, potevamo aspirare. La sera, prima di andare a dormire, lasciavo dei biglietti per entrambi sotto la porta, ma quei biglietti della buonanotte non avevano mai risposta. Così, delle volte, me ne andavo in spiaggia a lasciare le mie angosce al mare, tradendo le mie origini inglesi con quel poco di essere australiano che stava nascendo in me. Il giorno dopo, facendo come se nulla fosse, andavo a scuola e incontravo quei pochi, nuovi amici che si erano rivelati comprensive guide per la nuova arrivata. Il tizio più strambo, fra i due, era Michael Clifford. Tutti lo prendevamo in giro per via dei suoi capelli. Sempre ben tesi per aria, ogni mese di un colore diverso, ma questo lo accomunava molto alla sua ragazza, Phoebe. Tingevano i capelli sempre di colori abbinati, acquisendo un aspetto di coppia adorabile. Calum Hood, invece, era più il tipo da flirt spudorati anche con la sottoscritta, ma il nostro accordo prevedeva che non saremmo mai andati oltre quello. Non volevo io, come non lo voleva nemmeno lui. Ci eravamo quasi trovati a completarci, visti i caratteri completamente contrastanti, quindi sapevamo che nessuno dei due voleva perdere l’altro e che avere una relazioni ci avrebbe portati esattamente a quello.
Nella routine della normalissima Riley Coleman, però, non mancano le disgrazie decennali e che fanno prendere degli spaventi assurdi. Dieci anni prima avevo rischiato di annegare in un lago ghiacciato, a distanza di tempo e chilometri dalla Gran Bretagna, un disastro nato non può di certo migliorare. Io ne ero e sono la dimostrazione.
Con tutto ciò, benvenuti nei miei Giorni Immobili, miei cari.

   
 
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