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Autore: Aries K    23/09/2014    3 recensioni
Quando la giovane Emily Collins mette piede nel collegio più cupo e spaventoso di Londra non sa che la sua vita sta per cadere in un mondo oscuro fatto di sangue e creature che credeva vivere solo nei suoi incubi. Quando pensa che la sua esistenza non possa cadere più in basso di così incontra William Delacour, figlio della temibile preside Jennifer Delacour. William -così enigmatico e onnipresente in quel convitto esclusivamente femminile- nasconde un segreto che sembra coinvolgere anche la giovane. I due non potranno che avvicinarvi anche se, non molto lontano da loro, qualcuno cova una centenaria vendetta che sembra non volersi compiere...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutti! Prima di lasciarvi al primo capitolo della mia originale, mi sento in dovere di dirvi due cosucce importanti e poi lasciarvi in pace. Dunque, questa storia nacque nella mia mente più o meno sette anni fa, quando avevo quindici/sedici anni. Erano i primi tempi che mi avvicinavo al genere urban fantasy, e questo è la prima storia lunga che ho portato al termine (senza contare una che scrissi da piccolissima, ecco) ed è inutile dirvi quanto io ci tenga e quanto io ci sia affezionata. Rileggedo i primi capitoli e confrontandoli con gli ultimi devo ammettere di aver subìto un evidente cambiamento nello stile -sempre riconoscibile, ma decisamente più maturo- nonostante questo spero che la storia possa piacervi e tenervi compagnia. Proprio come questa ha fatto con me lungo tutti questi anni prima della scritta "fine". Aggiornerò una volta a settimana, salvo imprevisi, impegni e così via.
Grazie per l'attenzione e...buona lettura.






Primo Capitolo



“Sto cadendo per sempre ho bisogno di fermare tutto sto andando giù
oscurando e mescolando la verità e le bugie
così non so cosa è vero e cosa no confondendo sempre i miei pensieri
così non posso avere fiducia ancora in me stessa.”


Going Under- Evanescence







Nella penisola della Gran Bretagna, oltre a delle perpetue nubi ed oltre a delle scroscianti ondate di pioggia, c’era la città di Londra. La popolare Londra, rifugio di mille persone era per me la città di nascita. Fu da quella città priva di significato e perennemente ombrosa che i miei morirono lasciandomi allo sbando in casa di mia nonna, ormai ultrasessantenne, e unica parente che avevo. Questo insignificante dettaglio non sfuggì alla legge, essendo minorenne, dovevo per forza alloggiare in qualche posto pronta ad essere tutelata da qualcuno. Per questo il martedì dell’anno del mio sedicesimo compleanno dovetti abbandonare tutto ciò che avevo e recarmi nel prestigioso, e alquanto terrificante, collegio del nord di Londra. Avevo indossato un maglione a collo alto bianco abbinato a dei jeans sbiaditi, e viaggiavo nell’auto della signorina Williams, una donna piuttosto spigliata e professionale. Sembrava veramente aver preso a cuore la mia situazione; in fondo, sfido chiunque abbia un briciolo di sensibilità ad essere indifferente alla mia struggente storia. Mentre viaggiavamo fissavo il mio bagagliaio ripensando all’ultima volta che ero stata davvero con i miei. Fu come gettare uno sguardo sulla vita di una sconosciuta, non riuscendo ad afferrare frammenti di felicità e condivisione tipici di una famiglia serena. Non che la mia non lo fosse, ma, i miei genitori erano persone alquanto distratte, alquanto…assenti. Spesso si allontanavano per giorni incalcolabili per poi tornare come se nulla fosse, schivi e con i volti tirati. Impiegavano tanto tempo, poi, per ristabilire un atteggiamento normale, rilassato. Credo che nella nostra famiglia ci fosse un tacito accordo, una regola sociale non scritta che vigeva di non accennar a quelle assenze a dir poco incomprensibili. Non mi stava bene, affatto, ma era anche vero che il mio atteggiamento si modellava a quello di mia nonna, così imitavo il suo placido e apparente stato di accettazione.
Dei miei, a parte quei spaccati di vita non pienamente vissuti assieme, custodivo una foto di mia madre.
Mi somigliava molto, tant’è che le persone non mancavano mai di farmelo notare. Gli stessi occhi verdi con qualche chiazza di giallo, lo stesso colorito pallido, le stesse labbra rosee. Le mie però erano più grandi. L’immagine di mio padre che conservavo dentro di me cominciava a sbiadirsi poco a poco. Era un uomo distinto e ricordo con amarezza quanto fosse raro vederlo con il sorriso stampato sul volto. Lui mi concedeva ben poche carezze, ma tante raccomandazioni per il mio futuro.
I miei pensieri cessarono di colpo quando vidi la signorina Williams fissarmi dallo specchietto retrovisore.
-“Non avere quello sguardo triste, Emily. Comprendo che non dev’essere facile per te, né il massimo della gioia per una ragazza della tua età entrare in un collegio, ma è così che deve andare”, mi disse, con uno strano tremore nella voce. Guardai i suoi occhi color ghiaccio lucidarsi. Scossi la testa, piano.
-“Lo so, è quello che avrebbero voluto i miei genitori. Questa scelta sarebbe stata condivisa anche da loro”, risposi stringendomi nelle spalle, cercando di immaginare i loro volti.
La Williams sorrise ed entrò in un enorme cancello arrugginito, addentrandoci in un vialetto circondato dal verde. Il giardino che costeggiava il cortile su cui stavamo viaggiando era chiaramente curato, lo si poteva notare dalla tosatura al limite del maniacale dei cespugli e dall’assenza di foglie cadute. Anche i numerosi alberi che sfilavano rapidamente oltre i finestrini sembravano voler imitare quella perfezione tanto ricercata. Quando mi voltai in avanti vidi la struttura del collegio più reclamato da quel groviglio urbano chiamato Londra. Era gigantesco, scuro, cupo, terrorizzante ed estremamente riluttante. La sola idea di dover mettere piede lì dentro e di rimanerci per molto, molto tempo mi stava facendo rabbrividire. Le finestre erano grandi ma non mi sarei sorpresa di vederci qualche sbarra in stile carcere. L’enorme palazzo aveva di positivo che si affacciava sul bel giardino; in fondo non bisogna giudicare qualcosa solo dall’esterno, no?
La signorina Williams scese dalla macchina e mi invitò a seguirla. Con un groppone in gola che proprio non voleva saperne di sciogliersi, afferrai la mia valigia con un gesto incerto, sforzandomi di dire addio alla mia vita passata.
Girai intorno all’auto e finii di fianco alla Williams che era molto più alta di me e per qualche secondo mi sentii protetta avvolta dal suo chilometrico braccio. -“Ed ecco che siamo arrivate”, annunciò. Sembrava più agitata di me. Ci trascinammo verso il grande portone mentre i nostri passi facevano da marcia. Questo posto è davvero troppo silenzioso, pensai crollando nello sconforto.
Non dovemmo attendere molto dopo che la Williams bussò, perché la porta si aprì quasi immediatamente e davanti a noi comparve una donna possente, alta e dallo sguardo così glaciale che ebbi l’impressione di essere appena stata attraversata da una cortina di brina.
Indossava un lungo e ampio abito celeste, con le maniche a sbuffo che le donavano un’aria tragicamente teatrale, oltre che camuffare qualsiasi indizio potesse rilevare la sua età.
I lucidi capelli neri erano acconciati in uno chignon impeccabile; non appena vide la donna accanto a me il suo volto si squarciò in un sorriso.
-”Oh, Rebecca Williams. Quale onore?”, disse, e i suoi lineamenti delicati sembrarono improvvisamente tesi nel parlare, come se fosse controllata. Ergo, come se fosse progettata per la perfezione. Ed era proprio ciò che detestavo dei collegi. Questa ossessione di essere perfetti, impeccabili. Poi, come se si fosse ricordata in quel momento del perché della visita mi guardò, anzi, mi squadrò da capo a piedi. Mi sentii fortemente a disagio.
-”Emily Collins.”
Non seppi di preciso se fosse una domanda o una affermazione, nel dubbio annuii deglutendo. La Williams mi diede una leggera pacca di incoraggiamento sulla spalla.
-”Io sono Miss Delacour, e sono la preside di questo istituto. Sei la benvenuta e spero ti troverai bene qui durante la tua permanenza”, mi disse tendendo la mano e, non appena gliela strinsi, mi passò un brivido lungo la schiena. La sua stretta era di un freddo inspiegabile e per quanto fosse cupa Londra quel giorno c’era addirittura uno spiraglio di sole. Sembrava come afferrare del marmo o del ghiaccio.
Non appena lasciai cadere la mia mano dalla sua, questa ci fece un garbato cenno per invitarci ad entrare e -per fortuna, constatai- l’interno era più presentabile dell‘esterno: il primo dettaglio che mi saltò agli occhi fu la lunga scalinata che si estendeva per bene quattro piano, in un secondo momento delle grandi porte chiuse, il tutto, confinato in un enorme atrio con un tappeto rosso fuoco ad abbellire il tutto. O perlomeno ad alleggerire il clima lugubre.
Sulle pareti grigie c’erano pochi quadri, tutti raffiguravano qualche avvenimento storico di cui non riuscivo ad affiancare delle date. Mentre la preside e la Williams parlavano della mia permanenza nel collegio, decisi di farmi un breve giretto là attorno tanto per cominciare a farmi un’idea su quella che sarebbe stata la mia casa. Quando mi affiancai alla lunga scalinata, udii dei scricchiolii provenire dal piano superiore accompagnati da alcuni insoliti risolini. Mi affacciai allungando il collo verso l’alto e nello stesso momento fecero capolino tre ragazze.
-“Tu devi essere la ragazza nuova. Giusto?”, squittì una biondina sporgendosi.
-“Si. Sono io, Emily Collins”, risposi senza troppa enfasi.
-“Ma che bel maglione”, aggiunse poi, ridacchiando. Le altre due ragazze si unirono a lei.
-“Cosa ha che non va il mio maglione?”, sbottai innervosita tirandomi un lembo, -“ e tu? Pensi di essere vestita meglio?”, la incalzai con un tono ancora irritato. Stavolta rise di gola e poi, alzandosi dallo scalino, fece un giro su se stessa.
-“Questa, cara Emily, è la divisa del collegio. Per tua informazione la dovrai indossare anche tu”, mi informò. E ad un tratto impallidii. La divisa era lunga fino alle ginocchia, rigida, grigia, senza ombra di colore, fatta eccezione per la camicetta bianca che fuoriusciva dal pullover.
-“Non cominciare a spaventarla Camille”, s’intromise una voce con un pizzico di sarcasmo alle mie spalle. Mi voltai: era una ragazza dai capelli color caramello, legati in una coda alta, alcuni ciuffi ribelli le cadevano sulle guance rosee e i suoi occhi,-quasi dello stesso colore dei capelli-, sembravano... tristi.
-“Tu devi essere la nuova arrivata. Piacere io sono Jamie”, mi strinse la mano con forza e me la lasciò subito per reggere i libri che aveva schiacciati al petto. Tra le quattro ragazze che erano nel mio campo visivo lei, Jamie, era l’unica che aveva un certo portamento.
-“Voi! Cos’è tutta questa confusione? Tornate nelle vostre stanze, subito!”, urlò la Delacour facendo sobbalzare le ragazze sulla scalinata, che non se lo fecero ripetere due volte.
-“Ad ogni modo, è stato aggiunto un letto proprio accanto al mio, e dev’essere senza ombra di dubbio il tuo. Ci vediamo al secondo piano, Emily”, mi sussurrò Jamie come per rassicurarmi e subito seguì le altre che erano si erano già materializzate al primo piano. Notai che la Delacour prediligeva un certo clima di terrore. Come pecore, infatti, al richiamo del pastore, le ragazze si erano eclissate.
I tacchi appuntiti della Williams che si avvicinavano mi costrinsero a voltarmi; senza aver avuto il tempo di vedere le sue braccia viaggiare verso di me, mi ritrovai stretta in un abbraccio.
-“Stammi bene, Emily.” Nella sua voce c’era una strana sfumatura che non riuscii a decifrare ed ebbi come l’impressione che i suoi occhi volessero dirmi qualcosa.
-“Non si preoccupi. Me la caverò”, contraccambiai abbozzando un sorriso.
Lei annuì per poi darmi le spalle di colpo; attraversò la distanza che la separava dall’uscita e sparì, senza nemmeno degnare di uno sguardo la preside.
Non appena la grande porta si richiuse, avvertii abbattersi un senso di solitudine: sapevo che chiudendo quella porta si sarebbe chiuso anche il mio passato, e sospirando dovetti ammettere a me stessa che in un certo senso la mia vita era giunta davvero in basso. Mi guardai di nuovo intorno chiedendomi se mai mi sarei abituata a tutto questo. Troppo grigio e nero, troppo silenzio, troppa autorità. Istintivamente mi venne da guardare la Delacour che pareva mi stesse studiando come per fare delle valutazioni.
-“Signorina Collins”, ruppe il silenzio avvicinandosi con calcolata lentezza,-“Vado a prendere la divisa che dovrai indossare, una volta presa potrai andarti a cambiare e a disfare le tue valigie nel dormitorio.”
Quelle parole mi fecero stringere il cuore. La divisa. Oddio. Annuii e mi trascinai sul divano color prugna. Mi accomodai appoggiando la testa sullo schienale seguendo con gli occhi l’intreccio delle scale.
Cercai di reprimere una parte di me che, furibonda, non aveva intenzione di affiancare la parola “casa” a quel collegio sinistro.
Dopo nemmeno un minuto la Delacour a passi felpati si diresse verso di me con ciò che doveva consegnarmi. Scattai sull’attenti e porsi le mani in avanti, lei fece lo stesso e mi fissò. Anche io la guardai cercando di decifrare il suo sguardo enigmatico. Con tutta la buona volontà io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
-“Tutto bene, signorina Collins?”, mi chiese, infine. Ma più che una domanda mi sembrava un ordine. Annuii e distolsi gli occhi dai suoi cercando di formulare qualcosa di sensato.
-“Benissimo, sono solo molto stanca”, mentii per metà. In realtà ero stanca ma non così tanto da poter giustificare lo stato di ipnosi in sembravo caduta. Forse perché era incredibilmente e disumanamente bella, a guardarla bene. La preside sorrise e, incredula dal fatto che lo sapesse fare, sentii i miei nervi leggermente più rilassati. Una volta per tutte afferrai la divisa, scrutandola nei suoi ricami invisibili.
-“Se solo ci fosse qualcosa di colorato...”, bofonchiai tra me.
-“E’ severamente vietato ornarla o modificarla signorina Collins”, mi puntualizzò la preside, che mi aveva ascoltata. Se non fosse stato per la sua voce naturalmente greve direi che avesse pronunciato il mio cognome con disprezzo.
-“Non ne avevo intenzione”, risposi sorridendo. Oh, si che ne avevo intenzione. Lei sospirò.
-“Certo. Ora raggiungi le altre in camera, al secondo piano dove ti abbiamo aggiunto un letto, e preparati in fretta: tra poco sarà pronta la cena e non si accettano ritardi o scuse dell’ultimo momento. Comincerai a capire pian piano che in questo collegio ci sono delle regole e degli orari da seguire e rispettare quotidianamente.”
-“D’accordo”, assentii cercando di mostrarmi il più predisposta possibile.
Mentre con una mano tenevo l’indumento con l’altra caricai la valigia e mi diressi verso le scale. Non appena ne salii due provocai degli scricchiolii degni di un film horror.
-”Mamma mia...”, mormorai arrivata al primo piano.
Un panorama di porte chiuse si presentò dinanzi i miei occhi sempre più delusi, con le maniglie arrugginite che sfilavano fino a sparire dalla mia vista verso un corridoio buio e apparentemente molto lungo. Con buone probabilità seguire quel sentiero tenebroso e silenzioso mi avrebbe condotta dall’altro lato del convitto ma –sapete una cosa?- non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello ispezionarlo. Così continuai la mia scalata verso il secondo piano. Una volta arrivata, ad attendermi, non trovai uno scenario differente da quello che mi ero appena lasciata alle spalle; tutt’altro: lunghe porte chiuse si diradavano in due file opposte e, proprio un attimo prima di cadere vittima di un attacco di panico nel vedere tutto rigorosamente uguale, una porta sulla destra si dischiuse e fece capolino Jamie.
Lasciai andare un sospiro di gratitudine nell’istante in cui la ragazza, raggiante, spalancò la porta.
-“Eccoti finalmente, Miss Delacour ti aveva presa in ostaggio? Entra.”
Già adoravo quella ragazza.
-“Non sarà il massimo ma ti ci abituerai”, premise e mi sembrò di sprofondare in un incubo ancora peggiore. Nella stanza c’erano nove letti tra cui la biondina presuntuosa di prima, le sue accompagnatrici di presunzione, e altre ragazze che sembravano, di primo impatto, piuttosto amichevoli.
Jamie rimaneva comunque la mia preferita.
-“Oh, ecco la novellina. Vedo che anche tu hai una divisa.” Camille, la bionda, stava per procurarsi un posto d’onore nella mia lista nera. Lanciai un’occhiata di esasperazione a Jamie, che a sua volta alzò gli occhi al cielo e la ignorò. Feci lo stesso. Credevo di aver già capito il soggetto. In brevissimo tempo la mia “guida” mi fece fare il giro della stanza presentandomi a tutte, e ognuna di loro sembrava non vedesse un viso nuovo da tanto tempo. E forse avevo ragione nel pensarlo. Naturalmente, essendomi presentata a tutte, per educazione dovevo riservare qualche dose di energia e pazienza anche a Camille.
-”Emily Collins, anche se lo sai. Piacere di conoscerti”, farfugliai offrendole la mano.
-“Camille Leeighton.”, rispose svogliatamente e anziché stringermi la mano si limitò a guardarla. La ritrassi all’istante.
Jamie schioccò la lingua e afferrandomi per un braccio mi fece voltare.
-“Bene, finite le presentazioni ti faccio vedere il tuo letto: è proprio accanto al mio”, mi informò e per mia fortuna era anche lontano da quello della biondina, il quale era stato posizionato vicino alla porta. Posai la valigia sul materasso e prima di cominciare a sistemarla mi sedetti contemplando la stanza. Non era poi così malaccio. Era la classica camera da letto dei collegi che si vede anche nei film. Il letto per fortuna sembrava confortevole. E piazzato di fronte alla finestra verdastra dove si poteva scorgere tutta quella distesa di verde, beh, sembrava il massimo.
Le altre ragazze continuarono ad osservarmi curiose, come se fossi un fenomeno da baraccone, ma comunque lasciarono che disfacessi la mia valigia da sola. Chissà per quanto tempo ancora sarebbe durato tutto questo, questi sguardi. Lanciai un ennesimo sospiro. In realtà avevo sperato che le stanze fossero state singole, così avrei potuto avere il tempo e la privacy per avvilirmi e lasciarmi andare ad un pianto liberatorio, se mai ne avessi avuto bisogno. Ma con tutto quel gran numero di alunne sarebbe stato impossibile da organizzare. Di sicuro avrei ricavato qualche momento per me, come facevo quando ero a casa di mia nonna. Lei non mi aveva mai fatto mancare niente e così, dopo un anno e mezzo, decisi di rimboccarmi le maniche: lavavo, pulivo e cucinavo in modo di ricompensarla per essersi presa cura di me dopo che tutto e tutti mi avevano abbandonata. La mia vita familiare era una disgrazia continua: avevo pochi parenti e tutti se ne erano andati. Sembra quasi impossibile da credere ma è così. Di amici neanche a parlarne, ne avevo due di cui persi le tracce da tempo: Eric, il biondissimo Eric, era il mio migliore amico; con lui avevo un bel rapporto e aveva preso, per un periodo, una cotta per me. Carino e gentile com’era fu davvero difficile rifiutare la sua corte spudorata, ma non ero proprio nell’ottica di rovinare un’amicizia così profonda. E per un certo senso feci la cosa giusta. Se mi fossi innamorata seriamente di lui (cosa che non mi è mai successa), avrei sofferto come una pazza nel vederlo partire per la Svizzera con la sua numerosa famiglia. Poi c’era Marissa che abitava a due isolati da casa mia. Una vera comodità visto che con lei andavo molto d’accordo, specialmente per due motivi principali: il primo, sapeva rimanere in silenzio quando era il caso, e sapeva confortarmi con le sue strampalate idee nei momenti di massima afflizione. Secondo, aveva una vita simile alla mia. Anche lei soffriva per l’assenza sormontale dei suoi genitori che per un motivo o l’altro non c’erano mai. Andammo d’amore e d’accordo quando, dopo un mese dal trasferimento di Eric (una disgrazia per entrambe), anche lei se ne andò da Londra. Motivo? I suoi restarono due settimane insieme e finirono con il tirarsi i piatti addosso, così la madre chiese la separazione portandosi con sé Marissa in una destinazione a me ignota. E anche di lei nessuna traccia da più di un anno. Quei pensieri mi incupirono facendomi sprofondare nel letto. La stanchezza del viaggio cominciava a farsi sentire e notai quanto fossero annodati i miei capelli. Erano lunghissimi. Con il sottofondo dei dialoghi delle mie nuove compagne rovistai nella valigia per cercare la mia spazzola rosa. Trovandola mi adoperai per sciogliere i nodi.
-“I tuoi capelli sono bellissimi”, commentò Jamie in tono di adorazione. Si sedette accanto a me osservandomi mentre mi pettinavo.
-“Grazie”, risposi timida, distraendomi dai miei pensieri.
Percepii qualcuna farle il verso, naturalmente anche senza girare il capo sapevo che si trattava di Camille.
-“Ehi cos’è quella porta là in fondo?”, chiesi non appena me ne accorsi. Jamie fece un ghigno.
-“E’ il nostro bagno. La mattina ci alziamo e ci andiamo a lavare lì dentro. È abbastanza grande, ci sono tre docce, vari lavandini e una lavatrice. A turno ci occupiamo di fare il bucato per tutte. Poi scendiamo a fare colazione e infine ci rechiamo a lezione. A proposito dopo devo darti il foglietto delle varie materie giornaliere ed extra. Li ho preparati non appena ci hanno informato di un nuovo arrivo.”, mi spiegò andando a scompigliare un po’ di fogli nel suo baule disordinato. Ognuna di noi ne aveva uno di fronte al letto. Ripresi a passarmi la spazzola, svogliatamente. Una ragazza dai capelli corvini si sedette accanto a me, con un guizzò curioso nei grandi occhi nocciola. Non mi ricordavo il nome, nonostante me l’avesse detto un istante prima.
-“Ciao”, disse.
-“Scusa potresti rammentarmi il tuo nome?”, chiesi goffamente. La ragazza rise scuotendo la testa, poi si ricompose.
-“Non preoccuparti imparerai prima o poi. Anche io sono nuova, sono arrivata a Settembre, tre mesi prima di te.” Forse era il mio orecchio critico o forse non mi sbagliavo, ma, nella sua voce c’era un filo di amarezza. Inspirò lanciando un’occhiata fuori alla finestra.
-“Comunque sono Nicole, ma puoi chiamarmi Nic.”, precisò con un sorriso.
-“E tu puoi chiamarmi Em”, ricambiai. Alle nostre spalle spuntò Jamie con la lista delle lezioni per me che dovevo seguire obbligatoriamente, l’afferrai ma neanche la guardai. Se proprio dovevo rovinarmi la serata avrei aspettato il momento di andare a letto.
-“Ahi, Jamie ma sei impazzita? Sei piccoletta ma pesi come un bisonte!”, sbottò Nic sobbalzando giù dal letto. Il suo corpo esile e slanciato sembrava dover cadere a pezzi da un momento all’altro. Le due cominciarono a tirarsi cuscini e scherzare su qualche fatto accaduto il giorno prima. Io ne approfittai per infilarmi la divisa e tutto d’un tratto il mio umore calò a picco. Ma lo sbalzo non era solo dipeso dall’uniforme. Infatti sono sempre stata soggetta a questi bruschi cambiamenti; una volta mia nonna mi aveva persino minacciata di spedirmi da uno psicologo. Io per giustificarmi le rispondevo che era tipico della mia età. Ma non riuscivo mai a trovare qualche buona scusa per mentire a me stessa. Il fatto era che non entravo in sintonia con nessuno da tanto tempo e non perché non ci riuscivo, ma perché non ne avevo voglia. Ogni volta che mi affezionavo a una persona alla fine se ne andava e io rimanevo ancora una volta nel buio, a piangermi addosso con le mie paure. Basta! Sgomberai i pensieri cercando di lasciarmi qualche brandello di tranquillità interiore.
Pochi istanti dopo un tintinnio assordante, che invase la stanza intera, mi fece allarme inutilmente. Come tutte sapevano era la campana che annunciava la cena, mi sentii un’emerita idiota dopo aver gridato. -“Ops non ti avevo avvisato del suono assordante della campanella”, ridacchiò Jamie mordendosi il labbro divertita. Alzai un sopracciglio.
-“”Tu dici?”
Quando aprimmo la porta fui travolta da una folla di alunne, apparentemente tutte uguali, che scendevano le scale rumorosamente. Alcune mi lanciavano delle occhiate furtive, di sicuro si stavano chiedendo chi fosse questa nuova faccia. Non ci diedi troppo peso e mi attaccai al braccio di Jamie per non finire dall’altra parte del collegio come una ritardata. Arrivate in sala ognuna si sedette nei rispettivi tavoli. La stanza era enorme, una semplice mensa scolastica moltiplicata per cento. Alla sinistra dei tavoli di quercia c’era un lungo banchetto occupato dai professori e la preside. La Delacour mi lanciò inconfondibilmente un’occhiataccia. Aggrottai le sopracciglia. Seguii i passi delle mie compagne di stanza e la preside non mi staccò gli occhi di dosso, fin quando una professoressa riccioluta non le rivolse la parola. Forse era una mia impressione ma quella donna aveva delle crisi di personalità: un attimo prima sembrava cordiale e gentile (senza esagerare), un attimo dopo, invece, sembrava di aver a che fare con una persona minacciosa e inquietante. Quegli sbalzi si manifestavano sul suo viso in una maniera incredibile.
Rabbrividii mettendomi a sedere tra Nic e Jamie, decidendo che quella donna e il suo sguardo dovevano essere gli ultimi dei miei pensieri, altrimenti sarei impazzita. Ahimé, proprio davanti al mio posto era seduta Camille. I suoi occhi celesti erano sempre occupati a scrutarmi. Ciò mi irritava ma facevo di tutto per ignorarla.
-“Forse non sei venuta nel giorno migliore per quanto riguarda il cibo. Sempre che ci sia un giorno migliore che riguardi il cibo”, mormorò Nicole otturandosi il naso. Tanto ero stanca che non sentii il benché minimo odore ma la poltiglia marrone nel piatto mi fece chiudere lo stomaco. Si, era marrone... azzarderei.
-“Se stai pensando a cosa sia, beh, oggi è martedì quindi dovrebbero essere polpette”, commentò Jamie vedendo il mio viso perplesso.
-“O qualcosa di molto somigliante”, aggiunse Nic sollevandone una. I loro stomaci dovevano essere più che abituati al cibo del collegio. Conoscendo il mio sapevo che non sarebbe stata un’impresa facile. Armandomi di una buona dose di coraggio cominciai a mangiare. Tra voci sommesse e silenzi fatti di versi di disgusto, mi ritrovai con il piatto semi pulito, con lo stomaco giunto al limite del consentito. -“Che fai non finisci?”, mi domandò Jamie come se avessi commesso chissà quale reato. Lei aveva consumato il suo pasto da un pezzo, sicura che la velocità adottata dipendeva dal fatto che le permetteva di non avvertire il saporaccio delle polpette.
-“Non ne posso più”, mi lamentai rimescolando la forchetta meditabonda nel sugo.
-“Potrei rigettare da un momento all’altro”, confessai sincera, tanto per far rendere il concetto al meglio.
-“Disgustoso”, commentò Camille osservando il mio piatto. Sbuffai.
Nicole si scambiò con Jamie un’occhiata di sincera apprensione.
-“Non hai mai sentito parlare delle regole ferree e delle abitudini di questo collegio vero?”
-“No”, balbettai. Avrei dovuto? Chiesi a me stessa.
-“Il piatto deve essere pulito. È una delle regole principali. La Delacour è un tipo di altri tempi nel vero senso della parola”, continuò Jamie facendomi pressione con i suoi occhi caramello spalancati. Mi voltai confusa verso Nicole, che non era da meno.
-“I metodi degli altri collegi possono essere moderni e considerati adeguati ma... qui è tutta un’altra storia.”
-“Ovvero?”
-“La traduzione di tutto questo è che devi finire le polpette se non vuoi cacciarti nei guai, Collins. Non ci vuole un genio per capirlo”, si intromise Camille tagliando corto.
Ancora non riuscivo ad afferrare i loro messaggi nascosti. Di che razza di metodi parlavano? Con una mano scansai il piatto.
-“Non ce la faccio, ragazze.”
-”Tanto non c’è più tempo! La Delacour sta facendo il giro dei tavoli. Tieni, nascondi le polpette”, mi consigliò frettolosamente Jamie.
Mi passò un fazzoletto con delle fantasie delicate ai bordi, lo afferrai e ci infilai il cibo. Premetti la prima polpetta in modo di ficcare dentro anche le altre. La Delacour era solamente ad un tavolo dal nostro.
-“Stoppati, stoppati”, esclamò Nic dandomi una gomitata per avvisarmi. Il fazzolettino ormai inzuppato mi scivolò dalle mani e rotolò a terra attirando dannatamente l’attenzione della preside. Feci per recuperarlo ma me ne pentii all’istante.
La preside con uno scatto felino si posizionò di fronte a me, schiacciando con un piede la poltiglia avvolta. Qualcuno alle mie spalle deglutì.
-“E’ andata bene la cena, signorina Collins?” E di nuovo mi sembrò di sentire disprezzo nel pronunciare il mio cognome. Mi morsi istintivamente il labbro, altro gesto di cui mi pentii.
-“Dall’espressione dire proprio di no”, concluse con tono circospetto. Scossi la testa come per cancellare il mio ultimo gesto. Camille tossì fastidiosamente facendo voltare sia me che la preside. Qualcosa nel suo sguardo mi fece intuire che era proprio il suo intento.
-”Miss Delacour, ma... lì per terra, sotto i suoi piedi c’è... Umm... ma che cosa è?”, chiese in modo tanto teatrale che riuscii a sentirmi in imbarazzo per lei.
Nel giro di due secondi tutte le presenti in stanza si voltarono.
La Delacour si chinò e si affrettò a raccogliere il fazzolettino con le punte delle dita pallide e lunghe.
-”Ma che cosa è questo schifo?”, disse arricciando la bocca. In quel momento desiderai che il pavimento si aprisse per farmi sprofondare sottoterra. Camille parve perfidamente divertita, e non so cosa mi trattenne nel non prenderla a schiaffi.
Era ora di concludere quel teatrino; dissi:
-“E’...”
-“Mio.”
Mi voltai di scatto. La voce tremante di Jamie sopraggiunse la mia. La guardai sgranando la bocca. Non so cosa avesse intenzione di fare ma dovevo fermarla. Perché prendersi la colpa al posto mio? Azzardai un passo in avanti ma Nicole mi strattonò per il lembo della divisa facendomi atterrare bruscamente sulla sedia. Mi azzittii.
-“Ah... Jamie Sandford”, sbiascicò la Delacour come se fosse stata presa in contropiede.
-“Veramente...”
-”Camille, stanne fuori! Mi dispiace Miss Delacour ma non sto molto bene e non volevo farle vedere che avevo lasciato del cibo nel piatto. Me ne assumo tutte le responsabilità”, disse solenne e talmente convincente che quasi convinse anche me. La preside scosse la testa in avanti e indietro pietrificandola con lo sguardo, i suoi occhi erano diventati quasi bianchi. Mi scappò un gemito.
-”Detto ciò, a dopo nel mio ufficio Jamie Sandford. Da te non mi sarei mai aspettata una tale mancanza di rispetto.”
Mi concesse un’ultima occhiata e poi, con ritrovando un contegno, passò all’ispezione degli altri tavoli.
Guardai Jamie, confusa, intontita e anche un po’ arrabbiata.
-“Sei impazzita, vero?”, domandò Camille con aria strafottente. Jamie la trafisse con lo sguardo.
-“E’ nuova. È arrivata oggi. So cosa si prova, tu no, vero?”, scandì tra i denti.
Le due si scambiarono una lunga e indecifrabile occhiata, alla fine Camille cedette e spostò il suo sguardo altrove. Ritornai con l’attenzione verso la mia eroina.
-“Jamie”, mormorai rammaricata, -“Non dovevi. Ci vado io in ufficio dalla Delacour”, mi imposi con un buco allo stomaco. Ma Jamie non era affatto decisa ad arrendersi e mi inchiodò con una occhiata; quando parlò fu molto eloquente:
-“Emily dopo cena fila subito in camera, senza storie e poi ti spiego. Ora non puoi capire e presentarti nel suo studio peggiorerebbe solo la situazione ormai”, scandì parola per parola perforandomi le orecchie con il suo tono basso. Deglutii rumorosamente.
-“Va... Va bene.” Non obiettai e stetti in silenzio. La tensione che c’era su quel tavolo era palpabile, eppure non riuscivo a capire il motivo reale.
Il problema era insito nel collegio stesso, avvolto nel mistero in tutto. I miei pensieri vennero bruscamente interrotti dal suono nasale della campanella; come felini le ragazze balzarono giù dalla sedia e in ordine sparso si affrettarono a raggiungere i dormitori. Nicole mi prese per il braccio e non mi permise di rimanere con Jamie, che era rimasta seduta immobile.
-“Si può sapere che succede? Il vostro comportamento è anormale!”, borbottai una volta entrata in camera.
-“Te lo spiego io Collins. Ma tanto tra poco lo vedrai”, sghignazzò Camille scuotendo la folta chioma dorata. E le sue parole non fecero che insospettirmi e rabbrividire. Il comportamento delle presenti in stanza non era naturale, non parlavano, si limitavano a sussurrare e mi guardavano quasi con odio.
-“Camille se non chiudi quel becco questa volta non te la faccio passare liscia!” Nic si avventò contro la biondina che anziché essere spaventata dal tono furioso, rise. Che spavalda.
-“Ma che paura che ho. Collins dovrà venerare Jamie da oggi visto che rientrerà sanguinante.”
-“Sta’ zitta!”, urlò Nicole e a quel punto balzò addosso a Camille. Le altre si allarmarono e corsero verso loro due per dividerle. Io rimasi immobile con il cuore in gola. Le grida e le botte non andavano d’accordo nel mio piccolo mondo. Mi lasciai cadere su un letto alle mie spalle sperando che qualcuna di sangue freddo fermasse almeno una delle due.
-“Questa me la paghi, razza di idiota!”, ringhiò Camille che fu scaraventata dall’altra parte della stanza dal suo gruppetto di amiche. La diretta interessata alla minaccia si voltò dandole letteralmente le spalle. Subito fu circondata dalla maggior parte delle ragazze, me compresa.
-“Ma cosa voleva dire prima Camille?”, chiesi non badando alle imprecazioni che arrivavano alle mie spalle.
-“Emily puoi tacere un attimo? Tanto tutte sappiamo che è stata colpa tua, ho visto che lanciavi il fazzoletto con il cibo a terra”, mi accusò una riccia.
Nicole sbuffò e rispose strizzando gli occhi.
-“Cinthia per favore. Lei è arrivata solamente da poche ore, potevamo mandarla in castigo dalla Delacour? Il primo giorno? Non sa come è fatta e non sa i metodi e i meccanismi di questo collegio.”
-“L’avrebbe risparmiata.”
-“Non l’avrebbe fatto, invece. Proprio perché è nuova.” Una voce, che sembrò un dolce richiamo di qualche fata, interruppe la discussione tra le due ragazze, facendoci voltare in sincrono.
-”Jamie!”, dissero ad unisono. Vidi Camille sollevare le sopracciglia indifferenti, e le sue fedeli compagne,-di cui improvvisamente ricordavo i nomi, la moretta bassa e magrolina era Alice, la seconda dai tratti orientali si chiamava Mischa,- la guardavano con interesse moderato ma evidente.
-“Che ti ha detto?”, domandai con un filo di voce. Jamie aveva gli occhi lucidi come se avesse appena pianto, camminava curva e storceva la bocca ad ogni passo. Una reazione piuttosto esagerata per una lavata di capo, no? Che poi non era nemmeno rivolta a lei...
Ma i volti delle presenti e soprattutto di Jamie mi fecero intuire che c’era qualcosa che andava oltre ad una semplice ramanzina. A spezzare il silenzio pesante fu proprio la stessa Jamie.
-“Dai ragazze non mi guardate così. Non sono né la prima e nemmeno l’ultima... purtroppo.” Abbozzò un sorriso debole. Nicole schizzò dietro di lei scoprendole le spalle con un gesto quasi impercettibile. Impallidì visibilmente.
-“Ti ha fatto molto male?”, domandò arretrando. Le altre si spostarono intorno a lei e si concentrarono sulle sue spalle scoperte. A quel punto era il momento della verità, di capire, e ciondolai fino al fianco di Nicole.
E quasi non svenni.
Le spalle di Jamie, così piccole e fragili, avevano delle strisce tridimensionalmente rosse e intrecciate. Una goccia di sangue, addirittura, scendeva lungo la riga provocata dall’incurvatura della sua colonna. Strozzai un lamento agonizzante e sentii delle goccioline di sudore nascere sulla mia fronte. Non potevo crederci, non avrei mai pensato di dover assistere ad una scena così raccapricciante. Temevo di aver intuito cosa avesse provocato quei... quelle lacerazioni.
-“La Delacour è così. Lo sapete, ragazze. Emily”, si rivolse a me coprendosi le spalle offese. Non mi stupii di sentire la mia pelle accapponarsi.
-“Lei punisce frustando. Sono questi i suoi metodi e non possiamo farci nulla.”
Ahimè, avevo capito benissimo.
-“E’ terribile... non ho veramente parole”, sibilai. Jamie alzò le spalle facendo una smorfia di dolore. Cielo, nessuno può arrivare a questo punto, pensai nel terrore. Ma in che razza di posto mi avevano spedito? Fu il mio secondo pensiero. La Williams forse doveva informarsi meglio riguardo ai collegi di Londra. Scossi la testa e strizzai gli occhi come per cancellare l’immagine delle ferite di Jamie. Ma naturalmente non ci riuscii per colpa della testa che iniziò puntualmente a girare. Fin da piccola sono stata sensibile ad ogni tipo di ferita: cicatrici, croste, sangue. Specialmente quest’ultimo che nelle mie tempie pulsava più del normale.
-“Cosa hai Emily? Diamine se sei sbiancata”, udii a malapena una voce che non riconobbi.
-“Com’è melodrammatica, mica ci è andata lei a prendere la punizione”, seguì una voce che associai al volto perfido di Camille. Non volevo sprecare le mie ultime energie pensando a quanto fosse irritante.
-“Perché non ci risponde?”, balbettò qualcun’altra.
-“Sto bene”, sussurrai riaprendo gli occhi. Ricominciai ad avere una visone più nitida e lasciai andare un sospiro.
-“Ho avuto solo un mancamento”, le rassicuri, trascinandomi fino al letto buttandomici sopra, cercando di centrarlo. Non sembrava più nemmeno tanto comodo.
-“Un momento, ascoltatemi tutte.”
Che altro c’è?
Una ragazza alta, scura di carnagione e dai capelli corti, richiamò l’attenzione delle presenti.
-“Credo sia ora di passare oltre. E ragazze, sono le dieci non vorrei fare la pignola ma domani mattina dovremo recarci alla chiesa in centro. Che ne dite di spegnere le luci e dormire?”, suggerì con molta convinzione. Tutte con un cenno del capo annuirono in silenzio, pronte a riposare. Riprendendomi totalmente (almeno credevo) mi andai sciacquare il viso e mi spazzolai per bene i capelli. Fui contenta di infilarmi il mio vecchio e comodo pigiama, l’unica cosa che ricordava casa mia; prima che mi venisse consegnata la veste come le altre. Spensi la lampada del mio comodino e mi infilai sotto le coperte portandomele fino alle tempie. Cercai veramente di dormire e di non pensare a nient’altro ma la cosa sembrava inevitabile. A caricare il mio umore nero fu lo sbuffo del vento continuo sulla finestra. Mentre le altre ronfavano tranquillamente, io aggiunsi il cuscino sulla mia testa. Tecnica che a casa di mia nonna funzionava.
-“Non riesci a dormire”, affermò una voce dal letto vicino. Jamie.
-“Neanche tu”, risposi con un soffio, senza voltarmi.
-“Mi fa male la schiena”, ridacchiò. Al suono della sua risatina mi sedetti sul letto e mi passai una mano tra i capelli.
-“Che coraggio. È solo colpa mia. Non so cosa dire in questa circostanza”, cincischiai cercando di trovare le parole adatte alla situazione. Ma forse, pensandoci bene, non ce ne erano. Jamie scosse la testa e, molto lentamente, in modo da non svegliare le altre, si sedette accanto a me.
-“Non doveva andare così. Sai, mi sono rispecchiata in te”, confessò socchiudendo gli occhi,-“una ragazza durante il mio primo anno ha fatto lo stesso per me, sai? La Delacour non l’ha punita con delle frustate ma togliendole i pasti per due giorni. A te avrebbe fatto conoscere subito le regole, conoscendola, e ti avrebbe punita più duramente; come però è accaduto a me. Però ormai è andata, okay? Non parliamone più”, disse tutto d’un fiato.
Non seppi decidere se il suo altruismo fosse lodevole o esagerato.
Cominciai a attorcigliarmi un dito in una ciocca di capelli, quando poi Jamie mi prese la mano.
-“Vorresti scappare da qui, eh?” La sua domanda poteva benissimo essere un’affermazione per me.
-“Non mi aspettavo questi trattamenti. Sono atroci”, sussurrai e forse avevo trovato il termine giusto. Jamie stava per darmi ragione quando sentimmo Nicole mugugnare nel sonno. Le sue lenzuola erano tutte sparse, sia sul letto che per terra; accorgendosene si svegliò.
-“Mmm... Se è già mattina mi butto di sotto”, miagolò con la voce impastata di sonno. Vedendoci sveglie ci raggiunse, imponendosi nel mezzo.
-“Di che parlate a quest’ora della notte?”, sussurrò accompagnando quelle parole con uno sbadiglio.
-“Indovina” Jamie la lasciò immaginare.
-“Ah”, fece, -“sei scioccata Em?”
Peggio.
-“Direi di sì”, risposi.
-“E ancora non hai sentito le strane leggende che si narrano qui”, disse fingendo di rabbrividire. Così facendo non fece che alimentare la mia voglia di evadere. Ci mancavano pure le leggende, adesso. -“Spiegati”, l’incoraggiai, credendo che nient’altro potesse sbigottirmi.
-“Perché non torni a dormire?”, bofonchiò Jamie alzando gli occhi al cielo. Nic sorrise divertita facendo cenno di no con la testa.
-“Vedi, è strano come le persone possano credere a certe cose. Leggende, appunto. Se così possono essere chiamate. Si, insomma si vocifera...”, si fermò, pensante. La sua pausa fu enfatizzata anche dal suo viso immerso nel racconto che stava per iniziare. Mi preparai a sentire il peggio.
Finalmente dopo poco parlò:
-“Il collegio è molto vecchio, ora non so dirti di preciso quanti anni abbia, ma la gente crede che sia appartenuto ad una stirpe di vampiri. Di conseguenza la Delacour è a stretto contatto con loro, essendo anche lei componente della stirpe” Lanciai un’occhiata a Jamie, che mi sorrise come per dimostrarmi la sua scarsa fiducia nelle parole di Nicole. Ritornai con lo sguardo su quest’ultima.
-“Ci sono alcune persone a differenza di altre”, e lanciò un’occhiata all’amica,-”che ci credono fermamente tanto di rinunciare ad iscrivere le proprie figlie qui. È una delle leggende popolari –dimenticate- di Londra. Ma alcuni abitanti se ne ricordano eccome.”
-“Sono solo stupidaggini”, sussurrò poi, Jamie. Non commentai.
-“Per quanto Jennifer Delacour sia spaventosa non è una giustificazione darle della vampira. Forse a volte può apparire come una donna di un’altra epoca, severa all’eccesso, ma... dai, vampiri!” All’ultima parola trattenne una risata. Nicole scosse la testa e si andò a sistemare nel suo letto, insonnolita.
-“Dì a Emily cosa disse la signora Boland e magari ne riparliamo domani.”
Jamie sbuffò adagiandosi anche lei sul suo letto e poi si rivolse a me, svogliatamente.
-“La signora Boland, -la donna che mi ha accolto in casa sua quando ero ancora in fasce-, prima di morire ha rivisto per caso la Delacour dopo averla persa di vista da non so quanto tempo. La conosceva e ogni tanto ci scambiava due chiacchiere in paese. Non che la preside frequentasse molto la vita giù in città. Comunque sia, giurò di averla trovata sempre uguale. Senza un’ombra di vecchiaia, né di stanchezza, nessuna ruga. Sempre uguale, insomma. Personalmente ho sempre creduto che mia madre fosse vittima della suggestione in cui è immerso il luogo”, disse con voce che metteva i brividi.
-“Perché i vampiri sono immortali, giusto?”, balbettai scettica delle mie parole. L’argomento mi stava interessando più del dovuto.
-“Esatto! Sono creature immortali!”, confermò l’altra. L’entusiasmo di Nicole era quasi infantile.
-“C’è anche un’altra cosa che non abbiamo detto”, puntualizzò Jamie, quasi sorpresa che l’amica si fosse dimenticata di un dettaglio fondamentale.
-“La leggenda inoltre narra che la famiglia della Delacour sia stata perseguitata da alcuni cacciatori molti secoli fa. E su un libro ormai andato perduto c’era una donna che le somigliava in una maniera impressionante. Da quando hanno incominciato a circolare queste voci il libro e le persone coinvolte sono scomparse. Molti sostengono che questo accadde in Inghilterra altri in Francia, il luogo di provenienza della nostra preside, e le voci si sono sperperate per tutta Londra al suo arrivo. Gli abitanti di questo piccolo paese sono parecchio influenzabili, come puoi vedere.”
E dopo quelle ultime parole lanciai un’occhiata di panico fuori alla finestra, constatando che aveva appena iniziato a piovere pesantemente. Quello scenario non fece altro che amplificare il racconto delle due, per questo mi scappò un brivido che alle mie nuove amiche non sfuggì.
-“Stai tremando. Hai paura, Emily?” La voce intrisa di divertimento e sbalordimento di Jamie mi fece voltare. Come potevo spiegarle che il mio brivido non era dipeso solo dalla storia? Cercai di essere il più convincente possibile.
-“No, tanto sono solo stupidaggini, giusto?”, risposi, ma la mia voce mi tradì. Jamie e Nicole risero beffarde.
-“Hai ragione. Comunque non ne parlare con nessuno. Non penso che siano ben accette queste chiacchiere, qui.” La guardai negli occhi non ancora padrona della mia espressione.
-“D’accordo”, sussurrai e mi lasciai scivolare giù nel letto.
-“Forse è meglio che dormiamo. Domani mattina ci dobbiamo svegliare prima del solito.”
-“Ma perché dobbiamo visitare una chiesa?”
-“In questo modo la Delacour e le altre professoresse decideranno dove stabilirci per cantare il giorno della vigilia di Natale”, mi spiegò Jamie accompagnando quelle parole con uno sbadiglio. Mi diedi una manata sulla fronte. Se c’era una cosa che odiavo era proprio cantare. Figuriamoci il giorno precedente al mio compleanno.
Mi coprii fino alle tempie e diedi la buonanotte alle mie due nuove amiche, che mi parve di sentirle già ronfare. Se mi sarei trovata in una situazione normale, di vita quotidiana, avrai già iniziato a sbraitare da tutte le parti. Ma dovevo controllare le mie emozioni se volevo sopravvivere. Un lato della mia mente credeva alle parole di Nicole, forse per via di ciò che era successo. Frustate. Davvero, davvero inquietante. Parliamoci chiaro, di vampiri non ne avevo mai saputo niente ma conoscevo una cosa che era saputa anche dai sassi: loro si cibavano di sangue umano, e come faceva la Delacour (se per ipotesi fosse realmente una creatura della notte), a stare in mezzo a così tante persone? Senza morderle? Eppure a cena mangiava cibo umano. Non che l’abbia vista masticare ed ingurgitare ma il suo piatto mi sembrava pieno. E se fosse stata una copertura?
Mi rigirai tra le coperte. Dovevo smetterla di fantasticare e crearmi delle paranoie infondate. Mi sentivo quasi ridicola a pensare all’esistenza dei vampiri nel ventunesimo secolo. Dovevo anche ammettere, però, che quel collegio era come se fosse una fetta del mondo abbandonata dal tempo. Mi ricacciai il cuscino sul viso e cercai di impedire al mio subconscio di far riaffiorare le parole di Nicole e Jamie nella mente. Quella notte, alla fine, riuscii ad addormentarmi solo dopo aver assistito alle ire implacabili della natura; quello che non sapevo era che il mattino successivo sarebbe stato solo l’inizio della mia odissea all’interno di quel collegio fuori dal mondo



*





La notte sembrava essere trascorsa velocemente. Fin troppo, per i miei gusti. Non appena misi piede sul pavimento mi stazionai di fronte alla finestra per controllare che tempo facesse fuori. Oltre il manto verde della vegetazione che contornava il collegio il sole era timidamente sepolto dietro una coltre di nuvole dense e scure. Sbuffai per poi sbadigliare in silenzio; nemmeno il cielo mi era complice per indirizzarmi una buona dose di buonumore, quella mattina.
A turno composto di quattro persone per volta andammo nel bagno a custodirci. La divisa sembrava più stretta e ancora più monotona del giorno precedente. Cercai di allargarla con tutta la forza che avevo ma l’urlo disumano di Camille, che mi ordinava di sbrigarmi, mi fece cessare ogni tentativo. Strofinandomi accuratamente i denti e pettinandomi i capelli, uscii dal bagno con qualche secondo di ritardo. Sicché fui fulminata dagli occhi di quest’ultima. Lottai contro me stessa per non farle una linguaccia e raggiunsi Nicole e Jamie. Perfettamente pronte e sveglie, mi attendevano sull’uscio della porta per rivestire il ruolo da Cicerone che si erano affibbiate tacitamente il giorno prima.
Volete sapere come andò la colazione? Né bene, né male: fu consumata nella massima tranquillità –forse perché mancava la rigida Delacour all’appello, o forse perché Camille era ancora abbastanza rintronata dal sonno da non trovare la forza per pungolarmi-; ad ogni modo, finito di mangiare, ci affrettammo ad infilarci i cappotti per uscire (il mio era bianco con un cappuccio eschimese, uguale al modello che sicuramente Melissa stava indossando dall’altro capo del mondo), dunque ci avviammo nel viale per raggiungere il centro, dove un paio di goccioline si abbatterono sul mio viso. Alcune ragazze, adoperate di buon senso, aprirono i loro ombrelli, altre come me si accontentarono del cappuccio. Jamie e Nicole mi spalleggiavano, una a destra e una sinistra. Colta da un improvviso momento di lucidità, intuii che quelle due ragazze sarebbero state le mie nuove migliore amiche.
Davanti a noi c’era una fila di collegiali che seguivano tutte la Delacour –la quale fece un’entrata in scena improvvisa- e un’altra professoressa bassa e riccioluta. Naturalmente mi sfuggiva il nome ma d’altro canto ricordai la materia che insegnava: storia. Come materia non mi dispiaceva, la mia preoccupazione più grande era la matematica. Logicamente non ci capivo niente, praticamente ero un fiasco. Sospirai, rassegnata.
Camminavo a testa bassa in modo che le gocce di pioggia -che cominciarono a scendere giù più velocemente e violentemente- non mi coprissero la visuale.
La strada si rivelò essere infinita e faticosa, tanto da sembrare di essere lì a pedalare da ore; tutta colpa del collegio che si trovava al limitare di Londra!
Raggiungere la chiesa senza buscarsi un raffreddore sarebbe stato un miracolo.
Tuttavia arrivammo sane, salve e abbastanza zuppe per una broncopolmonite, ma con un simpatico prete dall’aria benevola ad accoglierci. Questo strinse la mano alla Delacour in una sorta di riverenza, e poi ci fece entrare all’interno del sacro luogo intimandoci silenzio e rispetto.
La chiesa richiamava alla mia mente il gotico, aveva una struttura capace di incantarmi ma, al tempo stesso di inquietarmi. Quando entrammo lo sbalzo di temperatura fu notevole: da un freddo-umido sentito fin nelle ossa, ad un caldo sorprendentemente accogliente.
La professoressa e la preside fecero un breve appello per verificare se fossimo tutte e, quando la Delacour mi passò accanto, quasi non mi prese un colpo: i suoi occhi celesti erano iniettati di rosso, come sferzi d’acquerello. Prima che passasse oltre con lo sguardo sembrò trascorrere un’eternità; forse era una mia impressione ma su di me si era soffermata più del dovuto, procurandomi una serie di brividi che con il freddo non c’entravano proprio niente.
-“Ragazze, vi prego di prestare attenzione alla statuetta di cristallo dal valore inestimabile che il nostro istituto ha donato alla chiesa. Ammiratene la bellezza”, c’invitò la professoressa guidandoci verso un piccolo monumento a forma di angelo, con le braccine rivolte verso l’altro.
Tentai di creare una breccia in quel muro di persone e cappotti per permettere a me –con il mio metro e sessantasette di altezza- una visuale degna di chiamarsi visuale.
-“Aspettiamo che quelle davanti finiscano di fare le lecchine con la prof e poi andiamo a guardare noi”, suggerì Nicole continuando a borbottare a sfregarsi le mani per riscaldarsi.
-“Certe che si gela, eh?”, le domandai tanto per fare conversazione, voltandomi verso di lei.
Ma quando mi rispose le sue parole si persero nel vuoto, la mia attenzione si era già dirottata altrove.
Fu allora che mi accorsi della sua presenza, troppo appariscente per non farci caso. Un ragazzo era appoggiato con un fianco all’altare, come se fosse un pezzo immobiliare qualsiasi. Teneva lo sguardo basso, le braccia conserte e la gamba destra accavallata a quella sinistra.
I capelli erano di un delicato biondo cenere, spettinati e non del tutto asciutti; più che altro sembravano reduci da una corsa forsennata. Il dettaglio che più m’impressionò di quella bizzarra presenza era che, immobile e bianco com’era, poteva benissimo passare per una statua parcheggiata lì, in attesa di un posto più consono. Lasciai cadere lo sguardo oltre il giubbino aperto, il quale mostrava un maglietta e un corpo slanciato.
Dopo pochi istanti fui sicura che fosse vivo: tirò un sospiro. Il suo sguardo percorreva chissà quali ghirigori immaginari sul pavimento trasparente. Non potetti non domandarmi cosa ci facesse un ragazzo tutto solo in quel punto e con quello sguardo oltremodo sconsolato.
-“Emily, vieni a vedere la statuetta di cristallo prima che la spacco in testa a qualcuna”, m’invitò Nicole, che era riuscita ad aprire un varco per imbucarsi nella prima fila.
-“A-arrivo.”
Ancora incappucciata e imbambolata ritornai a fissare per un’ultima volta il ragazzo misterioso. Il suo sguardo, stavolta, guizzò fino a me e quasi non mi girò la testa. I suoi occhi erano bicolore, uno celeste e l’altro color rame. La sua bellezza era disumana quasi irreale. Sotto gli occhi aveva una sottile linea violacea molto intensa; le sue labbra appena socchiuse erano carnose da star male. Sul suo volto, d’improvviso, un tumulto di emozioni: sorpresa, angoscia, terrore, sbalordimento. Distolsi immediatamente lo sguardo, voltandomi fin troppo di scatto e-avvampando- abbassai la testa. Quasi correndo raggiunsi Jamie e il resto delle mie compagne. Rimasta attonita dalla sua avvenenza nemmeno feci caso alla statuetta di cristallo che tutte elogiavano.
-“Emily stai bene? Sei diventata incandescente; soffri così tanto i sbalzi di temperatura?”, mormorò Nic ole passandomi una mano sulla fronte. Scossi la testa scostandola.
-“Sto... bene. Ma chi è quello?”, domandai senza voltarmi, né indicare. Speravo che le due lo avessero già notato da sole, e invece sia Jamie che Nicole si guardarono intorno, curiose e spaesate.
-“Quello chi?”
-“Quel ragazzo sull’altare”, dissi e mi concessi un’altra occhiata, non trovandolo. Jamie aggrottò le sopracciglia.
Lo cercai con gli occhi, a destra e a sinistra, poi il tonfo della grande porta che si chiudeva mi fece intuire che se ne fosse appena andato.
-“Non c’è nessuno sull’altare, Emily. Sei sicura che…?”
-“Si, Jamie.” Non la lasciai terminare. Non potevo essermi immaginata una persona in modo così nitido e perfetto. Non poteva essere un’allucinazione anche se, come essa, era svanito.
-“Signorine per favore fate silenzio!”, ordinò la professoressa che con i suoi occhi scuri sporgenti sempre in agguato mi trasmetteva non poca ansia. Sapevo già che non saremo andate d’accordo.
Impalata con lo spartito delle canzoni in mano, cercai di cantare a voce bassa. Più che altro mimavo dei suoni con la bocca, visto che la professoressa aveva avuto l’accortezza di posizionarmi in prima fila. Questo fu dipeso dalla mia bassa statura; se fossi stata spedita nelle file anteriori sarebbe stato come cancellarmi dai canti, nessuno mi avrebbe vista. Ma per quello che me ne importava potevo benissimo rimanere chiusa in collegio. Sospirai e ripresi il ritornello. Continuammo così per non so quanto tempo, quando poi il prete ci invitò a seguire la messa e fummo divise in gruppetti tanto eravamo numerose. Alcune andarono dietro i banchi di legno, altre come me, sedute accanto all’altare. Alla mia sinistra trovai Alice, due teste più in là c’era Jamie. Era un posto abbastanza scomodo dove dovemmo stare: il marmo bianco era ghiacciato, talmente duro che la mia schiena gridò pietà, e non c’erano dei cuscinetti come ricordavo di trovare nella mia vecchia chiesa. D’un tratto mi rivenne in mente il giorno della mia prima comunione: ero impacciata nel mio vestitino bianco, e sui miei capelli lunghi c’era una vasta retina di rose bianche, sembravo uscita da un uovo di pasqua a farla breve. Per non parlare della lunghezza del vestito! Tre piedi più lungo di me. Infatti nel momento più importante della cerimonia, durante la comunione, inciampai e rotolai fino ai piedi del prete, ripresa da tutte le telecamere presenti dei genitori in chiesa. Ricordo il riso divertito e spensierato di mia madre che non mi risparmiò: passò il filmino in un cd e tutte le volte che poteva lo faceva vedere a qualche parente o amico. Credeva fosse una cosa bella, una cosa simpatica anche, ma invece era imbarazzante al punto giusto. Oh, mia madre. Dopo quell’avvenimento non ricordo nient’altro di rilevante che la sua morte improvvisa. Tutte le volte che concedevo alla mia coscienza questi ricordi mi veniva in mente sempre una domanda. Mi chiedevo se la mia vita fosse stata in qualche modo maledetta o cose simili... era davvero incredibile che tutti mi avessero lasciata sola al mondo. Tirai su col naso e chinai la testa fissando le punte delle mie ballerine. L’unica cosa di colorato che avevo a dispetto della divisa nera e rigida.
Verso l’ora di pranzo ritornammo al collegio. Ancora zuppe e fradice ci andammo a cambiare nelle rispettive stanze; nel corridoio si udivano commenti sulla mattinata, non tutti erano positivi. Non sapevo come biasimarle e mi diressi verso il mio baule di fronte al quale c’era il mio letto. Cercavo un asciugamano, ma quando l’aprii trovai dell’altro: il profumo dei miei vestiti puliti e destinati per sempre a rimanere chiusi mi inondò i polmoni. Era un aroma così familiare e buono che chiudere il baule fu quasi impossibile. Decisi però di non perdere tempo e di asciugarmi, altrimenti sarei arrivata tardi in sala pranzo dove la Delacour ci aspettava all’una. Scendendo le scale Camille mi urtò con una grazia degna di un elefante mandandomi a sbattere contro altre cinque ragazze, e non ebbe nemmeno il buonsenso di chiedermi scusa. Jamie mi sorrise rassegnata, Nic fece spallucce. Io scossi il capo. Prendendo posto non potei non accorgermi di alcuni volti che cominciavano ad incidersi nella mia testa. Ad esempio la ragazza dai capelli biondi legati, a due posti da me, si chiamava Lillian e veniva dalla Svizzera. Rideva sempre, aveva un gran senso dell’umorismo, e a quanto pare era lei il leader del suo gruppetto di amiche. Anna, la ragazza di fianco, era invece sua cugina da quello che avevo capito. Poi c’erano Susanne, Christine e molte altre. Naturalmente avevo sentito i loro nomi per caso e li avevo memorizzati, visto che a pranzo non c’era concesso di parlare, se non bisbigliare di nascosto. A riportarmi alla realtà fu il peso improvviso che ritrovai nel mio vassoio. La cuoca aveva riempito il mio piatto con una specie di minestra verde. Okay, era ufficiale. Il cibo non era il punto forte dell’istituto. Sorseggiai del succo dal cucchiaio non badando al sapore. Nel giro di tre sedie si voltarono tutte.
-“Fai un rumore fastidioso”, bisbigliò Nicole.
-“Oh.”
Avvampando di imbarazzo decisi di cambiare e metodo e bevvi direttamente dal piatto.
-“Signorina Collins, un po’ di contegno!”, mi rimproverò una voce disgustata. Quasi non mi strozzai e allontanai di fretta e furia il piatto dalla mia bocca. Lo posai sul tavolo, subito dopo aver visto con la coda dell’occhio la sagoma inconfondibile della Delacour. Mi voltai paonazza di vergogna e mugugnai qualcosa di incomprensibile anche a me stessa.
-“Scusi”, dissi poi, simulando quanto più rammarico possibile. La Delacour scosse la testa senza staccare i suoi occhi -ritornati di ghiaccio- dai miei, allarmati.
-“Contegno”, mi redarguì passando al tavolo accanto. Il mio cuore galoppava veloce mentre cercavo di ripetermi che non era successo niente. Assolutamente niente. Gli occhi perfidi di Camille mi guardavano divertiti, la fulminai all’istante e lei ritrasse lo sguardo, cominciando a sussurrare con la sua vicina.
-“Te la sei fatta sotto. Ce l’hai scritto in fronte”, scherzò Nicole precedendo la voce bassa di Jamie, che più o meno voleva fare la stessa battuta.
-“Oh, puoi dirlo forte”, risposi nascondendo l’agitazione.
-“Devi regolarti.” E più che un consiglio mi sembrò un rimprovero. Beh, avrei sicuramente seguito quella specie di consiglio, visto il mancato attacco cardiaco che per poco non mi prese.
Il resto della giornata non fu niente di eclatante ma nemmeno terribile come una parte di me temeva e aspettava. Trascorsi il tempo divisa tra un’aula a l’altra. Iniziai con l’inglese di cui l’insegnate era niente di meno che la Galdys, la riccia che ci aveva accompagnato in chiesa. Per come si era presentata quasi pareva minacciosa.
-“Sono la professoressa Galdys docente di storia, geografia e inglese. Passeremo molte ore insieme signorina Collins.” Si, questa era decisamente una minaccia.
Schierai un sorriso forzato, pur non nascondendo sul volto il rifiuto per le sue materie... o forse per lei?
-“Sto cercando il programma da darti. Tu nel frattempo puoi presentarti alla classe”, mi invitò mentre frugava in un cassetto scassato.
La maledetti interiormente per ciò che aveva appena pronunciato. Ora la colpa diventava sua e non delle materie. Non sapevo proprio cosa dire, non mi ero mai trovata ad esporre a qualcuno la mia noiosa vita. Era una di quelle situazioni in cui non vorresti mai capitare e quando ti accorgi di esserci dentro non puoi più scappare.
-“Ehm, allora... mi chiamo Emily Collins”, iniziai guardandomi intorno. Sentii dei mormorii e poi una voce più alta e acuta.
-“Si, fino a qui c’eravamo arrivate tutte.” Inutile dire a chi apparteneva. Strinsi i pugni e cercai di controllarmi.
-“Sono nata qui a Londra, in periferia e...” E non sapevo come appigliarmi alle parole. La professoressa sopraffatta dal mio silenzio mi lanciò un’occhiata riprendendo a parlare.
-“Bene. Ho trovato i moduli. Devi firmare gentilmente il programma così posso consegnarti i libri di testo”, mi disse porgendomi una biro nera. Annuii e firmai con estrema cura. La mia calligrafia è sempre stata disordinata o come diceva mia nonna a “ zampe di gallina”.
La mia dolce e innocua nonna. Chissà cosa stava facendo in quel momento, mentre sua nipote era intenta a rovinarsi la vita per bene.
-“Grazie. Puoi andare a sederti.”
Quelle parole furono il salvagente del momento. Mi accoccolai sulla sedia con i gomiti sul banco e le mani che sostenevano il mento. Quando la lezione iniziò sembrò che il tempo si fosse bloccato. Parole a mio rammarico percettibili entravano nella mia testa torturandomi come non mai. Era da tanto che non imparavo qualche nozione, dalla morte dei miei la scuola mi durò poco più che qualche mese, intenta di ricominciare l’anno seguente magari supportandomi con l’aiuto di un lavoretto part-time. Ma i miei piani fallirono e infatti eccomi qua.. con una professoressa alta quanto la cattedra, odiosa, che cercava di incoccarci la storia di Antonio Pio, come se non potevamo farne a meno. Lanciai un’occhiata disperata fuori dalla finestra e fui accecata da un riflesso argenteo. Strizzai gli occhi e li riaprii a fessura per focalizzare che cosa emanasse quel riflesso. Proprio di fronte al portico del collegio c’era una BMW Z4 Roadster. Una di quelle macchine che si vedono sulle copertine di motori. Una di quelle che puoi solo sognare. E non potei non chiedermi a chi potesse appartenere e cosa ci facesse qui un gioiello del genere. Questo collegio era così tetro... per non parlare delle crepe sul soffitto: prima o poi ci sarebbe crollato in testa, pensai per niente ottimista.
-“Signorina Collins!”, esordì all’improvviso la voce della professoressa. Quasi non sganciai un urlo. Ero veramente soprappensiero.
-“S- si?”, balbettai colta di sorpresa.
-“”Mi può rispondere alla domanda, anziché contemplare il soffitto?”, disse con un sorriso ingannevole. Averla sentita la domanda! Vidi la chioma caramello di Jamie voltarsi lentamente. Con una mano mi suggeriva qualcosa di incomprensibile. Aggrottai le sopracciglia e sparai il primo nome che aveva sentito durante tutta la lezione.
-“Antonino Pio”, sbiascicai, simulando convinzione.
Brutto tentativo. Le ragazze cominciarono a sghignazzare e la professoressa sbatté il registro sulla cattedra facendoci sobbalzare tutte, in sincrono.
-“Silenzio ragazze”, tuonò,-“dunque mi stai dicendo che il successore di Antonino Pio è... se stesso?”, continuò tanto per farmi imbarazzare. Abbassai lo sguardo ma riuscii con la coda dell’occhio a vedere un braccio sventolare in aria.
-“Il successore è Marco Aurelio”, precisò Camille, assumendo un’espressione saccente e lanciandomi un’occhiata di commiserazione.
-“Molte bene”, andò a confermare la Galdys voltandosi verso la lavagna per segnare i compiti.
Mi concessi di indirizzarle un versaccio che tanto non poteva cogliere, per poi scivolare lungo la sedia.
Quando la campanella suonò il termine di quella snervante lezione, fui la prima –seguita fedelmente da Jamie e Nicole- ad abbandonare l’aula.
Nicole borbottava qualcosa.
-“Quella Camille! Vuole sempre e dico sempre fare la figura della perfettina.”
Jamie che camminava mentre leggeva un libro tirò un sospiro come per dare ragione all’amica. Ed era esattamente così ma non volevo irritarmi troppo per colpa di quella biondina.
Mentre mentalmente elencavo ogni singola lezione che mi attendeva, qualcosa o meglio qualcuno, attirò la mia attenzione. Mi si bloccò il respiro e mi arrestai impalata al centro della sala principale. Nicole e Jamie non si accorsero che non stavo più al loro fianco, ma in quel momento poco mi importava. Incredibilmente pallido e disumanamente bello, il ragazzo che avevo visto durante la mattina in chiesa, era rivolto verso le scale impegnato, con mia grande sorpresa e sgomento, con la Delacour. Stavano discutendo ma non recepii le parole esatte, erano troppo distanti da dove mi trovavo. Improvvisamente mi ricordai che per raggiungere la prossima aula dovevo salire le scale, il che implicava passare dove c’erano loro.
-“Ti stai chiedendo chi è quel ragazzo vero?” La voce di Jamie mi giunse maliziosa e divertita. Anche Nicole si era avvicinata a me.
-“E’ lui il ragazzo che ho visto in chiesa oggi. Non avrei mai pensato di poterlo rivedere”, confessai. Sapevo benissimo che la mia espressione era incredula, tanto quanto immaginavo che un evento simile non poteva essere catalogato come una semplice e sorprendente coincidenza.
-“Non l’ho notato in chiesa. Comunque sia, lui è il figlio della Delacour, William. Da circa un mesetto vieni qui a giorni alterni per occuparsi del giardino insieme al signor Simus. Sai il giardino è immenso. Si estende per ettari fino a sconfinare con… okay, non t’interessa la flora del collegio”, dedusse Jamie, studiando la mia reazione.
Mi ci volle un minuto buono per digerire quelle parole.
-“Figlio della De- Delacour?”, sbottai, poi, a scoppio ritardato.
-“Esatto. È incredibile non è vero?”
-“Già.”
-“Abbiamo avuto anche noi la stessa reazione. Insomma, lui sembra un tipo così cordiale e gentile mentre la madre... beh, lei è la Delacour.”, mormorò Nicole. Non feci in tempo a commentare che sulla mia spalla sentii un dito picchiettare. Meccanicamente, mi voltai.
-“Collins.” Era Camille ed era piuttosto seccata, a giudicare da come storceva la bocca.
-“Che vuoi?”
-“Non so perché tu stia fissando William, e forse è meglio che non lo sappia. Ma voglio solo avvisarti di una piccola cosa.” Si zittì in modo studiato, teatrale. Ammetto che quell’aria ostile un po’ m’intimoriva, più che altro perché la sua espressione sembrava promettere che qualsiasi minaccia avesse in mente non avrebbe esitato a metterla in atto.
-“Quale cosa? Su che devi avvisarmi, sentiamo.”
-“Non guardarlo, non parlargli e non pensarlo. Lui è mio, novellina, e se ci provi te ne pentirai amaramente. E non è un modo di dire, sappilo”
Si, questa era decisamente la seconda minaccia della giornata.
-“Tu”, e sottolineai il tu, cercando malamente di imitare la sua spavalderia –“Non mi fai affatto paura con le tue minacce. Io non ho intenzione di fare proprio niente quindi, per piacere, ignorami. E non chiamarmi più novellina va bene?”, conclusi dandole le spalle. Non volevo nemmeno più sentire la sua voce petulante, non era nemmeno mia intenzione stare a discutere per queste banalità. Sentii il suo schiocco di dita che ordinava alle sue scagnozze di seguirla lungo le scale. Si fece largo tra me e Jamie, si spostò una ciocca dietro le spalle e sfoderò un sorriso a quel ragazzo.
-“Buongiorno William”, cantilenò, svenevole.
-“Salve Camille”, rispose lui, cordialmente. La sua voce era un sussurro suadente. Incredibile. Anche la sua voce era magnifica.
La Delacour con gli occhi seguì Camille fin quando non voltò l’angolo e come se avesse ascoltato i miei pensieri mi fulminò con lo sguardo. Non fu un occhiata lunga ma bastò per farmi inchiodare i piedi al pavimento. Disse qualcosa al figlio- le sue labbra si muovevano troppo veloci per capire cosa stesse dicendo-, e con uno scatto si dileguò al piano successivo.
-“I due da un po’ sembrano molto tesi”, commentò Nicole. Jamie si strinse nelle spalle.
-“Avranno problemi in famiglia”, ipotizzò. E come biasimarlo. Vivere con quella donna così fuori dalle righe non doveva essere semplice.
Mentre procedevamo per raggiungere l’aula, la portafinestra si aprì ed entrò un signore di mezza età.
-“Ehi, William! Pronto per potare quelle siepi?”, domandò sarcasticamente l’anziano e lo invitò a farsi seguire. William scese uno scalino, mi passò di fronte e non potei non fare a meno di guardarlo. La sua espressione era tesa ma la sua bellezza devastante, pensai di poterlo ripeterlo all’infinito. Distolsi immediatamente lo sguardo, leggermente scossa dai suoi occhi penetranti. Anche lui fece lo stesso con uno scatto quasi felino. Quando la porta si richiuse le due mi guardarono.
-“Non lo so”, precedetti la loro domanda. Non sapevo perché mi stava fissando così... e in quel modo.
-“Forse ti ha riconosciuta.”
-“Possibile... Quanti anni ha?”, chiesi mentre salivamo le scale.
-“Diciassette.”
-“No. Diciotto, ne sono sicura”, obiettò Nicole.
Jamie scosse il capo.
-“Diciassette”, puntualizzò.
La loro piccola “discussione” non mi fece accorgere di essere arrivata al pianerottolo del primo piano; entrai in aula trascinandomi controvoglia.
-“Buongiorno”, mugugnai alla giovane professoressa che ci accolse. Per lo meno lei, a differenza della Galdys, sorrideva. I suoi occhi marroni erano un mare di dolcezza, i suoi capelli lunghi erano invidiabili. Oltretutto pareva giovanissima. C’era un unico difetto, se così si può chiamare: la sua voce era talmente sottile e debole che non potetti non distrarmi durante la sua lezione. Il cielo si stava annuvolando più che mai, il vento non era suo complice tant’è che per farsi ascoltare quasi gridava.
-“Collins”, mi richiamò improvvisamente.
Oh no, pensai.
-“Puoi venire un attimo a firmare dei moduli?”
Feci un sospiro di sollievo afferrando la penna che era sul mio banco. Mentre mettevo la firma la prof. mi sommerse di domande, il suo modo garbato non mi infastidì e mi ritrovai ad esporre la verità della mia storia.
-“Oh cara, quanto mi dispiace. Comunque sono la signorina Belfiore e se hai bisogno di un aiuto non esitare a rivolgerti a me.”, mi disse con voce emozionata.
-“Lo farò”, promisi sorridendole timidamente.
Mentre ritornavo al mio posto vicino alla finestra mi accorsi, con angoscia, che William stava guardando verso le finestre della mia aula. Prima di sedermi mi soffermai ad osservarlo e rimasi sorpresa quando il suo sguardo indagatore si posizionò su di me. Possibile che mi aveva riconosciuta anche a tanta distanza? Arrossii, sudai e inciampai nel mio zaino per assettarmi sulla sedia. Nicole dietro di me soffocò una risata e mi invitò a voltarmi.
-“Ti senti bene?”, mi chiese.
Mugugnai qualcosa in risposta e cercai, per quanto possibile, di concentrarmi sugli ultimi minuti di lezione.
   
 
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