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Autore: Black_Lily_13    25/09/2014    5 recensioni
C’erano molte leggende che venivano tramandate a Castlecross, la più famosa di tutte quella riguardante la figura che abitava il castello nel cuore della palude. C’era chi sosteneva che si trattasse di uno Spettro, chi di un Demone. Su una cosa però tutti concordavano: Sherlock era in grado di esaudire i desideri celati nel cuore di chi fosse disposto a rinunciare a qualcosa di prezioso. John Watson, dal canto suo, era un uomo di scienza, e non aveva la minima intenzione di farsi coinvolgere nello strano gusto per il soprannaturale che i suoi nuovi compaesani sembravano condividere. Questo, almeno, fino a quando il destino non decise di portargli via la cosa che più amava al mondo... e lui, impotente, non poté che affidare la sua unica possibilità di salvarla a chi non avrebbe mai creduto potesse esistere. Costretto in cambio a mettersi al servizio di Sherlock per un anno, John imparerà pian piano che il buono può celarsi anche laddove non dovrebbe esserci per antonomasia. E, forse, riuscirà a scoprire e salvare da una minaccia nascosta il cuore di chi credeva di avere il petto pieno di sola polvere.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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    I.        Once upon a time

Molto probabilmente il racconto di questa storia, da buona storia che si svolse tanto tempo fa in un paese lontano lontano, dovrebbe essere iniziato con le classiche paroline di rito: “c’era una volta”. Tuttavia, in quanto questa storia ha ben poco di classico e tradizionale a parte le premesse, credo che soltanto per stavolta cominceremo in maniera un po’ diversa: dicendo che a Castlecross il contorno tra realtà e leggenda era labile e sfumato.

Questo solitario paesino, che contava una popolazione di poco più di duecento anime, e che a ogni inverno se ne vedeva sottratte diverse, sorgeva nell’entroterra Inglese, al centro di un’ampia vallata abbracciata da morbide colline. Un bosco di pini e querce circondava Castlecross, fitto e impenetrabile, tanto labirintico da scoraggiare anche i più coraggiosi dal pensiero di avventurarvisi: solo i cacciatori di frodo e i taglialegna vi si recavano ad intervalli regolari, molte volte ritornando con le braccia cariche di ricchi bottini, troppe diventando solo un ricordo sbiadito nelle menti di chi riusciva a fare ritorno. Le abitazioni, poi, si snodavano ad anello attorno ad un ampio terreno paludoso, dal quale nei giorni più umidi si sollevava una nebbia fitta e vagamente verdastra che serpeggiava per le strade lastricate di pietra creando un’atmosfera a dir poco spettrale. È perfettamente normale che, con tali premesse, nella popolazione di Castlecross fosse cresciuta nel tempo una forte predisposizione per ogni tipo di superstizione.

Non era insolito infatti vedere gli abitanti aggirarsi per la città con pesanti croci di legno o argento appuntate al petto -Begum il macellaio era addirittura solito portare intorno al collo una lunga treccia d’aglio, per ogni evenienza- o, ancora, che persone particolarmente stravaganti finissero per essere isolate dal resto della popolazione, tacciate di stregoneria o di essere state toccate dal Demonio. La leggenda più amata, quella che veniva mormorata di notte dai genitori per ammansire i figli ribelli e che suscitava i palpiti di molti cuori coraggiosi, era fra tutte quella inerente al vecchio e lugubre castello che sorgeva proprio al centro del terreno paludoso, e a cui la città doveva il suo nome.

Non restava memoria a Castlecross di chi mai l’avesse edificato, né del fatto che fosse mai stato abitato da alcun essere umano: l’unica cosa di cui i cittadini erano certi era che il castello senza nome fosse infestato da niente meno che un demone, pronto a soddisfare ogni bramosia e a risolvere ogni dilemma in cambio di anime fresche.

È proprio questo l’argomento con cui Mrs. Turner aveva deciso di intrattenere i suoi nuovi affittuari in quel pallido e nevoso pomeriggio di metà febbraio. Aveva fatto accomodare il giovane medico, che si era presentato come John Hamish Watson (arrivato in città per sostituire il povero Dottor Wood dipartito un mese prima), nel salottino buono della sua casa, assieme alla sorella Harriet.

“Vi dico che il castello è infestato!” sosteneva tra un sorso di tè e un pasticcino, apparentemente ignara degli sguardi di divertita sufficienza delle due teste fulve sedute davanti a lei, “Due anni fa la giovane figlia degli Hooper -Molly, ragazza adorabile, il suo banchetto ha i merletti più belli di tutto il mercato!- ci si è recata per una pozione che le permettesse di ottenere il cuore del suo amato. Quando è tornata dalla sua bocca non usciva più neanche un suono, povera creatura!”

Un lungo istante di silenzio seguì a quell’affermazione, silenzio che venne interrotto dalle risate soffocate di Harriet e dai discreti colpi di tosse con cui lo stesso Dottor Watson cercava di mantenere un certo contegno. Sotto lo sguardo carico di disappunto di Mrs. Turner, l’uomo scosse la testa e sorrise, passandosi distrattamente una mano fra i capelli.

“Mi dispiace, Mrs. Turner. Ma, vedete, io e Harry siamo persone di scienza. Questo tipo di superstizioni non fa per noi.” Pigolò sollevando le spalle, “Sono altresì sicuro che la fantasia di una fanciulla non debba essere repressa, né debba essere oggetto di alcuno scherno.”

Mrs. Turner prese fiato, per poi serrare le labbra in maniera minacciosa. L’aria adulatoria che aveva indossato come un guanto fino a poco prima le scivolò via di dosso in un battito di ciglia, mentre con un gesto deciso sbatteva la sua tazza da thé sul tavolo, rovesciandone il bollente contenuto:

“Mio caro Dottore…” disse, gli occhi che guizzavano a ripetizione tra i suoi due ospiti, “…vi consiglio, per amicizia, di non liquidare tutte queste storie come mere fantasie. Potrebbe far sentire chi vi crede con tutto l’animo in maniera poco piacevole. Inoltre…” sibilò, abbassando il tono di voce a un sussurro, “… innumerevoli persone che si troveranno loro malgrado a essere vostri pazienti hanno perso qualcosa o qualcuno oltre il cancello nero di quel luogo. Quindi, per rispetto se non per il vostro bene, vi consiglierei di tacere.”

John abbassò la testa, domandandosi se fossero state le parole stesse o il tono con cui erano state pronunciate a farlo sentire tanto in imbarazzo. Cercò con gli occhi sua sorella, che nel momento in cui incontrò i suoi iniziò a parlare:

“Non intendevamo essere offensivi, o mancare in qualche modo di rispetto. Ci dispiace avervi dato questa impressione, Mrs. Turner.” Harriet si alzò dalla poltrona che aveva occupato fino a quel momento, passando al fratello il bastone da passeggio e sostenendolo mentre si tirava su a volta. “È meglio andare, adesso. Dobbiamo ancora sistemare le nostre cose nell’appartamento, preparare le stanze per la nostra famiglia, e predisporre l’ambulatorio per domattina. Quindi…beh…a presto?”

Mrs. Turner annuì, l’ostilità mostrata fino a pochi istanti prima evaporata in una nuvola di sorrisi, nonostante fosse ben chiaro che se non fosse stata bloccata dall’intervento di Harriet avrebbe avuto molte altre cose da dire. Quella donna era incostante come un cielo estivo, pensò il Dottore osservandola mentre, stirandosi con la mano le pieghe che si erano formate nella lunga gonna marrone che indossava, annunciava che sarebbe salita un momento al piano di sopra per prendere le chiavi del loro nuovo appartamento.

Quando li ebbe lasciati soli, John e Harriet tirarono un sospiro di sollievo. “Che donna insolita! Sembra la classica vecchia capace di non uscire di casa di Venerdì o Martedì o di impallidire quando sente un cane ululare!” esclamò Harriet, ridendo e asciugandosi teatralmente una lacrima con la punta delle dita.

John le sorrise di rimando, facendole però segno di abbassare il tono di voce per non farsi sentire dalla loro anziana padrona di casa.

“Castlecross è un paesino piccolo, e come in tutti i paesini piccoli la gente è irretita dalla superstizione.” disse sospirando, “Dovremo soltanto farci l’abitudine.”

Vedendo gli occhi di sua sorella tingersi di preoccupazione, John le prese la mano. Lei lo guardò negli occhi, e con voce incerta chiese:

“Credi che, oltre che superstiziosa, la gente di qui sia anche…come dire…”

“Bigotta e ipocrita?” terminò John, storcendo la bocca nello stesso modo in cui lo fece sua sorella. Capiva perfettamente la preoccupazione Harriet: con sommo dispiacere dei loro genitori -che, povere anime, avevano devoluto alla sua redenzione anche il loro ultimo respiro- lei non conduceva la classica vita di una donna della loro epoca. Anzi, per meglio dire, niente di ciò che la donna faceva, indossava, pensava o diceva remava molto a favore della sua ‘ordinarietà’. Anche quel giorno i pantaloni di velluto a coste che sfoggiava aveva attirato non pochi sguardi.

Con fare protettivo John passò un braccio attorno alle spalle di sua sorella, avvicinandola perché sentisse solo lei ciò che stava per dire:

“Se è per Clara che ti preoccupi, non devi farlo. Quando domani arriverà, sono sicura che la gente di qui se ne innamorerà subito. E anche se così non fosse, non ce ne interesseremo. In fondo le tue scelte sono tue e di nessun altro, no?”

Harriet poggiò la testa contro quella di suo fratello, emettendo un sospiro rassegnato, e in quel momento Mrs. Turner fece ritorno nella stanza stringendo trionfalmente due chiavi dall’aspetto antico tra le mani.

“Ecco qua!” disse, porgendo la prima delle due chiavi a John, “Questa è per l’ambulatorio. Giorni fa ho dato una spolverata, quindi dovreste far presto a sistemare. E questa…” continuò, consegnandogli la seconda chiave, “… è per l’appartamento. Mi è stato lasciato da una mia cara amica scomparsa, quindi… per favore, prendetevene cura.”

“Certo, Mrs. Turner. Potete contarci.”

John fece scivolare le due pesanti chiavi nel taschino della giacca, sentendosi rassicurato dalla sensazione di pesantezza che ne derivava. Con un ultimo, cortese saluto, lui ed Harriet lasciarono l’abitazione della loro affittuaria immettendosi nella strada principale del paese. Era febbraio, faceva freddo, e la spalla di John lanciava dolorosissime fitte a causa dell’aria umida, e il bastone scivolava sulla strada ghiacciata ma niente di tutto questo contava per lui: da quel giorno la sua vita ricominciava, dopo tutto il male che aveva sofferto la sua vita ricominciava, e lui non poteva che sentirsi euforico.

***

Il ciocco di legno si spezzò, ricadendo nel camino con un tonfo sordo e provocando un turbinio di scintille incandescenti. Seduto nella sua poltrona in silenzio, con le lunghe gambe accavallate e le dita delle mani giunte davanti alle labbra come in preghiera, l’uomo fissava intensamente la danza sinuosa delle fiamme. Aggrottò le sopracciglia: il fuoco sussultò, crepitò, per un secondo perse vigore per poi ingigantirsi in un’esplosione bluastra. Immagini cominciarono a formarsi laddove le vampe erano più brillanti: stralci confusi di strade e palazzi, sequenze di volti e folle, che si susseguivano in un flusso quasi indistinguibile.

Cupi pensieri invasero la mente dell’uomo. Quel giorno non stava accadendo nulla di interessante in paese. Tutto era così terribilmente noioso. Sempre la solita gente, che faceva sempre le solite cose nello stesso identico modo. Come gli esseri umani potessero tollerare di trascinarsi a quel modo nelle loro misere vite rimaneva un mistero per lui.

All’improvviso, in un fotogramma, scorse qualcosa che stuzzicò la sua curiosità. Tese una mano in avanti con gesto imperioso, ripensando con nostalgia ai tempi in cui con un solo movimento degli occhi avrebbe potuto imporre sul fuoco la propria volontà: sotto il suo comando il flusso di immagini si arrestò.

“Bene bene… cosa abbiamo qui?” pensò, un sorriso malizioso a incurvargli le labbra e un leggero velo di sudore sulla fronte. Analizzò attentamente l’immagine che aveva davanti (e se i suoi occhi si fecero pesanti per la spossatezza di quello che una volta non sarebbe stato uno sforzo, lui di certo non se ne sarebbe lamentato): un uomo, all’incirca sulla trentina, che arrancava zoppicando per strada sostenendosi a un elegante bastone e al braccio della minuta figura femminile che gli camminava accanto. Non impiegò molto per comprendere che non erano abitanti di Castlecross -per quasi due secoli aveva monitorato i cittadini del paese, dalla loro nascita alla loro morte e, no, quei due non erano fra di essi- e che avevano un’aura di stranezza ad appesantire le loro spalle. L’uomo, in particolare, aveva qualcosa che lo incuriosiva…

“Ancora non ti sei stufato di osservare la gentaglia umana, esiasch[1]?”

“Maledizione…”

La mano che aveva teso in avanti si strinse in un pugno, e il fuoco morì all’istante, gettando la stanza in un buio quasi palpabile. Attese che i suoi occhi si adattassero, e iniziassero a fendere il buio con la stessa precisione della vista di un falco; poi, cercando di imporsi un autocontrollo che non possedeva, si alzò dalla poltrona. Poggiò l’antico violino che fino a quel momento aveva tenuto in grembo sul cuscino di pelle, e con occhi illuminati da luce rossastra e denti scoperti in un ringhio muto si voltò a fronteggiare colui che l’aveva interrotto:

“Mycroft. Che immenso piacere è averti qui. Vorrei dirti che ti vedo bene, ma mentirei: la dieta non ha ottenuto i risultati sperati, vero?”

“AH! Molto divertente Sherlock, davvero.”

Mycroft non aveva reagito alle sue stilettate nel modo in cui avrebbe voluto, tuttavia Sherlock -quale nome migliore per un essere tanto bizzarro?- poteva dirsi ben soddisfatto. Pur avendogli risposto a tono, infatti, il suo imponente fratello aveva irrigidito la sua postura, con il chiaro scopo di far notare il meno possibile i chili di troppo che lo appesantivano. Sherlock ghignò, stupendosi nuovamente di quanto loro due fossero diversi: da una parte lui, alto, slanciato, scuro di capelli; dall’altra suo fratello, sì alto, ma anche massiccio e con capelli radi e tendenti al rossiccio. Quando entrambi erano nella loro forma umana, solo il colore degli occhi li accomunava.

Scuotendo la testa, Sherlock avanzò di un passo verso il fratello: “Tagliamo corto. Cosa ti porta qui?” esclamò, ogni parola stillante veleno mentre il mondo attorno a lui appariva sfocato per la fatica,

“Non potrebbe essere la semplice voglia di vedere il mio dolce fratellino?”

“Preferiresti fare abluzioni nell’acqua benedetta Mycroft. E sappiamo entrambi quanto le ustioni non ti donino.”

Una risata lugubre si levò dal petto dell’uomo, e per un istante la sua forma umana vacillò: un barlume di ali nere e corna ricurve si intravide prima che riprendesse il controllo di sé.

“Ah, mi farai morire!”

 Magari ne fossi capace! Dimmi subito che cosa vuoi Mycroft. Sei venuto solamente per farti due risate, allora puoi anche andartene subito. Sono molto occupato.”

Con un brusco gesto della mano Sherlock indicò al fratello la porta della stanza, scivolando al contempo verso il camino e afferrando nuovamente il suo violino dalla poltrona. Assestò lo strumento sotto il mento, saggiando le corde assestandovi con l’archetto dei colpi decisi, che produssero suoni striduli e sgraziati. Chiuse gli occhi, aggrottando le sopracciglia per la concentrazione, ma proprio quando stava per cominciare a suonare, Mycroft gli strappò l’archetto dalle mani.

“Il tuo potere si sta indebolendo.”

Sherlock rabbrividì, ma non aprì gli occhi. Non era una domanda quella che gli stava rivolgendo suo fratello, era solo una lapidaria costatazione. Si morse le labbra.

“Non so di cosa tu stia parlando…”

“Certo che lo sai. Non c’è modo in cui tu possa non essertene accorto. Prima potevo percepire la tua aura da chilometri di distanza… estendendo la mia coscienza potevo percepirti addirittura dagli Inferi.”

“Con percepirmi intendi forse spiarmi?” sbottò Sherlock, schiaffeggiando via la mano del fratello. Avrebbe voluto abbandonare la sua maschera e assumere la sua forma demoniaca, ma in quel momento, odiava ammetterlo, un tale sforzo lo avrebbe portato a un certo svenimento -e se c’era al mondo un essere di fronte al quale non poteva permettersi di mostrarsi debole, quello era Mycroft. Lo sfidò dunque con gli occhi, sperando che l’odio che vi avrebbe potuto leggere fosse sufficiente.

Così non fu, e Mycroft sospirò stizzito: “Non cambiare argomento, Sherlock. Sono preoccupato per te.”

L’unica risposta che l’uomo ricevette fu un’incredula quanto amara risata, che spazzò via ogni briciolo di pazienza che Mycroft conservava nel suo cuore: e ne aveva tanta, lui, di pazienza. Ci fu un sonoro schiocco, seguito da un rombo che scosse le pareti: fumi neri e verdognoli si sprigionarono dalla figura dell’uomo, inquinando l’aria e indebolendo Sherlock ulteriormente, costringendolo al silenzio.

“Guardati… guarda come ti sei ridotto.” disse con voce disgustata, passandosi una mano sul volto, “E per che cosa, poi? Per il tuo gioco perverso e malato? Non ti capisco, fratello. Proprio non ti capisco.”

Lanciò a Sherlock uno sguardo pietoso, addolorandosi di fronte alla misera condizione in cui si trovava il sangue del suo stesso sangue. Mai avrebbe immaginato di vedere un erede della stirpe degli Holmes ridotto a un pallido e tremante mucchio di ossa. Con un nuovo sospiro dissolse l’aura nera con cui teneva Sherlock immobilizzato, osservandolo cadere in ginocchio e portarsi una mano alla gola, il suo prezioso strumento abbandonato a terra. Non mosse un passo verso di lui, solo, continuò a parlare.

“Quanto tempo è trascorso Sherlock? Da quanto tempo vivi nel mondo degli umani?”

Per un attimo la stanza piombò nel silenzio, attimo durante il quale Sherlock si erse nuovamente in piedi a fatica. Guardò il fratello con occhi di fiamma, mormorando in maniera quasi impercettibile:

“Duecentonovant’otto anni.”

Mycroft emise un ringhio sommesso, un misto di rabbia e incredulità. “Tutto questo tempo sulla terra senza essere stato evocato…”

Stava correndo un rischio troppo grande perché Mycroft potesse permetterglielo. Il tempo dei giochi era finito: se fino a quel momento aveva assecondato ogni suo capriccio, sperando che l’esperienza istillasse un po’ di buon senso in lui, adesso avrebbe preso la situazione fra le mani.

“Ti darò due inverni di tempo fratello. Quando la primavera sarà tornata per la seconda volta, tornerò qui. Ti ricondurrò negli Inferi con me, volente o nolente. Metterò fine a questa follia, visto che tu non ne sembri minimamente intenzionato a farlo.” Ringhiò, provando dolore al modo in cui ogni parola sembrasse assestare a Sherlock un colpo mortale.

Con un lampo, Mycroft assunse la sua forma demoniaca, voltandosi per lasciare quella dimora e quel mondo una volta per tutte, lasciando Sherlock solo nella sua ira. Senza dire una parola, Sherlock si gettò di peso sulla poltrona, che per un istante vacillò. Vi si raggomitolò più che poté, cercando nel suo stesso abbraccio protezione dal senso di sconfitta che sentiva.

Due anni. Poco più che un battito d’ala di colibrì nella vita di un Demone. Due anni… non sarebbero mai stati sufficienti. Aveva così tante cose da vedere, così tanti esperimenti da condurre. Non era pronto per tornare nel mondo dei Demoni, no, non ancora. A meno che…

“A meno che non sottoscriva un contratto con un essere umano. Un’anima per la mia permanenza: prezzo più che equo.”

Quando la consapevolezza lo colpì, si ritrovò a ridere amaramente. Se non aveva vagliato quell’opzione in tutti quegli anni un motivo c’era. Scuotendo la testa mosse la mano nell’aria, e con un poof il fuoco tornò nuovamente a illuminare la stanza dall’incavo del camino.

“Mrs. Hudson! Tè, subito.” Tuonò a gran voce, attendendo che il calore raggiungesse la sua pelle congelata. Dei passi echeggiarono frettolosi in lontananza, e il fuoco crepitò: Sherlock cominciò a chiedersi come sarebbe stato riaccolto nel suo mondo dopo tanti anni. Mordendosi le labbra fino a sentire il sapore del suo stesso sangue si rese conto che non era poi così ansioso di scoprirlo.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Questa è una storia nata un po’ per sfida, un po’ per capriccio: da una parte volevo mettere alla prova la mia capacità di cimentarmi in una long-fic, dall’altra ho cercato di trovare un modo per espellere dal mio sistema nervoso la mia ossessione per Sherlock il più possibile. Per quanto riguarda la seconda finalità… ho miseramente fallito (e la cosa peggiore è che non me ne faccio un problema xD). Non mi resta che vedere se sarò in grado di mettere insieme una fanfiction degna di questo nome. Fatemi sapere che ve ne pare, io ce la metterò tutta ;)

PS: cercherò di pubblicare i miei capitoli a distanza di massimo due settimane l’uno dall’altro. È una WIP… ci sto lavorando ;)

 



[1] Esiasch: fratello

   
 
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