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Autore: Kaspar Hauser    23/09/2014    1 recensioni
L'arte è caso. Il caso è verità. La mia proposizione è la liberazione dalla coscienza attiva. E bon, smetto di fare l'oracolo pazzo. Questa storia dovrebbe in teoria essere la continuazione di una storia intitolata Hotel California e pubblicata ieri da Capitan Harlock (anche se non so quanto quest'ultima rimarrà online, dato che viola almeno tre regole del sito, per ora la trovate qua [http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2839141]); questa storia dovrebbe a sua volta avere un seguito dal suddetto autore nei prossimi tempi (speriamo). L'unica cosa che mi rimane da dire è augurarvi buona lettura :)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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“Aquaria Ujia è l'uno; è il tutto; è ciò che è oltre la percezione”

H. V. Vegant

 

Mi alzai dal letto.

Era una bella giornata, sull'orlo dell'abisso.

Il sole splendeva forte, sull'orlo dell'abisso.

Petali di fiori; sull'orlo dell'abisso.

E. quel. profumo. di. Rose.

La brezza fresca della giovinezza dell'estate, che cullava gli elefanti placidamente galleggianti nel cielo terso e luminoso, sotto il benigno e splendente occhio del padre, m'accarezzava come tutti gli altri suoi figli, le grandi morbide fronde a forma di Aquaria Ujia gocciolanti di verde-catarsica purezza di divinità, senza fare distinzioni, s'attardava sulla mia cute come le sue mani, ed io mi crogiolai in quella dolce-cieca identificazione vegetale, la resina scorreva sotto la mia pelle io ero schiavo della terra, immobile, eterno, eppure allo stesso tempo ciò era solo un sogno, non potevo sfuggire alla mia coscienza di me, al grande sguardo; ero costretto sotto l'insopportabile giogo della libertà.

 

E ad un tratto il tempo cambiò. La pressione delle pareti d'aria era insopportabile. C'era una certa poesia in quell'angoscia, un certo lussurioso compiacimento in quella tortura, come suoni striduli di fiati, un'orda pleistocnica di mostri meccanici e vibranti vomitati dallo stomaco di una stella lontana. L'Occhio era lì. L'Occhio. è. Sempre. Lì. L'Occhio non ha un perché, perché è all'interno, all'interno del perché, all'interno della testa, sottopelle. Mi avrebbe trovato. Lo sapevo. Ero solo una questione di tempo. Dovevo fare in fretta, per essere salvo dovevo trovare la Syzygia, dovevo trovare lei.

Sto per uscire dall'interzona. Abbandono ogni contatto per la proiezione. Anche la memoria di me verrà annullata sino al mio successivo riemergere dall'universo frazionario nel mondo cosiddetto reale. E poi sono dentro.

 

Lo Sguardo mi ha seguito fin lì, è penetrato dal mio varco. Ha l'aspetto di un terrificante castoro enorme-vibrante-cesellato di bulbi oculari. S'agita come l'atopica infezione idolatra che è, e devo scappare. È. Sempre. Più. Vi

“Martin Freeman è morto PER I TUOI PECCATI” gli urlo contro; questo lo blocca per pochi secondi, che utilizzo per modificare il proiettore virtuale e sgusciare via fra i fili della realtà. Per ora sarò salvo, sebbene solo in un universo sconosciuto.

 

Palombaro. Torcioforo. Formaggio. Cintura. Spinterogeno. Vacca. Ligiastade.

 

Il tempo per riprendermi, mentre incredibili mutamenti temporali avvenivano senza sfiorare la mia essenza di un solo istante, e ripresi il mio cammino. La strada era in realtà un grande enorme immenso mastodontico gargantuesco-pantagruelico (Ah, Beata Banalità) serpente arcobaleno composto di puro bene e amore, le sue membra come fiumi di nettari paradisiaci, il suo volto ascosto in un luogo segreto, la cui locazione era stata per venti millenni da innumerevoli congreghe di maghi cosmici, teurghi ed alchimisti di arcana-somma sapienza, e continuava ad essere, studiata senza alcun successo, ma che avrebbe garantito felicità assoluta a colui che l'avrebbe trovata, come forse innumerevoli volte già era successo dall'inizio dei tempi, ma anche no.

Il mio cammino, purtroppo, mi condusse in un posto oscuro e spaventoso, un'enorme costruzione demoniaca che ispirava ripugnanza al benchè minimo contatto con un qualsiasi senso, compreso il sesto. Le pareti dell'edificio erano barbaramente adornate con orripilanti gigantografie di Steve Jobs, e una voce malvagia, dall'interno, declamava incantesimi aborriti da ogni forma di sanità in un alto e arcano linguaggio. Facendomi coraggio, entrai.

   
 
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