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Autore: Macy McKee    23/09/2014    8 recensioni
Anno 2154.
Ronnie Bertrand viene catturato mentre cerca di rubare informazioni dal cyberspazio. Senza che egli abbia possibilità di scelta, gli viene concessa la salvezza dalla morte da una figura misteriosa, portavoce di un losco gruppo industriale ancora più insidioso. Gli vengono concessi poteri virtualmente illimitati sul cyberspazio, ma il prezzo da pagare è diventare un assassino.
Renée Palmer è una Storyteller, un’addetta alla raccolta e distribuzione di dati in una società in cui la censura è stata abolita e chiunque ha accesso costante e senza limiti all’informazione. Quando tre suoi colleghi trovano la morte in circostanze misteriose, Renée dovrà fronteggiare la possibilità che anche in un mondo senza segreti la libertà sia soltanto un’illusione.
Una lotta per la libertà, divisa fra mondo reale e cyberspazio, fra Stati Uniti e Asia, fra etica e interesse, fra istinto di sopravvivenza e morale. Una ricerca della verità sotto le macerie di un mondo di lussi sfrenati e corruzione.
Genere: Azione, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Prima long originale dopo tanto, tanto tempo. Ho recentemente scoperto di avere una leggera ossessione per il cyberpunk, e questa storia è il mio tributo a questo genere.
Il titolo è ispirato all’omonima canzone dei Sepultura
 
Prologo
 
Ronnie, 20 Ottobre 2154, Hong Kong
 
Il mondo era scomparso all’improvviso.
Il bagliore perenne delle insegne luminose che pulsavano in un’intermittenza eterna e senza riposo, le chiacchiere caotiche che si sovrapponevano e mescolavano formando un lungo brontolio di chiacchiere e risate e urla, il vento che, nonostante fosse Dicembre, soffiava caldo e gli arrossava le guance. Fino a un istante prima era stato tutto lì a riempire i suoi occhi e le sue orecchie. Un secondo dopo, tutto era diventato nulla. Un nulla nero, pulsante, sfavillante di lucine larghe pochi pixel che scintillavano su uno sfondo nero come il vuoto.
Era stato strappato alla realtà e gettato nel cyberspazio con la forza, trascinato nel vuoto dell’universo che comprendeva tutto. I suoi occhi erano diventati ciechi, le orecchie sorde. All’improvviso, aveva visto solo un’interminabile, desolata pagina nera che si riempiva di stringhe di codice che avanzavano inesorabili e cupe come l’ascia di un boia che cala verso il collo del condannato.
Ronnie sapeva che quei caratteri che si disponevano in fila uno accanto all’altro erano la sua accusa, il suo processo e la sua pena a un tempo.
Stava morendo, Ronnie. In realtà, era già morto. Nel momento in cui era stato strappato dalla panchina su cui stava leggendo un giornale elettronico ed era stato sottratto violentemente al suo corpo, diventando una sequenza di dati e impulsi elettronici che viaggiavano nelle rete, quel codice l’aveva ucciso. Non c’era modo di fermarlo: non poteva essere salvato.
Pensò che avrebbe voluto almeno finire di leggere il giornale e si maledisse immediatamente per averlo pensato, perché non era questo l’argomento su cui avrebbe voluto riflettere negli ultimi istanti della sua vita. Ma non c’era molto altro su cui riflettere, in realtà. Non era avvezzo alla filosofia, né aderiva a un culto religioso. Non aveva dei da pregare, e anche se non fosse stato ateo non avrebbe avuto richieste da avanzare. Forse avrebbe implorato affinché quel codice lo uccidesse prima che potesse avere il tempo di avere paura, ma sapeva che non sarebbe stato accontentato: la paura era già lì, pulsava in un angolo della sua mente e si insinuava fra i suoi pensieri. Stava per morire, e cosa sarebbe stato di lui? Avrebbero trovato il suo corpo con la testa che ciondolava tetramente sullo schienale della panchina e si sarebbero liberati di lui il più rapidamente possibile, come se l’avere il suo corpo lì fosse una vergogna di cui disfarsi all’istante.
Aveva passato la vita a immagazzinare dati in modo ossessivo, riempiendosene occhi e mente. Dove sarebbero finiti tutti quei dati, senza di lui?
Ecco, alla fine era giunto: un panico sordo e subdolo, che gli annebbiava la mente. Non voleva morire. Non voleva andarsene. Possibile che dovesse morire in modo così insignificante? Non era giusto: lui era importante, contava. Doveva essere importante. Non poteva scomparire così.
Il codice avanzava e avanzava, inesorabile. Da un momento all’altro le lettere si sarebbero fermate e così avrebbe fatto la sua mente. Da un momento all’altro, sarebbe finito tutto.
Il codice si fermò.
In un istante, con la violenza di un pugno in pieno petto, il mondo ricomparse davanti ai suoi occhi. Non ebbe il tempo di domandarsi perché potesse ancora vedere e sentire e pensare. Non ebbe il tempo di sorprendersi di essere ancora vivo. Il mondo era tornato, ma era tornato arricchito: non c’erano più soltanto le insegne luminose e gli schiamazzi così gioiosi da essere volgari del centro di Hong Kong.
Ronnie vedeva, sentiva, sapeva tutto. Era nelle luci che lampeggiavano, nei computer tascabili che squillavano, negli schermi che urlavano i loro slogan pubblicitari. Era nelle parole digitate sui computer dei cittadini di ogni metropoli del mondo, era nei codici dei conti bancari, era nelle voci che schiamazzavano da un capo all’altro del Globo attraverso la rete.
Il cyberspazio si era insinuato violentemente nella sua mente, mandando in frantumi i suoi pensieri.
E all’improvviso, devastante, la consapevolezza: non era più connesso al cyberspazio.
Era parte del cyberspazio.
 
 
 
Mariam, 30 Ottobre 2154, Seattle
 
Mariam appoggiò i gomiti al parapetto, sporgendosi verso la città che sotto di lei si apriva come un gigantesco canyon immerso nella luce di mille soli. Alcuni grattacieli solitari si innalzavano come stalattiti dalla metropoli, ergendosi fin sopra di lei. Da lassù, gli altri edifici di Seattle sembravano minuscoli, grandi come mattoncini da costruzione per bambini. In realtà, la maggior parte dei palazzi superavano i cinquanta piani, e decine di altri giganti come quelli che svettavano sopra la sua testa sarebbero stati costruiti entro un quinquennio. Il cielo era affollato di macchie scure, e Mariam si perse a contemplare quelle stelle nere che sfrecciavano sullo sfondo grigiastro: erano astronavi, a centinaia, che trasportavano i loro passeggeri da un capo all’altro del Globo o su mondi lontani, su pianeti dove il nome Terra indicava soltanto una destinazione lontana su cui recarsi o non recarsi in un giorno lontano della propria vita.
Un giorno se ne sarebbe andata, Mariam. Sarebbe salita su una di quelle macchie nere che correvano nel cielo e si sarebbe lasciata quella città che tanto odiava alle spalle per sempre. Avrebbe detto addio a Seattle e al suo odore nauseante di cemento e acciaio e fumo, avrebbe salutato per un’ultima volta i vetri che scricchiolavano sotto i piedi sui marciapiedi e il perenne bagliore degli schermi che tappezzavano gli edifici. Avrebbe lasciato quel lavoro che le faceva girare la testa per l’ira, tingendole le guance di rosso per l’indignazione.
Un giorno, si disse. Un giorno sarebbe stato il suo turno di costruirsi una nuova vita altrove, di cancellare il suo passato definitivamente. Un giorno, mi alzerò e salirò su una di…
All’improvviso, i suoi muscoli si tesero e i suoi pensieri s’interruppero bruscamente. Mariam si guardò attorno, facendo scorrere gli occhi freneticamente sui passanti che la sfioravano senza alzare lo sguardo su di lei. Il suo cuore impazzito batteva così forte da ferirle il petto. D’un tratto le sue mani tremavano, impossibili da controllare. Sentì le gambe farsi improvvisamente pesanti, e improvvisamente si rese conto di non poter parlare. Era paralizzata, completamente sommersa dal terrore. Fece saettare di nuovo gli occhi avanti e indietro, lottando contro la sua gola per urlare, ma non aveva alcun controllo sul suo corpo. Le persone continuavano a scorrere al suo fianco come un fiume placido, senza accorgersi di lei. Come potevano non accorgersi di lei? Come potevano non sentire il suo cuore che correva, scandendo i secondi come un tamburo impazzito? Come potevano non udire il sudore che scivolava lungo la sua schiena e gocciolava a terra, le sue unghie che incidevano la carne dei suoi palmi facendo urlare la sua pelle di dolore?
Perché la ignoravano, perché non la vedevano?
Era come se… come se avessero saputo.
Il pensiero colpì Mariam con la forza di uno sparo, tanto che se il suo corpo le avesse permesso di vacillare sarebbe caduta.
Era possibile che sapessero? Tutti loro, sapevano? I suoi occhi si spalancarono così violentemente che le sue palpebre cominciarono a bruciare. A un tratto era sui volti di tutti i passanti, nei loro gesti e nei loro sguardi: ovunque guardasse vedeva disprezzo, vedeva occhi che lampeggiavano di odio perché sapevano cosa aveva fatto. La loro indifferenza era la sua punizione, perché la sua colpa all’improvviso era esposta.
Passarono alcuni istanti prima che Mariam si convincesse che la sua fosse solo paranoia: nessuno sapeva di lei, nessuno l’aveva vista. Non le prestavano attenzione perché erano immersi nei loro cupi pensieri e nei loro sogni invitanti di piaceri lontani.
Ma il suo corpo rimaneva immobile, e il terrore non la lasciava. Era come aver inghiottito un essere che lentamente la divorava dall’interno, rubandole il controllo sul suo stesso corpo e facendo fuggire l’aria dai suoi polmoni.
Sbatté le palpebre, e la città si fece più vicina. Le sbatté di nuovo, confusa, e si rese conto di essersi mossa. Come aveva fatto a muoversi? Quando aveva riacquistato il controllo dei suoi muscoli?
Non l’aveva riacquistato. Si era mossa, ma non era stata lei a deciderlo.
Fu in quel momento che si rese conto che qualcosa avanzava nella sua mente, facendosi strada fra i suoi pensieri. Era una presenza senza corpo, come un’idea malvagia che si insinuava nel suo cervello spazzando via tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Era un’ombra che ribolliva di famelico desiderio e cupidigia violenta.
C’era qualcuno nella sua mente.
Mariam serrò gli occhi, terrorizzata, ma un secondo dopo si rese conto di averli riaperti senza desiderarlo. Quando abbassò lo sguardo, il panico invase i suoi pensieri, rendendola folle di paura: le sue spalle oscillavano verso i tetti sotto di lei, lei che all’improvviso era in piedi sul muretto ed era separata dal vuoto da pochi centimetri di cemento liscio.
 
Renée, 30 Ottobre 2154, Seattle
 
Avanzava a passi rapidi fra la folla, trattenendosi a stento dall’impulso di correre. Avrebbe voluto farsi spazio in quella fiumana di teste spingendo da parte i passanti, ma sapeva di non poterlo fare.
Le schiene di fronte a lei si muovevano con una lentezza esasperante, facendo pesare ogni secondo che passava sulle sue spalle: era in ritardo, orribilmente in ritardo, e detestava esserlo.
Mariam l’avrebbe odiata, lo sapeva. Se giunta al punto di incontro non l’avesse trovata, Renée non avrebbe potuto darle torto: aveva quasi trenta minuti di ritardo, e ancora non era arrivata a destinazione. Vedeva di fronte a sé il luogo stabilito per il ritrovo, uno spiazzo a ridosso del parapetto di fronte a un grande palazzo dai vetri scuri coperti di sfavillanti luci rosse, ma la sua meta sembrava non avvicinarsi mai.
Detestava essere in ritardo, così come detestava non poter fare nulla per accelerare il suo cammino. Si sentiva impotente fra la folla, e la sensazione la faceva infuriare: era tremendo non avere la situazione sotto il suo controllo, dipendere dal flusso volubile e pigro della calca.
Dopo minuti interminabili, la marea di nuche si diradò di fronte ai suoi occhi, lasciandole uno spiraglio per passare. Corse in avanti, pensando freneticamente a cosa avrebbe detto a Mariam. Non poteva dirle che aveva ritardato perché era stata nei sobborghi, questo era certo. Sarebbe stata licenziata ancor prima di poter socchiudere le labbra per protestare se si fosse sparsa la voce che frequentava la periferia, e lei amava il suo lavoro: il suo segreto doveva rimanere tale. Le avrebbe detto che la navetta aveva tardato. Sì, si disse, era una scusa plausibile: i mezzi erano efficienti, ma non immuni ai guasti. Le avrebbe detto che c’era stato un problema ai motori e aveva dovuto aspettare l’intervento della manutenzione.
Aggrappandosi saldamente a questo pensiero e ripetendo ossessivamente la scusa nella mente, corse verso il muretto che separava la via sopraelevata dal vuoto sottostante. Fece scorrere gli occhi sui passanti, cercando i capelli rosso fuoco di Mariam.
Dopo pochi istanti, una macchia scarlatta contro il cielo grigio catturò la sua attenzione. Alzò lo sguardo, sollevando la mano in gesto di saluto, ma le parole le morirono in gola. Mariam era di fronte a lei, con il viso rivolto verso la città, e ondeggiava come un giungo mosso dal vento in piedi sul muretto.
Renée inspirò profondamente, riempiendosi i polmoni d’aria per urlare, ma si rese conto di non riuscire a parlare. A un tratto, era inchiodata sul posto, in balia della folla che la sospingeva avanti e indietro. La paura la paralizzava.
Come in un sogno, vide Mariam aprire la braccia, piegando la schiena verso il vuoto. Osservò i suoi piedi staccarsi dal muretto, e per un momento la sua mente fu attraversata dal pensiero che la donna sarebbe rimasta a fluttuare a mezz’aria e si sarebbe girata verso di lei ridendo e prendendola in giro per essersi spaventata così.
Non accadde. Mariam scomparve oltre il cemento, inghiottita dal mare nero di tetti.
Renée rimase immobile, impietrita. Il suo cervello lavorava più velocemente del suo corpo, riempiendosi e sovraccaricandosi di pensieri.
No, no, non era Mariam, non era lei. Come sono sciocca, non era lei. Non poteva essere lei, no, no.
Prese di nuovo fiato, e sapeva che questa volta avrebbe urlato. Socchiuse le labbra, ma il gridò non lasciò mai la sua gola: in quel momento, una mano premette senza riguardi sulla sua bocca, soffocando la sua voce.
Si sentì strattonare indietro, trascinata fra la folla. Un istante dopo, i suoi occhi non videro più nulla.
 
   
 
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