13. “Yuris ormai non c’è
più”
Il portellone della vanship si aprì,
Sophia apparve.
Era seria, come una
sovrana.
Scese il primo, il secondo scalino,
toccò la piattaforma d’atterraggio. Si sforzò di pensare che quello era il suolo
di casa, dopotutto.
Marius la guardava negli occhi con
trepidazione. Sophia non sorrise.
La lunga veste di seta frusciava
intorno al corpo. Non era abituata a quel suono pacato e tagliente col quale si
espandeva l’identità regale tenuta segreta a bordo della
nave.
Abbassò gli occhi, solo per un
attimo. Ancora una volta pensò al corpo che l’aveva stretta per tutta la notte.
Solo la millesima parte dell’amore che Alex era capace di dare. Quello che aveva
dato a Yuris. Immenso. Ora lo capiva.
Le aveva preso il volto tra le mani e
poi accarezzato i capelli per farla addormentare.
Non le aveva detto di
amarla.
§§§
Il comandante non aveva accompagnato
il tenente colonnello Forrester alla pista di decollo. Non rientrava nei suoi
doveri ufficiali.
Aveva osservato l’allontanarsi della
vanship imperiale rossa da un oblò del ponte di comando, ripetendosi che
salutare Sophia sarebbe stato per entrambi comunque più penoso di quell’assenza
di parole.
E quando il puntino rosso era sparito
nell’azzurro splendente della mattina, Alex non era stato capace di rimanere sul
ponte all’improvviso vuoto, con le voci, i rumori quotidiani diventati surreali
ed estranei, con gli ufficiali che ad ogni occhiata sembravano rimproverarlo
tacitamente di quella partenza inattesa.
Uscì all’aria aperta. C’era vento, lo
sentì freddo sulla faccia. E sotto i guanti fini, fredda, quasi gelida, anche la
ringhiera della terrazza panoramica. Alex non sapeva che nello stesso punto, la
sera prima, si era appoggiata la mano di Sophia.
Ma a lei pensava e alle sue mani
tenere.
Yuris…non aveva quelle
mani.
Yuris aveva mani da artista.
Sensibili, nervose, vive, mani che esploravano il mondo come le ali di un falco.
Mani lunghissime, persino troppo, e mobili, snodate come quelle di una
danzatrice, voraci di conoscenza, forti e aggraziate qualsiasi cosa facessero.
Le mani di Sophia erano piccole,
affusolate, sempre in ordine. Si posavano sulle cose con una delicatezza
discreta, come se si accontentassero di portare dolcezza e comprensione, e
cercavano timidamente, ma senza incertezza, senza fragilità. Erano mani fatte
per toccare il cristallo, per accarezzare e crescere un figlio e dare la
felicità a un uomo.
C’era stato un momento in cui nella
notte passata era stato felice. D’improvviso, solo per un attimo, l’inquietudine
e il senso di colpa erano scomparsi e con essi persino il desiderio furioso di
annullarsi dentro il corpo di Sophia.
Ricordava la luce pallida dell’alba
sul suo dolce viso estenuato. Anche lui era sfinito. Aveva chiuso gli occhi, ma
senza dormire, cullandosi del respiro che sentiva accanto a sé. Poi, d’un
tratto, aveva sentito un tocco sulla bocca. Un bacio a fior di labbra, così
piccolo, così delicato da sembrare quasi solo un sogno. Un bacio che non
chiedeva nulla, perché Sophia, credendolo addormentato, non desiderava
svegliarlo. Tutta la semplice grandezza del suo amore era in quel bacio. Non
c’era altro. E lui aveva sentito qualcosa frantumarsi dentro, ma senza dolore,
no, solo con la sensazione che tutto fosse semplice e bello come quel bacio e
come era lei, tutta quanta, il suo viso, il suo odore, la sua pelle
accanto.
Le aveva preso il viso tra le mani.
Perché era la donna più bella del mondo e meritava di più, meritava gioia e devozione. Perché
voleva dirle ciò che provava e mille altre cose. Perché doveva dirle una
cosa…una sola, quella che ancora adesso non riusciva a scollarsi dalla
testa.
Tornò dentro la nave. Salire al ponte
era fuori discussione.
Mentre camminava verso la cabina,
continuava a ripetersi che doveva essere diventato definitivamente
pazzo.
§§§
Da una parte, sopra la porta, apparve
il volto contorto di un condannato legato al palo di un rogo. Più in là,
separato dall’ombra, i denti digrignati di un uomo sotto tortura e lì, proprio
sopra la finestra, la spada del boia che decapitava una fanciulla. Le immagini
sprizzavano dall’oscurità della stanza come nel cielo notturno i lampi di un
temporale lontano.
Non scene complete. Pezzi sparsi di composizioni distese sulla volta della cella da artisti morti
cento e cento anni prima, tutto ciò che degli affreschi la fiamma sulla candela
permetteva di scorgere col suo ondeggiare lento.
Torture. Esecuzioni
capitali.
Come quella che spettava a lei. Tra
un giorno, tra un’ora, forse, secondo la volontà dell’imperatore. Questo era il
destino che un padre assegnava a una figlia.
Padre…
Quante volte aveva pronunciato quel
nome! Eppure mai, mai dalle sue labbra era uscito con la vibrazione del
sentimento che avrebbe dovuto accompagnare quella parola. Padre, Altezza, Sire,
nomi tra loro legati come anelli di una catena di ferro. Padre. Una parola così
vuota per lei.
Aveva sondato il cuore di quell’uomo
corrucciato, vestito di nero, seduto in trono. Gli aveva chiesto pace e pietà
per i disperati di Disith. E lui, suo padre, non l’aveva ascoltata, ma aveva
gettato su di lei le parole dure dell’accusa di tradimento, senza incertezza e
senza dolore.
Anche con lui la sua voce era come
muta. Anche le orecchie di suo padre erano chiuse, il suo cuore
remoto.
E’ destino che io debba aspirare inutilmente all’amore di un uomo.
Alex non l’aveva tenuta accanto a sé.
L’imperatore la condannava.
Inutile. Ovunque io vada, sono
inutile.
Questo era persino più spaventoso
della condanna a morte.
Aveva lasciato
Ora quel sacrificio aveva perso ogni
significato. Era sola, non amata. Perfettamente inutile.
La gioia provata la notte prima era
svanita come una goccia d’acqua nella sabbia. Nemmeno scavando riusciva a
sentirne il fresco contatto sulle dita.
§§§
“Sophia!
Sophia!”
La voce di Yuris, calda e vivace come
allora, la chiama.
Chiude gli occhi e quando li riapre è
una bambina di nove anni assorta a guardare il cielo.
Un falchetto è passato ad ali distese
nell’azzurro estivo e Sophia, come incantata, ne ha seguito il volo tranquillo
fino alle alte cime del bosco.
“Sophia! Il servizio tocca
te.”
Li vede tutti, ancora sull’erba verde
del piccolo parco del palazzetto che sorge vicino alla Prima Acqua, la purissima
sorgente imperiale. Yuris, come lei in completo da tennis bianco, ha i capelli
legati a coda di cavallo e il bel volto abbronzato e sorridente. Marius studia
una mossa su una scacchiera d’avorio. Ripara la testa dal sole con un buffo
cappello di paglia che Yuris gli ha regalato per scherzo. E qualche metro più in
là, presso il bordo del campetto da tennis sul quale giocavano le due ragazze,
Alex guarda la partita seduto sull’erba. Ha i piedi scalzi e i pantaloni
arrotolati sul polpaccio ancora bagnati per aver camminato nella sorgente.
Fa caldo, ma il fresco alito della
fonte che gorgheggia oltre il boschetto rende l’aria piacevole, di quella
dolcezza estiva che invita alla compagnia e alla
spensieratezza.
“Sophia! Se continui a distrarti,
dovrò giocare con Alex. A tennis fa pena.”
La bambina lancia in aria la palla e
la colpisce tranquillamente con la racchetta. Cresce in altezza a vista
d’occhio, ha gambe lunghe da cavallino. Yuris le dice spesso che anche per lei è
stato così: presto smetterà di allungarsi e prenderà delle belle forme
femminili, perché Sophia le somiglia in tutto.
Nei pochi istanti in cui attende la
palla rilanciata da Yuris, Sophia nota che Alex ha rivolto un occhiolino proprio
a lei. “Se faccio pena,” scherza il ragazzo “è solo colpa della mia pessima
insegnante.”
Sophia segna un punto. “Yuris ha
insegnato a giocare anche a me” dice mentre si prepara a lanciare nuovamente la
palla del servizio “e non sono poi così male.”
“Ah ah!” esclama Yuris.
Alex sorride e si allunga
all’indietro, appoggiando i gomiti sull’erba. “Sì, ma a me ha insegnato
diversamente. Lo ha fatto apposta per impedirmi di
batterla.”
Marius ridacchia senza alzare lo
sguardo dalla scacchiera.
“Papà!” sbraita Yuris.
Sophia corre a recuperare la palla
finita in una siepe. E’ un’ottima scusa per allontanarsi. Sente che le guance le
bruciano, deve essere arrossita e non ne sa il motivo. Forse perché si vergogna
di aver contraddetto Alex o forse perché ha notato lo strano sguardo che Yuris
ha rivolto al ragazzo, uno sguardo così diverso da quelli affettuosi che rivolge
a lei o a suo padre.
Fruga nella siepe e trova la piccola
sfera bianca. Torna indietro palleggiando, ma dall’altra parte della rete non
vede più nessuno. Il campo è vuoto, al posto di Yuris c’è la sua racchetta
abbandonata per terra.
Si volta e li vede. Loro tre sono
insieme, sul prato al bordo del campetto. Yuris si è chinata sulle spalle di
Marius e lo abbraccia. Gli ha spostato le pedine sulla scacchiera per dispetto,
ma il padre ride, mentre lei gli bacia la guancia. Alex le si è messo accanto,
sulla testa ha il cappello di paglia che Yuris ha tolto a Marius, e la fissa
incantato come se fosse la creatura più bella del mondo.
Sophia resta immobile al centro del
campetto. Dall’altra parte, sull’erba, c’è un’armonia che lei non conosce.
§§§
Come sempre, i passi del comandante
risuonavano calmi nei corridoi metallici della nave.
E mentre il fruscio del mantello si
disperdeva alle sue spalle. Alex cercava di ignorare, ma senza successo, la
sensazione di vuoto che percepiva dietro di sé, ora che il camminare di Sophia
non lo seguiva a un passo di distanza, ora che sapeva che nessun corpo avrebbe
sfiorato il suo se si fosse fermato all’improvviso.
Scacciare quella strana sensazione di
solitudine sembrava impossibile, come cercare di allontanare l’ombra proiettata
dal proprio stesso corpo. Gli pareva di essere un insetto invischiato nella tela
di un ragno. Tentava in ogni modo di liberarsi da quella sensazione per
ritrovarsene prigioniero più di prima, come se continuare a ripetersi che tutto
era normale, che la solitudine era la sua condizione necessaria e naturale, non
facesse altro che aumentare l’angoscia per la distanza che lo separava dalla
vanship rossa partita quella mattina e dal respiro tranquillo di Sophia, allo
stesso modo che dieci anni prima le urla gridate nel Grand Stream non erano
servite ad altro che a renderlo più disperatamente inutile mentre il corpo di
Yuris svaniva nella corrente.
La verità era semplice, per quanto
ancora non avesse il coraggio di ammetterla, a se stesso e alla donna che aveva
lasciato mestamente la nave, sconfitta dalla sua ostinazione. Una verità che
bere non era stato sufficiente a cancellare, quella mattina. D’altronde il whisky era
sempre stato inutile, tranne che per vincere l’insonnia o per aiutarlo a
sopportare l’orrore che gli si spalancava dentro a
tradimento.
Nemmeno l’immagine di Yuris era
venuta a soccorrerlo, perché era svanita in una nebbia densa e profonda dalla
quale non era più riemersa, e inutile era stato continuare a cercarla nella
fotografia sbiadita. Del suo volto vedeva i singoli tratti, le labbra
sorridenti, le sopracciglia regolari, gli occhi bruni e dolci, ma senza riuscire
a comporre l’immagine che da allora era almeno riuscito a tenere dentro di sé
con una percezione nitida e costante. Soltanto adesso lei pareva davvero morta,
dissolta non dal tempo ma dalla forza invadente di sentimenti nuovi, non voluti,
disperatamente combattuti.
Si sentiva sull’orlo, non sapeva di
cosa. Solo di questo era certo, che da una parte e dall’altra c’era un baratro
vuoto. Non trovava Yuris, ma non era capace
nemmeno di riempirsi l’anima di Sophia. E questa era la prova di quanto fosse
morto, di quanto ormai somigliasse a un’ombra fredda ed
immobile.
O forse no…forse…
Per due volte, da quella mattina,
qualcuno lo aveva rimproverato, il ragazzo che lo aveva sorpreso a bere nella
cabina e il vecchio che lo aveva battuto a scacchi. Claus aveva difeso
ingenuamente il cuore ferito di Sophia, Recius gli aveva ricordato che tutto ciò
per cui avrebbe dovuto combattere aveva appena lasciato la nave. Nessuno dei due
aveva capito il suo nuovo tormento e quanto fosse tremenda per lui la lotta che
stava combattendo per continuare a difendere qualcosa che avrebbe dovuto dare un
senso alla sua vita e che non vedeva più.
Si sentiva un fantasma, mentre
percorreva lo stesso corridoio deserto in cui Sophia lo aveva trovato la sera
prima. Ora i suoi passi gli giungevano come se appartenessero ad un altro,
forse all’uomo che già, nella confusione di avere scoperto d’amare, aveva
percorso i metri tra una cabina e l’altra e sfiorato una porta e poi baciato la
fronte che si offriva a lui e affondato le mani in capelli soffici e cercato una
bocca per colmare la distanza tra ciò che era e ciò che poteva
essere.
Entrò senza rumore nella cabina del
vice-comandante completamente vuota. Lei non era dentro, non era in nessun
posto. I suoi libri mancavano, gli scaffali erano vuoti, gli spazi desolati.
Tutto era stato lasciato in un ordine anonimo, come se lei non avesse mai vissuto là dentro e nemmeno sulla nave.
Ma l’aria – ogni particella di ciò
che Alex respirava - sembrava ancora impazzire di lei: il suo profumo resisteva
tenacemente, fluttuava sul letto, tra le pareti di metallo, come una creatura
imprigionata in una gabbia.
Era il profumo che aveva assaporato
dal suo collo, assorbito dai suoi capelli, inseguito in ogni parte del suo
corpo, odore di pelle e di fiori nel quale si era stordito, mentre tutto di lei
sembrava dirgli che Yuris non c’era più e che l’unico sorriso al quale avrebbe
voluto rispondere non era quello fissato dalla vecchia fotografia ma quello di
Sophia.
Alex si lasciò cadere sul
letto.
Yuris ormai non c’è più.
Ma no, non era per questo che ora si
sentiva vuoto e solo.
Segue capitolo
14…
Note e
ringraziamenti
Non vedo l'ora di finire questa storia. Non ne posso più! Ma ci sono varie cose da raccontare ancora e spero che non abbiate perso la pazienza.
Ringrazio le persone che hanno letto,
amato e recensito.
Stavolta (ma solo per questa volta), però, lascio una risposta solo
alle due ragazze che non avevano mai recensito prima, perché so che hanno
tardato a farlo per timidezza.
Aleteia – Anche tu hai fatto una gran bella
analisi, non ti è sfuggito niente. Mi piace troppo quando i lettori sentono e si
emozionano proprio come speravo. Sul fatto che Alex sia proprio un personaggio
alla Byron, ti do completamente ragione. Ti dico solo questo: nel capitolo 2,
quello del vino, e poi nel 12, ho messo proprio una citazione da Byron (quando
Alex dice che ci sono piante bruciate dal gelo alla radice e poi nel 12, quando
pensa di essere una pianta uccisa dal gelo, riprende proprio un monologo del
Manfred di Byron.
Halina – veramente, mi sorprendo sempre
quando dicono che nelle mie pagine metto tutte queste emozioni. Io non me ne
rendo conto. Grazie anche a te, è troppo bello sapere che ho un’altra lettrice
così fedele.