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Autore: SophieJ    21/09/2014    2 recensioni
Avevo sentito tre esplosioni e avevo percepito qualcosa di liquido scorrermi sul viso.
Non mi ero azzardata ad aprire gli occhi, finché non avevo sentito una mano tiepida sulla spalla.
Allora avevo guardato su e i miei occhi si erano persi in quel grigio magnetico.
“Tutto bene?” mi aveva chiesto.
Io avevo solo annuito, incapace di proferire parola, e mi ero tirata su i piedi.
“Non ho potuto fare molto per la tua bambola, mi dispiace.”
Mi aveva teso Brigitte e io l’avevo afferrata con forza, stringendomela al petto.
“Perché? Tu non hai fatto nulla. E’ tutta colpa di quei brutti bambini di prima.-“
Lui aveva sorriso.
E solo allora avevo visto.
Sul prato c’erano in tre punti differenti, tre pozze vermiglie dai contorni indefiniti e un sacco di sangue spruzzato sulle giostre, sul prato e su tutto ciò che si trovava nel raggio di tre metri.
Lo avevo guardato con timore e mi ero ritratta, mettendo un po’ di distanza tra noi.
“Non aver paura. Non ti voglio fare del male… non te ne farei mai.”
E io gli avevo creduto.
Genere: Avventura, Comico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Chapter One.

 

“Gwyneth, bambina mia, sta lontana da lui! E’ pericoloso, è cattivo, ti farai male…”

Mi ammoniva sempre mia madre. 

Avevo 6 anni quando lo conobbi per la prima volta.

E in quel momento sentii di conoscerlo da molto prima. 

Da vite passate, trascorse nella continua ricerca reciproca l’uno dell’altra, nell’attesa, a volte nella delusione di non essersi incrociati per così tanto tempo.

Era stato un incontro fatale, rivelatore.

Mi ero vista come osservatrice e attrice quel giorno e avevo saputo, come se fossi stata toccata dalla mano chiarificatrice di Dio, che le nostre anime si erano incatenate l’un l’altra in maniera inscindibile e ad un livello così profondo, da diventare quasi una cosa sola.

Il mio asse gravitazionale si era spostato tutto nella direzione di quel bambino unico e sinistro al tempo stesso.

 

Ero uscita per giocare nel palchetto vicino a casa sua.

Stava piovendo a dirotto, come se gli angeli piangessero tutti insieme.

Mi era avvicinata all’altalena e avevo udito dei gemiti di dolore intervallati a dei colpi secchi. 

Ero avanzata fino alla zona più nascosta del parco, dove c’erano i bagni pubblici, e lì, avevo visto un bambino pallido, con gli occhi grigi, tempestosi, che sputava sangue mentre si massaggiava il braccio destro, su cui vi era uno squarcio profondo.

Aveva qualche anno in più di me, ma non poteva nulla contro quei ragazzini che lo strattonavano, tirandogli nel mentre qualche ceffone.

Inorridita alla vista di un tale spettacolo, ero corsa in suo aiuto.

Avevo con me la mia bambola preferita, Brigitte, e me ne servii per minacciare quei ragazzini così cattivi.

Il mio debole tentativo di difendere il ferito non fece altro che peggiorare la situazione:

smisero di prendersela con il bambino dai capelli corvini, facendo di me la nuova vittima di quel gioco crudele.

Mi strapparono la bambola e incominciarono a lanciarsela e usarla a mo’ di pallone da calcio.

Ero scoppiata in lacrime, quando la mia bella Brigitte era finita in una pozza fangosa.

Era uno dei pochi regali che mio padre mi avesse mai fatto.

Aveva un che di speciale per me: sapeva di mio padre, di cuoio, di viaggi in terre lontane.

Lui era sempre assente e credeva che i regali gli avrebbero garantito l’affetto della figlia.

E così fu, finché una mattina di natale scesi ad aprire i regali.

Mio padre era lì e aprì le braccia per invitarmi a correre da lui, ma io non lo feci.

Per me era solo uno sconosciuto, uno passato di lì a salutare sua madre.

E anche quando quest’ultima mi disse che era mio padre, io invece di correre da lui, corsi nella direzione opposta, in camera, e mi nascosi sotto al letto.

Era stato un tale dispiacere per mio padre, che non aveva più accettato lavori che comprendessero lo stare troppo lontano da casa.

 

Avevo sentito tre esplosioni, percependo qualcosa di liquido scorrermi sul viso.

Non mi ero azzardata ad aprire gli occhi, finché non avevo sentito una mano tiepida sulla spalla. 

Allora avevo guardato su e i miei occhi si erano persi in quel grigio magnetico.

“Tutto bene?” mi aveva chiesto.

Io avevo solo annuito, incapace di proferire parola, e mi ero tirata su i piedi.

“Non ho potuto fare molto per la tua bambola, mi dispiace.”

Mi aveva teso Brigitte e io l’avevo afferrata con forza, stringendomela al petto.

“Perché? Tu non hai fatto nulla. E’ tutta colpa di quei brutti bambini di prima.-“

Lui aveva sorriso.

E solo allora avevo visto. 

Sul prato c’erano in tre punti differenti, tre pozze vermiglie dai contorni indefiniti e un sacco di sangue spruzzato sulle giostre, sul prato e su tutto ciò che si trovava nel raggio di tre metri.

Lo avevo guardato con timore e mi ero ritratta, mettendo un po’ di distanza tra noi.

“Non aver paura. Non ti voglio fare del male… non te ne farei mai.”

E io gli avevo creduto. Mi aveva teso una mano e io, seppur riluttante,  l’avevo afferrata. L’avevo stretta e gli avevo sorriso, un sorriso dolce e fiducioso.

E lui mi aveva sorriso di rimando e mi aveva accompagnata a casa.

Mi ero ricordata del suo braccio ferito e avevo chiesto di vederlo, ma non avevo scorto nessuna traccia di una ferita.

Lo avevo guardato con aria interrogativa e lui mi aveva spiegato: “Non ti preoccupare, io guarisco in fretta.”

Prima di entrare in casa, mi ero voltata a guardarlo un ultima volta e gli avevo chiesto:

“Come ti chiami, bambino coraggioso?”

“Dale, Gwyneth, ma tu questo già lo sai.”

Gli avevo sorriso e avevo varcato la soglia di casa.

Ma quando ero corsa a guardare fuori dalla finestra, il bambino dagli occhi grigi non c’era più.

 

Eravamo diventati grandi amici, o meglio: Dale era diventato il mio difensore, il suo cavaliere, o protettore.

Mi aveva sempre aspettata, ogni pomeriggio, dall’altalena e aveva sempre portato qualche cosa di buono da mangiare per me.

 

Ma tutto prima o poi finisce.

 

Avevo 9 anni quando Dale se ne andò.

Ero da poco tornata a casa e, il tempo di lasciare lo zainetto nell’ingresso, ero corsa nei pressi dell’altalena.

Ma lui non c’era.

Ero corsa a casa sua, ma era tutto tristemente silenzioso.

Ero ritornata a casa in lacrime per sentire da mia madre che gli Armstrong se n’erano andati per sempre.

 

Ero ritornata più volte in quel parco, più per abitudine che per altro.

Speravo che lui si sarebbe fatto vivo, ma non fu così.

Un giorno avevo scorto appeso ad un albero un bigliettino nero e avevo chiesto a mia madre di tirarmelo giù.

C’erano solo due parole su di esso: “Ritornerò. Dale.”

I miei occhi si erano appannati e calde gocce salate avevano solcato con fierezza il mio viso.

La mia grande amicizia con Dale era finita senza una parola, ma solo una promessa.

 

 

“Gwyneth, muoviti!”

Mia madre cercava con rabbia le chiavi della macchina, che tra l’altro era ferma da mesi e che, a mio avviso, non aveva nessuna intenzione di svegliarsi dal suo letargo.

“Maledette chiavi!” sbraitò, risistemandosi gli occhialetti tondi sul setto nasale.

La osservai mettere sotto sopra la casa, cercando di scovare quel piccolo mazzetto tintinnante di metallo.

Ormai le misere speranze iniziali, alimentate da qualche esclamazione come ‘ci siamo!’ oppure ‘trovate!’, si erano dissolte in un nulla di fatto.

“Mamma, io vado a prendere l’autobus. Ci vediamo in ospedale!” 

Uscii di casa, quasi correndo e vidi con stizza l’autobus partire proprio in quel momento.

Stupidi mezzi pubblici!

Andai sotto la tettoia della fermata a controllare gli orari e scoprii con orrore che il prossimo autobus sarebbe passato tra una ventina di minuti.

No. Non posso aspettare tanto. Mio nipote non può certo aspettare il mio arrivo per uscire dall’utero di mia sorella!

Cercai di riflettere alla svelta.

C’era una cosa che odiavo fare, ma al momento non vedevo alcuna alternativa.

Presi il coraggio a due mani e raggiunsi la strada principale a due isolati da casa mia, sporgendo il pollice alzato, nella speranza che qualche buon samaritano mi notasse e mi desse un passaggio.

Passò una decina di minuti e niente. Non un’anima pia si degnò di darmi una mano, anzi, un passaggio.

E dire che non ero così malvestita, insomma… Avevo pure i tacchi!

Ma niente. Neppure un vecchio bavoso si degnò di fermarsi.

“La bontà del genere umano…” mormorai con sarcasmo.

Basta! Ci vuole un’azione drastica. A mali estremi, estremi rimedi!

Mi piazzai su una corsia della strada, per nulla intenzionata a spostarmi di lì.

“Hey, tu!” strillai, piazzandomi di fronte alla macchina che stava sopraggiungendo a gran velocità. “Smettila di guidare in modo così spericolato e dammi un passaggio all’ospedale!”

Le gomme della machina stridettero cercando di arrestare quella folle corsa e il ragazzo al suo interno si lasciò sfuggire un’imprecazione piuttosto colorita.

Ottimo! il mio obiettivo era che qualcuno si fermasse e alla fine l’avevo avuta vinta.

Stava guidando una R8 e l’aveva appena fatta tirare al lucido, perché splendeva come un diamante esposto ad una fonte di luce.

Qualcuno mi dia un pizzico, credo di star sognando.

“Che diamine stai facendo?” mi gridò con rabbia, tirando giù il finestrino.

“L’autostoppista! Non lo vedi, idiota?” ribattei con astio. “Ora, fammi entrare.”

“Ma che… Pensi veramente che ti darò un passaggio?” domandò incredulo.

“Ovvio, scemo,” dissi, guardandolo con sufficienza, “Mia sorella sta per partorire e siccome io non ho la patente, si suppone che qualcuno mi dia uno strappo fin laggiù.”

“Esistono i mezzi pubblici, non lo sai?” disse lui con fare sarcastico.

“Si, è vero. Ma il tempo che arrivi un autobus e si destreggi nel traffico e giunga all’ospedale, mio nipote sarà già nato!” gli ho spiegato con impazienza.

“Levati dalle scatole, ragazzina,” disse con fare minaccioso “O non esiterò a passarti sopra come un rullo compressore!”

Risi a quella sua ultima battuta, lui, passarmi sopra? Uhm, non credo proprio.

“Provaci se ci riesci!” lo sfidai, saltando sul cofano della sua macchina.

“Se la graffi giuro che…” scosse la testa, scrutandomi accigliato.

“Che farai? Sentiamo.” gli domandai, rotolando da una parte all’altra, schernendolo.

“Ugh. Tu. Entra.” cedette, sporgendosi dal lato del passeggero per aprirmi la portiera.

Si! Proprietario dell’R8: 0. Io: 1.

Facile, no?

“Dove?” mormorò, mentre balzavo sul sedile di fianco a lui.

“Oh cielo… Siamo un po’ smemorati, eh? Ho detto all’ospedale.” dissi, con tono di sufficienza.

“Quale??” chiese con stizza, impaziente di premere a fondo il pedale dell’acceleratore.

“Beh, considerato che c’è solo un ospedale nelle vicinanze…” dissi con voce strascicata.

“Cristo, d’accordo.” e premette con gioia il pedale dell’acceleratore, facendo sgommare lievemente la macchina “Sei fortunata che io ti stia dando un passaggio.”

“Beh, direi di essere piuttosto fortunata, visto che ho lasciato un bel segno sul tuo cofano con i tacchi.”

“COSA?” disse, quasi andando a sbattere contro un palo della luce.

“Non hai mai preso in considerazione l’idea di gestire un po’ meglio la rabbia?” chiesi incuriosita “Qualcuno dovrebbe ritirarti la patente.” mi guardò con un’espressione scioccata “Stavo scherzando, scemo.”

“Ha ha ha! Davvero divertente! Così divertente che mi sono scordato di ridere.” borbottò seccato.

“Se hai dimenticato di ridere, come mai ho sentito un ‘hahaha’? dissi freddamente.

“Perché tu stai delirando. Ecco perché.” mi rispose.

“Credo che tu sia mentalmente frustrato.” sbuffai “Almeno il mio cervello funziona benissimo.”

Lui mi ignorò.

“Eccoci!” annunciò “All’ospedale!”

“Finalmente! Credevo che sarei morta soffocata dal tuo profumo; uso eccessivo di acqua di colonia?” mentii; il suo aroma era giunto alle mie narici come una fresca e dolce brezza profumata, nulla a che vedere con il puzzo dei miei coetanei.

“Davvero? Lo stesso vale per te, sgualdrina.” mormorò sardonicamente.

Saltai giù dal sedile e uscii dall’auto. “E a chi devo porgere i miei ringraziamenti?”

“Dale. Dale Armstrong.” ha detto con orgoglio. “E tu…sei?” chiese, socchiudendo gli occhi.

“La tua amichevole Spider-Woman di quartiere!”

Poi gli sbattei la portiera in faccia, avvaindomi verso l’interno dell’edificio.

Sentivo gli strilli di mia sorella fin da lì e quindi accelerai il passo.

Proprietario dell’R8/Dale: 0. Io: 2.

 

 

Donnina nell’ampolla:

Contro ogni previsione, negli ultimi tempi mi sto cimentando nel genere romantico.  *applausi e occhi lucidi* :D Non è proprio un genere nelle mie corde, ma bisogna provare anche qualcosa di nuovo quando la tua musa ispiratrice fantasy si dà all’ippica e ti lascia nei casini. *donna maledetta* Comunque, intanto ringrazio chiunque abbia letto, recensito o semplicemente speso 5 minuti del suo tempo ( forse anche meno xD) a leggere questa mia nuova impresa: VI ADORO! So che è un’inizio piuttosto breve, ma è un esperimento, perciò vedrò dal vostro indice di gradimento se procedere o meno! ;D Alla prossima, Jollies! Un bacione! SMACK!

Sophie J

 
   
 
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