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Autore: LadyTargaryen    12/09/2014    4 recensioni
Grantaire ha deciso: si unirà agli altri sulla barricata. Assieme andranno incontro alla rovina, o alla vittoria. Combatterà con loro e darà prova del suo valore. Ed Enjolras sarà fiero di lui. Ma la notte cala, portando con sé gelo e paura. Paura di morire, di sbagliare, di deludere. Un solo, piccolo gesto di Enjolras saprà dissiparla. E donare a Grantaire il coraggio che cerca.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Enjolras, Grantaire, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Your coat, my heart

 

 

 

 

 

 

 

 

Soffiava un vento gelido e infido, tagliente e affilato come una lama di ghiaccio. La bandiera rossa, insegna di quella guerra al potere e ai soprusi sul popolo, ondeggiava schioccando. Grantaire rabbrividì, e si strinse di più negli abiti impregnati di umidità e macchiati di vino che indossava.

 

Su Parigi e sulla barricata di rue Chanvrerie calava la notte, le tenebre avanzavano, a piccoli passi, senza fretta ma inesorabili. I lumi stradali di quella piccola via sconosciuta ai più erano inservibili da tempo ed Enjolras aveva dato ordine di spegnere il piccolo fuoco che avevano acceso al sopraggiungere del buio; era fin troppo visibile ed i soldati non avrebbero esitato a fare fuoco sul mucchio pur di fare il maggior numero di morti col meno spreco di piombo possibile. Ora solo tre torce ricavate da gambe di tavolo e stracci imbevuti di alcool illuminavano quanto bastava la barricata e la strada innanzi ed essa.

 

Grantaire, più incastrato che accoccolato tra una botte e un vecchio tavolo sulla sommità di essa, avvicinò le mani alla fiamma tremolante nel tentativo di scaldarsi. Camicia, panciotto e pantaloni puzzavano sgradevolmente di acido e, umidicci com'erano, non lo tenevano affatto al caldo. Nelle sue scarpe usurate, nelle calze tutte buchi, i suoi piedi intirizziti gli parevano di marmo.

 

Batteva i denti. Ma non solo per il freddo.

 

Alzò gli occhi e fissò il buio che si apriva davanti a sé.

 

Grantaire si era sempre dichiarato un “un habitué delle tenebre, un fedele avventore del buio”: bordelli, osterie, sale da ballo e bische erano sempre state il suo ambiente naturale, l'humus in cui lui, pianta senza radici, si insediava finché non veniva mattina; al che si trascinava, canticchiando stonato motivetti lascivi, verso il caffè degli Amici dell'ABC, sulla cui soglia puntualmente crollava, gonfio di vino, iniziando di lì a poco a russare come un orso in letargo.

 

Il buio non gli aveva mai fatto paura. Non era che un ovvio prolungamento del giorno. C'era vita, nel buio.

 

No, non era il buio, ad atterrirlo. Ma il silenzio.

 

Sembrava che sull'intera rue Chanvrerie fosse calata una mano nera a soffocare ogni rumore. Non si udivano più lo scalpiccio dei topi, né i miagolii dei gatti in caccia, neppure il gutturale verso dei gufi. Nessuno parlava; ognuno scrutava la tenebre.

 

Nulla. Solo il silenzio. Un silenzio innaturale. Un silenzio gravido di attese.

 

Il respiro profondo del predatore prima del balzo.

 

Quello del condannato che attende l'alba.

 

Sospirò. Aveva paura? Certo che ne aveva.

 

Paura di ciò che sarebbe arrivato. Paura che quello potesse essere il suo ultimo giorno, che quell'esile barricata fosse abbattuta, spazzata via come una foglia ingiallita dall'autunno.

 

Che dopo quella vita non ci fosse nulla. Temeva il vuoto nero della morte ancora più di quel silenzio. Temeva che al momento decisivo la mano gli tremasse, era sempre stato un tiratore scadente. Temeva di fallire e di dimostrarsi debole ed inetto. Temeva di deluderli tutti.

 

Soprattutto, di deludere Enjolras.

 

Ma si sarebbe ucciso piuttosto che darlo a vedere.

 

Preferiva la morte, anche la più dolorosa, all'idea deluderlo. Di parere di nuovo vile, codardo, inutile ai suoi occhi.

 

Per tutta la mattinata, da quando si era svegliato dallo stato catatonico in cui la tremenda mistura di vino, stout e assenzio lo avevano fatto scivolare ed aveva deciso di unirsi gli altri, gli era stato a fianco senza abbandonarlo un solo istante.

 

Enjolras aveva ispezionato la barricata, constatandone dimensioni e punti deboli, assegnato le postazioni, distribuito polvere e cartucce, diviso i pochi viveri tra gli insorti, sempre spalla a spalla con Courfeyrac e Combeferre. E Grantaire era sempre stato con loro, incapace di separarsi da Enjolras, infaticabile, sempre pronto ad obbedire ai suoi ordini buttandosi a capofitto nei compiti che gli venivano affidati. Enjolras si muoveva da un capo all'altro del vicolo e lui lo seguiva, allo stesso modo del girasole che volge il capo verso Apollo sul suo carro dorato in corsa nel cielo. Il suo posto era sempre stato quello. Gli era stato lontano troppo a lungo.

 

Quando c'era qualcosa da fare, Grantaire si offriva. Quando serviva un volontario per una qualche impresa o sortita, si poteva star certi che si sarebbe visto Grantaire levare alta la mano e gridare: “Lo farò io!”

 

Ed Enjolras lo fissava, stupito ma compiaciuto, con un lieve sorriso che gli incurvava appena le labbra.

 

Grantaire non ricordava di essersi mai sentito più felice, più vivo. Mai il suo cuore aveva mai battuto così, mai una simile gioia lo aveva colmato. Enjolras era da sempre la sua vetta da scalare, il suo obiettivo da raggiungere; cima sempre troppo alta, sempre un passo avanti. Sempre troppo lontano.

 

Ora aveva colmato quella distanza, quel vuoto.

 

Achille aveva finalmente raggiunto la tartaruga.

 

Aveva speso tutta la mattina correndo da una parte all'altra della barricata, saltando lungo la via come un grillo indiavolato, tra scherzi e lazzi, spronando, rassicurando, ridendo e facendo ridere. Neppure la rivoluzione sembrava in grado di privarlo della sua contagiosa energia; nulla avrebbe mai messo a tacere la sua risata. La morte aleggiava su di loro, impegnata a giocarsi ai dadi con la vita i loro destini, pronta a stendere la mano e colpire, ma Grantaire non perdeva il sorriso.

 

“Avanti cittadini! Animo! Cosa sono mai quelle facce lunghe? Di che avete paura? Di quelle mezze tacche dei municipali? Ah! Non saprebbero trovarsi le natiche con le mani! E vogliamo parlare dei nazionali? Non avrebbero una mira decente neanche se Guglielmo Tell tornasse dalla tomba per far loro scuola! Avanti, uomini! Cosa temete? La morte? E' solo un tuffo: si chiudono gli occhi, ci si butta e non ci si pensa più. Tu, cosa fai? Ti pare che quella cartuccia sia piena? Gran Dio! Madre Natura ti ha fatto cieco, oltre che brutto come un gargoyle? E tu, camerata, cosa fai? Bevi? Niente alcool sulla barricata. E' posto per l'ebbrezza, non per l'ubriachezza. Guardate me! Fresco come una rosa in boccio e sobrio come un bimbo. Cos'è? Acquavite? Dai qua, compare, lascia che ti levi la tentazione dalle mani, e ringraziami, lo faccio per te.”

 

Aveva visto un uomo, un giovane operaio lattoniere, tremare nella propria camicia ridotta a brandelli, e si era tolto la propria giacca andandogli a coprire le magre spalle seminude: “Compagno, un abbigliamento del genere non ti si confà. Sei un eroe della patria, acconciati come si conviene. La Storia è in marcia e ci guarda. Vestiti ammodo!”

 

In altri frangenti le battute di spirito della lunga lingua di Grantaire gli sarebbero valse insulti nel migliore dei casi o bastonate, nel peggiore. Ora invece riuscivano a strappare un sorriso a tutti, anche ai più timorosi, persino ai più tesi. Sembrava la versione adulta di Gavroche; e infatti il monello, appollaiato sulla barricata con la maestà di un sovrano sul trono, lo guardava tentennando il capo e dicendo: “Ecco un uomo cui non mi dispiacerebbe assomigliare, da grande!” Grantaire se l'era preso sulle spalle, ridendo: “Piccolo, saremo l'incubo di ogni oste della capitale! Ma nell'attesa...Viva la repubblica, dannazione!” “Sì! Viva la repubblica! E abbasso il borghese grasso e bavoso!” Tutti i presenti avevano fatto loro un applauso degno di una prima teatrale.

 

Enjolras, dall'alto della sua postazione, splendido come un dio sulla barricata, talvolta si voltava a guardare. E sorrideva.

 

Ai suoi amici non pareva vero che Grantaire, famoso per la sua inattività catalettica da post-sbornia, fosse così pieno di energie, e ci scherzavano su, commentando la novità come se, anziché durante una rivoluzione, si trovassero al Musain, davanti ad un caffè e con la gazzetta spiegata sul tavolo, a leggere assieme le ultime notizie.

 

“Chi l'avrebbe mai detto che un giorno avremmo visto Grantaire così ipercinetico?” aveva detto Courfeyrac, impegnato nella pulitura della canna del proprio fucile. “Io no di certo.” aveva ribattuto Laigle, che lucidava la propria carabina “E neppure sulla sua sobrietà avrei mai scommesso un soldo bucato. Invece avrei dovuto, a quanto pare. Avrei vinto un bel gruzzolo. Ma Madama Disdetta evidentemente non era della stessa opinione.” Feully, che leggeva il “De Monarchia”, aveva fatto schioccare la lingua, in segno d'assenso: “Concordo con te, Laigle. Dovendo puntare i miei soldi avrei puntato più sul fatto che gli austriaci liberassero quel suolo in cui tuttora raccolgono senza aver mai seminato piuttosto che su Grantaire sobrio. E ciò dice tutto.” “Madames et monsieurs, signore e signori, damen und herren! Questa sera, al Teatro de l'Opéra, torna in scena un robusto dramma romantico in tre atti, 'Feully, o l'Italia'. Accorrete numerosi!” aveva riso quel diavolo di Courfeyrac, con tono da banditore.

 

“Dimentichi la Grecia. E la Polonia.”

“Feully, amico mio, quando le avrai scritte sarò più che lieto di annunciarne i titoli.”

 

“Si può scommettere su quanto durerà, questa miracolosa sobrietà.” propose Combeferre “Io dico meno di un'ora.” “Un'ora! Ah! Mezza, forse, e sarà più prodigioso della resurrezione di Lazzaro.” aveva gridato Bahorel. Quindi, dato che amava scommettere forte: “Cinque luigi! Cinque luigi che tra mezz'ora il nostro R maiuscola tornerà a far coppia con una bottiglia di liquore.” E poi, all'indirizzo di Grantaire: “Che ne dici, amico? Scommetto bene? Sono certo che le bettole parigine già si disperano, alla tua latitanza. Odo i gemiti di dolore sin da qua.”

 

Grantaire rideva in risposta, raddoppiando la proprie battute e i propri scherzi.

 

Joly, invece, discorreva con Jehan Prouvaire facendo mille progetti.

 

“Ho deciso: quando tutto questo grosso pasticcio sarà finito andrò da Musichetta e le chiederò di sposarmi.”

“La tua bella ha dunque alzato bandiera bianca? Ero convinto che ti tenesse caparbiamente ancora il broncio.”

“La alzerà quando le farò la proposta. Fidati, dichiarerà la resa in men che non si dica. Le donne amano le proposte di matrimonio.”

 

“E così vuoi mettere il collo nel sacro cappio?” si era informato Courfeyrac, ghignando “Ora si spiega quel vago olezzo di fiori d'arancio che ti porti appresso da un po' di tempo a questa parte.”

Joly, sempre più infervorato, continuava: “Daremo una grande festa, almeno una dozzina di portate. E Musichetta avrà un magnifico abito bianco, con un lungo strascico, un bouquet di gigli e...”

“Abito bianco?” si era intromesso Combeferre “Ma caro mio, non si può. La fanciulla in questione dovrebbe essere vergine. E se ti conosco come credo di conoscerti...” “Racconterà qualche frottola al prete. Ciò che non sa, non può ferirlo.” aveva sghignazzato Bahorel. Joly era trasecolato: “Prete? Quale prete? Ci si ama forse di meno se non si è sputato latino nella bottega di un prete? Rito civile, cittadini, rito civile. E poi banchetto, danze, allegria!” “E vino! Tanto vino! Così tanto che Bacco andrà in rovina! Viva Bacco e viva Amore!” era saltato su Grantaire, che di tutto il discorso aveva udito solo la parte riguardante il banchetto di nozze. “Non vorrete certo che agli ospiti si secchi la gola, vero?” “Scommetto sin da ora” fece Prouvaire “Che a metà banchetto avrai già finito tutte le bottiglie in tavola.” “Errore, amico mio, errore. Questa bassa opinione che hai di me mi delude e francamente mi offende. Saranno già vuote a metà cerimonia.”

 

Grantaire sorrise tra sé e sé, ricordando gli scherzi e le allegre battute del mattino. Non erano trascorse che una manciata di ore eppure gli sembrava passata una vita.

 

Ora quell'allegria, quella spensieratezza erano come svanite nel nulla. Il sole era tramontato, le tenebre si erano fatte largo, zittendo, inghiottendo e cancellando. Avevano riso, tentato di allontanare la paura con le risate. Ma la morte era una nera presenza costante, incapace da scacciare. Alitava loro sul collo, serrando i loro cuori con dita di ghiaccio. Aveva detto di non temere la morte: aveva mentito. Aveva detto che la morte non era altro che un tuffo: ora che era ad un passo dal baratro, ora che i suoi piedi rasentavano il vuoto, il panico lo assaliva. Cos'avrebbe portato, il domani? Quanti di loro avrebbero rivisto il sole? Cos'avrebbe salutato l'alba? Una vittoriosa barricata? Una tomba? Lo ignorava. Avrebbe tanto desiderato il coraggio di Enjolras e degli altri. Il suo cuore era saldo, ma solo all'apparenza.

 

Prese in mano una mela e un piccolo tozzo di pane, la sua razione di cibo che Courfeyrac aveva distribuito tra gli insorti. La mela era grinzosa, il pane un po' duro. Attaccò a mangiare lentamente, centellinando ogni briciola, per far durare più a lungo quel magro pasto.

 

Era strano, per lui. Normalmente avrebbe ingoiato il pane in un paio di morsi e la mela in tre. Tanto avrebbe presto avuto altro con cui riempirsi lo stomaco. Ora invece mangiava adagio, come una formica che, chicco dopo chicco, stivi un intero sacco di riso nel formicaio. Solo fino al giorno prima si sarebbe lagnato a gran voce della qualità del cibo, strepitando indignato di essere avvezzo a molto meglio. Ora mangiava, in silenzio, ringraziando per quel poco che anche se poco era pur sempre qualcosa.

 

Aveva visto i visi pallidi e smunti dei suoi compagni di insurrezione, magri e affamati proletari, armati solo del loro disperato coraggio e rivestiti di nient'altro che della loro povertà; aveva scoperto la povertà e l'aveva guardata negli occhi; aveva toccato con mano la piaga messa a nudo. Aveva visto.

 

E provava vergogna. Per il disinteresse che aveva sempre avuto per qualunque cosa non fosse la bella vita della capitale. Del suo cinismo, del suo scetticismo. Uomini, donne e bambini agonizzavano a pochi metri da lui, la miseria gli strisciava accanto, serpeggiando, ma lui non se ne era mai accorto.

 

Per troppo tempo era stato cieco e sordo nei loro confronti.

 

Per troppo tempo aveva preferito guardare altrove, chiudersi le orecchie per non sentire.

 

Quanto aveva avuto ragione Enjolras, a definirlo un meschino ubriacone!

 

Lui, Grantaire, per una vita aveva sempre pensato solo e solamente a se stesso. Soltanto ora realizzava quanto fosse stato egoista. Quante vite si spegnevano, quanti sogni, quante speranze si mutavano in cenere sotto i suoi occhi! Enjolras glieli aveva aperti, scacciando le tenebre. Le sue parole avevano saputo spronarlo, scuoterlo dal suo pigro, indifferente torpore e dargli un motivo per combattere, una causa da sposare, un orizzonte da conquistare.

 

Ora era il suo momento di dimostrare: di essere all'altezza, di esser degno della loro fiducia. Anelava allo scontro e allo stesso tempo lo temeva. Toccava a lui, e non si sarebbe tirato indietro.

 

Enjolras aveva fatto tanto. Senza di lui, senza le sue parole, ora non sarebbe stato lì. Ma la lezione più importante l'aveva appresa quel mattino, quando aveva visto un uomo sulla quarantina, Pierre, di mestiere falegname, fondere sulle braci alcuni soldatini di piombo, servendosi di un mestolo. “Cosa fai, cittadino?” si era informato, incuriosito. “Pallottole.” “Quei piccoli ussari sono forse di tuo figlio?” “Sì.” “E non gli dispiacerà?”

 

L'uomo aveva alzato gli occhi e li aveva fissati nei suoi. Erano vuoti. Di tutto. Uno sguardo che aveva raggelato Grantaire sino alle viscere. Si era sentito come guardare attraverso. Come se lo guardasse senza vederlo.

 

“Mio figlio non c'è più. E' morto l'inverno scorso. Ha cominciato a tossire, poi a sputare sangue. Non avevamo di che curarlo.” Aveva distolto lo sguardo, la voce incrinata. Ma non aveva versato una sola lacrima. Le aveva consumate tutte.“Io e sua madre glieli avevamo comprati per il suo compleanno. Ne compiva otto. Avevamo risparmiato tutto quello che potevamo. Gli piacevano tanto.”

 

Grantaire era rimasto ammutolito, incapace di trovare parole per consolare quel padre di cui disperazione e dolore avevano fatto strazio, lasciandosi alle spalle nient'altro che un guscio vuoto. Avrebbe tanto voluto sapere cosa dire. Enjolras l'avrebbe saputo. Tuttavia capì che quell'uomo non voleva le sue condoglianze, le sue inutili parole di conforto; voleva suo figlio. Esistono parole capaci di restituire ciò che si è perso?

 

“Come si chiamava?” aveva infine domandato in tono gentile. “Jacques.” “Non posso ridarti il tuo bambino, Pierre. Tuttavia ti faccio una promessa: ti prometto che non sarà dimenticato. Combatteremo anche per lui. Per Jacques. Perché tutti i bambini possano studiare, giocare felici e la malattia e la fame non li sfiorino più. Te lo giuro.”

 

Aveva continuato a lungo a ripensare a quell'uomo. Aveva riflettuto, ed ora comprendeva. Comprendeva che dietro il gesto di forgiare pallottole era insita una ragione ben diversa, più profonda: con quei soldatini, quei ninnoli appartenuti al suo bambino, avrebbe combattuto quel mondo crudele, quella società iniqua che lo aveva strappato a lui e a sua moglie. Con quel piombo avrebbe forgiato un domani migliore. Sulle ceneri del passato, posava la prima pietra per la costruzione del futuro. Quel lutto era la sua arma, con il dolore l'avrebbe caricata.

 

Era quella, la miseria. Quella che spingeva l'uomo sempre più in basso, sempre più nel fango, che degradava la donna sino alla prostituzione, che faceva dei bambini piccoli mendicanti affamati. Che li uccideva con la fame, il freddo e la malattia. Che li rendeva orfani.

 

Che svuotava gli animi e inaridiva i cuori.

 

Era quello ciò che Enjolras e tutti gli altri avevano sempre combattuto.

 

La malattia, la povertà, la fame.

 

Avevano lavorato per un mondo migliore, in cui il sole sarebbe stato più caldo e più splendente, in cui la miseria sarebbe scomparsa e ogni ingiustizia abolita. Per quel sogno erano pronti a morire.

 

Ora, intendeva farlo anche lui.

 

Avrebbe dimostrato di saper credere. Di saper vivere. Di saper morire.

 

Ed Enjolras non si sarebbe pentito di avergli concesso fiducia. Sarebbe stato fiero di lui.

 

Tremava ancora. Si infilò le mani sotto le ascelle per tentare di scaldarsi, ma inutilmente. Non c'era modo di scampare al freddo. D'un tratto una figura bionda in giacca rossa di velluto comparve al suo fianco, stagliandosi sopra di lui. Enjolras.

 

- Buonasera, mio comandante. Qual buon vento ti mena? Vento di rivoluzione, immagino. Ma dimmi, quando potrò dare prova del mio coraggio da ubriacone rinsavito? - scherzò, tentando di stemperare la tensione. - Credimi, guardo con ansia a quel momento. Il buon Rolando impallidirà davanti alla mia prodezza. Altro che i suoi sei nemici in un sol colpo! Vedrai, sarò un vero oplita spartano. Patria o morte! O compagni sul letto di morte, o fratelli su libero suol! Credi a me, fuggiranno come lepri davanti ai cani quando vedranno che condottiero, che Achille, che Aiace, che Ercole ci guida! Che dio dell'Olimpo abbiamo tra le nostre fila! -

 

- Grantaire - notò il giovane rivoluzionario dopo averlo osservato per un po', in silenzio. - Tu tremi. Hai freddo? -

 

Il sorriso di Grantaire scomparve.

 

Enjolras aveva capito. Capito che non era colpa del gelo, ma della paura. Capito che il suo cuore vacillava.

 

Non voleva che lo credesse debole. Non lui.

 

Tuttavia non volle negare.

 

- Ebbene sì, lo confesso: muoio di freddo. Sono un pezzo di ghiaccio dalla punta del naso alle dita dei piedi, una ghiacciaia in pieno inverno. Tutto quello che ho indosso è uno straccio umido o a buchi come formaggio olandese, ma senza averne il sapore, purtroppo. Ma non mi lamento. C'è di peggio. Diogene in fondo dormiva in una botte coprendosi solo con un logoro mante... -.

 

Ma non poté finire. Perché Enjolras si sfilò la giacca rossa e delicatamente, quasi con tenerezza, gliela fece indossare. Grantaire sgranò gli occhi, senza parole. - Senti ancora freddo? - domandò Enjolras, aggiustandogliela addosso. L'altro si guardò: era un po' lunga di maniche e larga di spalle, ma che importava? Era la giacca di Enjolras.

 

Sotto quel caldo tessuto, all'altezza del petto, dove ora batteva il suo cuore, aveva battuto quello di Enjolras.

 

Quel tiepido calore che ancora possedeva era quello del corpo di Enjolras.

 

Come se lo stesse cingendo in un abbraccio rassicurante, a proteggerlo da ogni pericolo.

 

Sollevò gli occhi e lo fissò, incapace di parlare. Ogni parola sarebbe suonata vuota.

 

- Grazie. - poté solo dire, con la voce che gli si spezzava.

 

Il viso di Enjolras si aprì in un meraviglioso sorriso, un sorriso che illuminò tutto il suo volto, magnifico quanto impassibile. Spiraglio di luce in quella buia notte tenebrosa. La maschera glaciale scricchiolò e lasciò intravedere l'uomo sotto il capo. Lo scioglimento del primo fiocco.

 

Gli mise una mano sul collo, sotto i riccioli neri, come in una prima, timida carezza. Lo strinse. Non disse nulla. I suoi occhi blu incontrarono quelli azzurri di Grantaire.

 

“Sono felice che tu sia qui con noi.” sembravano dire. “Sono felice di averti con me.”

 

Ma non disse nulla. Sorrise. E basta.

 

“Alle armi! I municipali! Alle armi!”

 

Enjolras sussultò e volse gli occhi verso Courfeyrac che aveva gridato. I suoi occhi abbandonarono quelli di Grantaire. L'incanto si era rotto.

 

“Alle armi!” urlò a sua volta e senza esitazione corse ad imbracciare il proprio fucile.

Tutti gli altri lo imitarono, e occuparono le postazioni assegnate sulla barricata.

 

Grantaire rimase al suo posto per un attimo, sorpreso, terrorizzato, senza sapere cosa fare.

 

Poi Enjolras lo chiamò vicino a sé e l'esitazione sparì; gli fu accanto all'istante. Caricò la carabina.

 

Enjolras gli sorrise. In silenzio pareva dirgli: “Va tutto bene. Ci sono io.”

 

Grantaire sorrise in risposta.

 

Enjolras era con lui. Lo avrebbe guidato. Lo avrebbe protetto.

 

Enjolras era al suo fianco.

 

Non aveva più freddo. Non aveva più paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'Autrice: E sono qua. Ancora. E Dio, che Calvario sta storia. Sono una presamale paurosa, sì. Comunque: terza FF che scrivo in questo fandom. Hugo ormai mi odia e non posso dargli torto. Ma che posso farci? Quando vien l'ispirazione bisogna scrivere. *giustificazione patetica* Andando a noi: anche se può essere letta a sé stante, questa OS vorrebbe essere il continuo di “Battiti per qualcosa, o morirai per niente”. E' infatti ispirata ad un suggerimento datomi nella sua recensione a quella stessa storia da parte di flatwhat (che colgo l'occasione per ringraziare: grazie! :D). Come avrete notato, Grantaire è ancora una volta protagonista ed Enjolras è sempre presente, tuttavia volevo focalizzarmi di più sulla sua decisione di unirsi agli insorti e combattere con loro, rappresentandolo sulle barricate. Essendo una scena assolutamente “what if” ho cercato (che fatica!) di rimanere “nel seminato”, e spero di non aver scritto boiate megalitiche. In tal caso, ditemelo con sincerità. Avrete notato che non mancano i riferimenti al film di Tom Hooper...volevo metterci la giacca rossa, tutto lì XD *la verità è che adora come una cretina i riccioli di George Blagden (da “Cronache di un fangirlismo delirante”)*

 

Ora: anche se mi piacerebbe sfidarvi, cari lettori e care lettrici, a “trova la citazione” (certe cose solo io ^^”), spiego qui da cosa ho tratto ispirazione per questo mio lavoro. Dunque:

 

1) Il “respiro profondo prima del balzo” è tratto da “Il signore degli anelli: il ritorno del re”. Mi piace da morire LOTR e non potevo non utilizzarlo! :)

 

2) Achille e la tartaruga vengono dall'omonimo paradosso di Zenone di Elea, difensore del pensiero parmenideo. Non mi metterò a far la maestrina a spiegarvi chi, cosa e come. Mi odiereste. Anche perché sono passati quattro anni da quando l'ho studiato e non vorrei dire castronerie ;)

 

3) Le parole di Feully a proposito de “l'austriaco ec ec” e il “o compagni sul letto di morte, o fratelli su libero suol” sono una citazione del “Marzo 1821”, di Manzoni. L'unica sua poesia che apprezzo, tra l'altro (ottocentista sì, romantica pure, ma polemica assai). Poesia che ogni volta non manca di commuovermi un po' (certe cose solo io pt.2).

 

4) “Feully, o l'Italia” è un mio “adattamento” idiota del romanzo “Corinne, ou l'Italie” di Madame de Stael (se sapete come mettere la “e” con la dieresi ditemelo, io sono ignorante in materia). Feully è fissato con l'Italia, la Grecia e la Polonia, poteva Courf non prenderlo amorevolmente in giro LOL?

 

5) Il “collo nel sacro cappio” e “Ci si ama forse di meno ec ec” sono citazione il primo di “Jane Eyre”, l'altro di “Notre Dame de Paris” (due terzi del mio pantheon librario).

 

6) I soldatini sciolti per farci pallottole sono un omaggio a “Il patriota”. Un film che mi ha veramente stregata. E quel gesto racchiudeva troppi sottintesi per non utilizzarlo.

 

7) La morte che “afferra i loro cuori con dita di ghiaccio” è tratta infine da “300”, più precisamente dal discorso finale di Delio (chi l'ha visto/letto, sa).

 

 

Ok, il (palloso) papiro è concluso. A voi l'ardua sentenza, gente! Leggete e recensite, mi rimetto a voi.

 

 

 

#Raky

 

 

  
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