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Autore: Chaotic Alaska    16/09/2014    4 recensioni
~ Quinta classificata al contest "Favole&Surrealismo" indetto da Melinda Pressywig ~
Poteva andare avanti così per l’eternità, una ninna nanna al giorno per tenere lontana la bocca affamata della notte, ma si sa che l’eternità è un’invenzione degli amanti e dei ritardatari.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ninna nanna




C’era una volta, tanto tempo fa, un bambino che aveva paura della notte.

Non del mostro nell’armadio, né dell’uomo nero. 
Semplicemente, della notte.
“Mi sembra di sparire” spiegava alla mamma “come se la notte avesse una bocca immensa, affamata, e mi divorasse in un solo boccone”
“E le stelle?” domandava lei, rimboccandogli le coperte e sistemandogli accanto il suo gatto di peluche, Mr. Purr.
“Sono i suoi occhi. Se non ci fossero le stelle, la notte non potrebbe trovarmi e mangiarmi”
“E la Luna?” domandava lei, scostandogli i capelli sottili dal volto.
“La Luna è la sposa della notte” rispondeva il bambino, fissando la madre con estrema serietà.
Lei sorrideva, di quel sorriso imperfetto delle persone che hanno davvero una risposta.
“In realtà, la Luna è un gigantesco parco giochi. Quando ci stancheremo di vivere sulla Terra, potremo andare a giocare sulla Luna, per l’eternità”
Il bambino che aveva paura della notte non ne era molto convinto. 
Dalla Terra, non si vedeva nessun parco giochi.
E allora, lei cantava per lui. 
Era una ninna nanna fragile come porcellana, incerta come i passi di un ubriaco, dolce come zucchero filato. 
Il bambino non capiva bene tutte le parole, ma parlava di amore, di rimpianto, di cose delicate e destinate a scomparire.
E lui, di colpo, dimenticava la notte e le stelle e la Luna col suo parco giochi. 
Non aveva più paura. 
Era come quando un singolo istante sfugge al fiume del Tempo e ti si incolla addosso. 
Se qualcuno avesse chiesto al bambino quale fosse l’essenza stessa della vita, lui non avrebbe capito la domanda, non conosceva quella parola così difficile, da adulti,  ma avrebbe comunque risposto che era tutta lì, in quell’istante immobile e perfetto.
Poi la ninna nanna si spegneva come una candela, lentamente, e lui già dormiva.
Il giorno dopo, il bambino aveva di nuovo paura della notte.
Poteva andare avanti così per l’eternità, una ninna nanna al giorno per tenere lontana la bocca affamata della notte, ma si sa che l’eternità è un’invenzione degli amanti e dei ritardatari.
E così, quella sera, la mamma non venne a cantare per lui. 
La mamma aveva una nuova casa, spiegò il papà. 
Non era molto grande, non c’era spazio per nessun altro a parte lei, ma era di un bel legno robusto. Potevano andare a trovarla quando volevano, aggiunse.
Il bambino le portò dei fiori, per abbellire un po’ la nuova casa, che era decisamente spoglia.
“Mamma, mi canti la mia ninna nanna?” domandò, ma senza ricevere risposta.
Il papà, le grandi mani abbandonate lungo i fianchi, aveva gli occhi vuoti, lontani, grigi come il cielo sopra una grande città. Sembrava infinitamente triste.
Il bambino immaginò che fosse perché la mamma non rispondeva. Era forse arrabbiata per qualcosa?
E fu quello il momento. Un’improvvisa rivelazione.
La mamma non rispondeva perché non era lì.
Era nel luna park sulla Luna! Gli aveva sempre detto la verità, dunque!
Era tentato di dirlo al papà, dirgli di sorridere, perché la mamma non era arrabbiata, semplicemente era a giocare nel più grande luna park di tutti i tempi e, forse, si era dimenticata che fosse l’ora di tornare a casa.
Poi pensò che no, sarebbe stato lui a riportarla a casa.
Le avrebbe stretto la mano come si stringe il filo di un palloncino quando hai paura che possa volare via e l’avrebbe portata giù con sé.
Quella notte, per la prima volta, sentì di non avere paura.
Canticchiava tra sé e sé la ninna nanna della mamma e sentiva di capirne le parole. 
Parlava di amore, di rimpianto e di abbandono. 
Parlava di cose troppo delicate e preziose per sopravvivere, destinate a scomparire, parlava del diventare grandi e del dover accettare gli addii.
“Come arriviamo sulla Luna?” domandò Mr. Purr, saltando giù dal davanzale.
“Basterà una scala” 
Quella notte, la Luna era immensa, una gigantesca insegna al neon di un bianco accecante.
“Com’è luminosa” fece notare Mr. Purr.
“E’ un faro per le navi che navigano nella Via Lattea” rispose il bambino e indicò le centinaia di barchette, ben visibili anche da quella distanza, che dondolavano tranquille sulle onde di latte. 
Appoggiò la scala alla luna, si assicurò che fosse stabile e iniziò a salire, con Mr. Purr sulla spalla.
La salita fu lunghissima. 
Le barchette di carta si avvicinavano sempre di più, coi minuscoli equipaggi che salutavano il bambino e il gatto. La città era lontana quanto un ricordo, con le case giocattolo, le stradine, i giardini ben curati, le persone che dormivano e sognavano.
La scala finì, il bambino e il gatto si ritrovarono sulla Luna. Aveva una strana consistenza gelatinosa e un buon profumo, come di pane caldo e noccioline del circo.
Il vento portava con sé i rumori lontani del luna park. 
Era musica e poesia, urla di bambini, mezze frasi e parole incomprensibili, il cigolio della ruota panoramica, il carillon della giostra coi cavallini, le luci sfavillanti come farfalle, gli odori dolci e malinconici.
“Non possiamo restare qui” miagolò Mr. Purr, improvvisamente inquieto.
“Devo trovare la mamma” 
“E’ ancora troppo presto”
“Devo riportarla a casa” replicò il bambino, ma era già meno convinto.
Erano giunti a un crocevia. Era tutto così etereo e silenzioso. 
Le barchette si stavano allontanando nella notte e il faro stava per spegnersi.
Alla fine del mondo, da qualche parte tra il cielo e la terra, il Sole sarebbe presto nato.
I suoni del luna park erano adesso smorzati, come se arrivassero da dietro un altissimo muro. 
E il bambino capì che c’era una distanza siderale, incolmabile, tra lui e la sua mamma. 
Non avrebbe trovato il luna park, nemmeno vagando sulla Luna per mille notti. 
Il palloncino gli sfuggì di mano, una folata di vento caldo se l’era portato via. 
Si allontanò nella notte morente, rosso come una ciliegia appena colta, sobbalzando qua e là come tendono a fare i palloncini.
E l’istante dopo era scomparso, tanto che veniva da chiedersi da dove fosse improvvisamente comparso e se fosse mai esistito.
Veniva da chiedersi se fosse una risposta accettabile e, soprattutto, a quale domanda.
Le onde della Via Lattea portarono alle orecchie del bambino un’antichissima ninna nanna.
Parlava d’amore, di rimpianto, di abbandono.
Parlava del dover diventare grandi da soli.
Parlava del dover accettare quelle distanze siderali e incolmabili, anche chiamate ‘addii’.
Raccontava di un luna park sulla Luna, il più grande di tutti i tempi.
Quando ci stancheremo di vivere sulla Terra, andremo a giocare lì, per l’eternità.
“In fondo, è una promessa” commentò Mr. Purr, con un miagolio “Si tratta solo di tornare giù e crescere, anche se farà male. Anche se gli addii sono taglienti come coltelli”
Alla fine del mondo, da qualche parte tra il cielo e la terra, cominciava ad albeggiare.
“Farà male” concluse il bambino e comprese che la sua infanzia era volata via assieme al palloncino rosso, lontano, oltre le stelle e la volta scura del cielo “Però, ne varrà la pena. E un giorno, tornerò qui e questa distanza siderale si sarà sciolta come gelato. Tornerò qui e lei mi starà aspettando, bella come il giorno in cui è andata via”
La ninna nanna lontana moriva assieme alla notte. 
Parlava soprattutto di amore e di attesa. Degli addii che sono come comete. 
Della primavera che torna a nascere dalle nevi dell’inverno.
Si spegneva la grande insegna al neon della Luna.
   
 
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