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Autore: Mellis_    15/09/2014    0 recensioni
«L’anno prossimo parto.»
«Lo so.»
Seguitò un lungo silenzio che non faceva altro che aumentare l’irrequietezza che avevo dentro in quel momento.
«Come facciamo?»
«Aspetterò. Ti aspetterò anche tutta la vita se serve»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Un bacio a ciò che verrà.

 

Era la quasi notte di un giovedì di settembre. Uno qualunque, con le solite stelle, la solita luna fissa nell’angolo sinistro del cielo, i soliti lampioni che ogni due o tre si spegnevano, le solite case.

Per strada i soliti volti, con i sorrisi finti della gente, e le comitive di ragazzi ubriachi che andavano in giro con delle bottiglie mezze vuote di vodka absolut in mano. I bar erano ancora aperti, la piazza popolata di giovani distratti che fissavano un punto fisso del cielo.

Quella sera le stelle erano poche, si potevano contare sulle dita di una mano. Vegliavano sui vicoli bui dove si appartava, ogni tanto, qualche coppietta appena nata. Ah, questi amori estivi. Così brevi eppure così intensi. Mi metteva gioia nel cuore seguire gli sguardi innamorati di due fidanzati che passeggiavano, mano nella mano, in mezzo alla gente. Quelle dita intrecciate sembravano dirsi “E col cazzo che ti lascio andare adesso”. Eppure dopo tre mesi, il 70% delle coppie andava a farsi fottere. Svanivano così, nel nulla. Come le stelle quella sera. Diminuivano poco a poco, facendo spazio alle nuvole incolore che lasciavano filtrare il bagliore della luna.

Sono sempre stata intollerante all’amore, e dopo aver trascorso cinque mesi di inferno ho creduto di aver sviluppato un meccanismo di difesa contro ogni forma di affetto. Il mio cervello aveva ormai una sorta di antivirus, per non parlare delle catene sul cuore, e dei macigni che mi portavo dentro da ormai troppo tempo. Ero diventata un totale disastro.

Respingevo chiunque mi si avvicinasse, e spesso, respingevo anche me stessa. Mi stavo trasformando in una macchina anti-sentimenti, con una pietra al posto del cuore, e una paura matta di innamorarmi.

Ero stanca di essere un giocattolo, io. E così da cinque mesi a quella parte erano gli altri ad essere i miei giocattoli. O almeno, fino ad allora.

Era la quasi notte di un giovedì di settembre, quando tutti i macigni che avevo dentro crollarono in pochi istanti. La luna nel frattempo era ancora lì, nell’angolo sinistro del cielo che ogni tanto faceva capolino tra le nuvole. Non aveva piovuto quella giornata, ma c’era un venticello ingannatore che lasciava il sospetto di una pioggia.

Il vicolo era illuminato di un arancione intenso, con un silenzio quasi assordante. Si sentiva quella specie di “squittio” dei pipistrelli. Non l’ho mai sopportato, mi ha sempre provocato un fastidio all’orecchio.

Tutti gli altri erano dentro a giocare ad obbligo o verità. Un gioco del cazzo, per chi non è abituato a dire in giro i fatti propri. Un gioco semplice per chi è abituato a mentire, ma una vera batosta per chi non riesce proprio a nascondere la verità.

Tutti tranne noi.

Guardavo fisso il tavolo. Lui era lì, seduto su una sedia ricoperta di stoffa rossa, e io accanto a lui su una normalissima sedia in legno. Quel silenzio continuava a rompermi i timpani.

Lentamente avvicinai la mano al suo braccio. Glielo accarezzai. Ancora la luna lì, al suo posto, che non si spostava di un centimetro. Ancora le solite stelle, e le nuvole, e la luce arancione dei lampioni. Tutto aveva un suo “solito”. Tutto tranne noi. Ecco cosa ci caratterizzava. Un “tranne”.

Eravamo il nulla sotto quel cielo nero, e chissà se avessimo mai avuto un “solito”. Chissà se avessimo continuato ad essere distanti nonostante i pochi centimetri che ci separavano.

Per un attimo sentii un brivido correre lungo la schiena. Ora, che fosse l’aria fresca che tirava su quel primo piano, nessuno può dirlo. Presi a guardarlo negli occhi con un’insistenza che quasi mi faceva paura. Avrei voluto urlargli in faccia le peggio cose, ma chissà per quale motivo avevo preferito star zitta. E colmare un silenzio così forte il più delle volte è difficile.

Spostai lo sguardo verso il fondo del balcone, fissando uno dei lampioni che costeggiavano la strada. Sott’occhio notai che mi fissava. Sembrava una di quelle scene dei film in cui pare stia per succedere qualcosa, e alla fine non succede mai nulla. Ma io sentivo qualcosa di strano nell’aria.

Appoggiai la testa sul suo petto. Riuscivo a sentire il suo cuore che batteva in sincronia con il mio. E non c’era suono più bello.

Sentivo il suo respiro sulle mie ciglia. Mi strinse a sé accarezzandomi le mani e nel frattempo mi guardava, con la stessa insistenza con la quale avevo preso a guardarlo io prima. Sembrava essere un gioco, o meglio, una tortura. Quegli occhi fissi puntati addosso mi inquietavano. Per un attimo mi girai verso di lui, con la speranza di non incrociare i suoi occhi marroni. Non riesco proprio a resistere agli sguardi. Il suo avrebbe ammazzato tutte le farfalle che avevo nello stomaco in quel momento.

Non c’era il benché minimo rumore. Soltanto il continuo “squittire” dei pipistrelli che mi stizzivano.

Ad interrompere quel seguitare di sguardi fuggenti ci fu qualcosa che io oso chiamare “quella cosa”. Spesse volte non si può definire con una banale parola un gesto che ne vale mille messe insieme.

Mi ritrovai così, senza motivo, senza preavviso, ad avere le labbra incollate alle sue. Sapevano di un nuovo inizio. Sapevano di noi.

La luna ci guardava da dietro le nuvole. Le stelle brillavano con la loro luce fioca. I lampioni facevano luce sulle nostre labbra che spesso si inarcavano in un sorriso.

«Perché non sei arrivata prima, cazzo?!»

Lo presi come un “ti stavo aspettando ma non ero ancora riuscito a trovarti”. E cavolo, non poteva immaginare quanto lo stessi aspettando io. Si fermò per pochi istanti; mi strinse continuando ad accarezzarmi le mani con le dita. Guardava il vuoto.

«L’anno prossimo parto.»

«Lo so.»

Seguitò un lungo silenzio che non faceva altro che aumentare l’irrequietezza che avevo dentro in quel momento.

«Come facciamo?»

«Aspetterò. Ti aspetterò anche tutta la vita se serve»

E al diavolo la partenza, al diavolo l’arruolamento nell’esercito, al diavolo la distanza e tutti i cazzi vari. C’eravamo noi.

Noi e basta, sotto quel cielo nero che ci teneva uniti come il pancarré e la Nutella.

 

 

 

   
 
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