Ad Alley, a Gosa,
alla mia Tony
A Leslie, alla
mia Peter, alla Meli.
Perché vi voglio
bene
E siete il mio
supporto
Anche se forse
non ve lo dico
Mai abbastanza
spesso.
Howling Ghosts They Reappear
.
.
.
.
.
“Pa’, mi sta fissando.”
“E’ quello che stai facendo anche
tu.”
Logica incontrovertibile.
Peter abbassa la testa e affoga un
povero Lucky Charms nel latte. I cereali sono diventati una poltiglia
zuccherosa, ormai, e fanno abbastanza schifo a vederli.
Sicuramente anche a mangiarli.
Una massa gelatinosa dai colori più
disparati, pappettine inorganiche dagli opinabili valori nutritizi che
galleggiano mollemente tra i vortici bianchi che il ragazzo crea col cucchiaio.
Ci sono un fantastilione di cose su
cui potrebbe concentrarsi, il problema è che lo sguardo puntato alla sua fronte
come un mirino vanifica ogni tentativo di focalizzarsi su altro. Tipo il
compito di scienze, l’appuntamento con Gwen, lo strappo da ricucire e quel
maledetto livido bluastro sul polpaccio destro che non ha la minima voglia di
riassorbirsi.
Ci vorrebbe Tony e un argomento
altamente scientifico a caso. Così, per smorzare la tensione e rendere meno
pesante l’aria già irrespirabile della cucina.
Peccato che il suo iper-tecnologico
genitore adottivo sia in ritiro spirituale nel Laboratorio da
approssimativamente tre giorni. Voci di corridoio –J.A.R.V.I.S.- assicurano che emerge dal suo antro a scadenze di sei
ore per prepararsi il caffè. Una coperta di lana è sparita dal salotto, quindi
forse ogni tanto dorme pure.
Ogni tanto.
“Non posso accompagnarti a scuola,
oggi.” Interviene Steve e le sue dita che gli scompigliano sono rassicuranti,
allentano un po’ il morso di disagio alla bocca dello stomaco “Vuoi che chieda
a Tony, se…?”
“No, no” Peter nega con un sorriso
sfumato sugli angoli “Va, ahm, tutto bene. Credo che…Credo che andrò con Gwen,
sì. Andrò con Gwen.”
Il genitore adottivo a
Stelle-E-Strisce fa cenno di sì con la testa, un moto di tenerezza guizza
veloce nel fondo degli occhi azzurri e subito scompare.
“Dovresti portarla qui, un giorno.”
Commenta, poi, dandogli una pacca sulla spalla –Con conseguente anchilosi
dell’articolazione acromio-scapolare- e portandogli via la ciotola col latte.
Deve aver pensato che quei poveri cereali sono stati torturati abbastanza e
Peter non sa come dargli torto.
Così si alza e prende lo zaino –Su tutte e due le spalle, soldato lo
ammonisce Steve ed è un rituale quotidiano così semplice che Peter non crede
potrà mai provocargli la nausea, né fargli saltare i nervi.
Strano a dirsi, ma il momento della
colazione è l’unico in cui tutti e tre, nel grande appartamento all’ultimo
piano della Tower, possono fingere di essere una famiglia come tutte le altre. Hai dormito bene? Cosa farai oggi a scuola?
Tony, per cortesia, potresti spegnere lo Stark-Padd mentre mangiamo? Pa’, ma
quelle tue deliziose frittelle…? Il ragazzo ha ragione, Rogie, quelle tue
deliziose frittelle…?
Steve può presentarsi con una felpa
grigia e dismessa buttata su una maglietta bianca da allenamenti, comportarsi
un po’ più da essere umano e meno da eroe nazionale. Prepara la colazione per
tutti, rigorosamente a mano e senza alcun intervento di pasticcerie salvo casi
eccezionali, saluta Tony con un bacio a fior di labbra sulla tempia e chiedendo
a Peter se ha infilato le dita nella presa di corrente, per avere i capelli
così dritti già di prima mattina. È rilassato, tranquillo, nessuno direbbe
abbia passato gran parte della propria vita dentro un costolone di ghiaccio e
che sia un residuato degli Anni Quaranta.
Insomma, avete mai visto un residuato
bellico degli Anni Quaranta sposato ad un eccentrico magnate il cui maggior divertimento
è svolazzare sopra Manhattan con addosso un’armatura cromata?
Peter lo considera una degli
spettacoli migliori di Madre Natura, soprattutto da quando lo ha beccato a
cantare The Man I Love di Billie
Holliday mentre rammendava la divisa di Capitan America.
Tony ha addirittura la possibilità
far cadere la maschera di sofferta sopportazione nei confronti del mondo. In fondo,
il figlio di Howard Stark è lo stesso uomo che da bambino lo ha tenuto accoccolato
sul petto perché perché si addormentasse alla luce del Reattore. Lo stesso uomo
che lo ha aiutato col progetto di scienze alle elementari ed è stato trascinato
via a forza per un orecchio perché Tony,
no. Il vulcano di Peter avrà la lava in cartapesta, non ne ricreerai una
cartuccia vera in laboratorio!
Lo stesso uomo che, quando sembrava
che per il Capitano non ci fossero speranze e il decadimento del Siero lo
avesse condannato a morte sicura[1], ha dormito nel lettino
con lui più di una notte. Accarezzandogli i capelli, dicendogli che sarebbe
andato tutto bene.
Steve gli ha raccontato che faceva la
stessa cosa, durante la degenza in ospedale: gli si stendeva di fianco, gli
circondava la vita con un braccio e si metteva tempia contro tempia su di lui,
stringendolo come se temesse di vederlo andare via da un momento all’altro.
Ne hanno passate e continuano a
passarne talmente tante, che un briciolo di normalità è necessaria per non
perdere del tutto il senno. Ed è andato tutto bene, davvero, tutto a
meraviglia…Fino a quando non è comparso il Soldato d’Inverno e la situazione è
andata completamente a rotoli.
Tre Giorni Prima –
E’ una di quelle serate in cui stare
a casa non è un consiglio, ma un obbligo morale.
Tira vento, tuona, lampi e fulmini,
la pioggia si abbatte e scroscia contro i vetri con una furia che nemmeno
Tempesta nei suoi momenti peggiori sarebbe in grado di scatenare. Le enormi
finestre della Tower mostrano un cielo devastato e sconquassato, vomitare di
nuvole e rombare di elettricità statica: pur trovandosi al sicuro nel salone,
Peter non può fare a meno di sentirsi a disagio, appena impaurito.
Il Senso Di Ragno è praticamente
impazzito e la testa è un guazzabuglio infernale di tintinnii e ronzii. Si è
preparato addirittura una camomilla nel tentativo di frenare quel rigurgito
grottesco di panico e allerta, tuttavia niente sembra funzionare. Si è avvolto
nella coperta a scacchi blu e rossi, si è rannicchiato all’estremità del divano
e la tazza col simbolo di Batman spande un piacevole tepore sui palmi delle
mani. Ha evitato di accendere il televisore, ha persino chiesto a J.A.R.V.I.S.
di tenere le luci spente: il pizzicore al retro della nuca ed il mal di testa
che fascia la fronte come una benda al titanio sono così forti da averlo reso
fotofobico.
Fosse qualche supercriminale da
strapazzo, gli basterebbe indossare il costume di Uomo Ragno, flettere i
muscoli ed essere nel vuoto. Nessun essere strambo e nessuno spostato
egomaniaco sta facendo i propri comodi in città: ha assillato Tony fino alla
nausea, per scoprirlo, portandolo all’esasperazione. Uscendo di casa, Peter lo
ha avvertito chiaramente borbottare qualcosa riguardo le crisi adolescenziali
tardive.
Per un attimo, il ragazzo ha sentito
l’impulso di correre alla porta, stringere un braccio del padre e pregarlo di
rimanere. Si è trattenuto a stento e soltanto perché non è più un bambino di sette
anni che guarda i film dell’orrore con Clint e passa poi la notte raggomitolato
in mezzo ai genitori, timoroso di qualsiasi rumore non siano i loro respiri od
il frusciare delle lenzuola.
Però averlo lì sarebbe di aiuto. Fare
battute scontate sul temporale e su Thor, inventarsi di sana pianta qualche
progetto a caso, passare il tempo facendo zapping in televisione e finendo con
un improvvisato incontro di box sul pavimento.
La solitudine lo sta facendo
impazzire e non avere la benché minima di dove sia Steve non contribuisce a
migliorare la situazione. Non è la prima volta che suo padre incontra qualche
ostacolo nel rientro, anche se è uscito solo per comprare le uova, ma mai prima
di allora Peter ha avvertito ondate di terrore e pericolo così intense.
La spina dorsale gli trema, le
vertebre tintinnano l’una contro l’altra, il respiro è bollente dentro la
trachea e incendiano i bronchi con spasimi sempre più forti. È un attacco di
panico in piena regola e gli attacchi di panico in piena regola non sono mai,
mai un buon segno.
Non da quelle parti, almeno.
Un ruggito di brividi, il Senso di
Ragno esplode un attimo prima che nel salone riverberi la sirena d’allarme di
J.A.R.V.I.S. Se non fosse che i suoi genitori sono del tutto all’oscuro della
sua identità di Arrampicamuri, Peter sarebbe già pronto col costume, un
trucchetto sfigato ed una battatuccia.
Sferragliare di lamiere,
un’imprecazione, l’allarme che si blocca all’improvviso. Peter aggrotta la
sopracciglia.
Qualcuno ha dato l’ordine di interrompere
la sirena e a giudicare dalla sonora imprecazione Per tutti i diavoli dell’Inferno e i Santi del Paradiso! Quella
persona è un attempato eroe americano a stelle e strisce con una sorpassata
fantasia per l’aiscrologia.
Le porte dell’ascensore si aprono e
Peter non fa in tempo ad arrivare nell’atrio, che Steve si sta già trascinando
verso la cucina, lasciando dietro di sé una scia di pioggia e sangue. I capelli
biondo cenere sono un disastro, impiastricciati di rosso e di acqua piovana; la
polvere abbruttisce i lineamenti rigidi del volto, uno squarcio scarlatto si è
aperto dall’angolo destro dell’occhio ben oltre lo zigomo; la giacca blu è
lacera, una manica strappata via; le nocche sono sbucciate, una vistosa
ecchimosi si allarga alla base del collo e Peter non ha dubbi sul fatto che ne
deve avere una gragnola sparsa un po’ dappertutto sul torace.
E se quello spettacolo non fosse già
abbastanza preoccupante di per sé, si aggiunge il fardello che Steve sta trasportando
su una spalla: una marionetta, di primo acchito, un insieme disarticolato di
membra messe un po’ a caso, un po’ blandule e un po’ pendule, che s’ammosciano
e dondolano, che tremano e si scuotono, simili agli anelli di una catena
arrugginita.
Poi Peter comincia a notare dettagli,
particolari, uno dopo l’altro, in sequenza, tasselli ad incastri sempre più
stretti. Vede i capelli scarmigliati e unti che s’accartocciano sopra la gola.
Vede il profilo dritto del naso, la piega trasversa del setto, il sangue
seccato sotto le narici. Vede la bocca ansimante, la piega storta che ha
assunto nello spasimo del ringhio, nel dolore e nella rabbia. Vede il livore
della pelle, l’abbassarsi convulso del torace e del petto, il lavorio faticoso,
incessante dei polmoni, le scosse che vibrano lungo la spina dorsale curva su
se stessa, un eruttare cremisi all’altezza del ventre.
Gli abiti sono bianchi di polvere,
macchiati in più punti di una sostanza marrone rappresa, squarciati in altri a
far intravedere la pelle di biacca, cosparsa e maculata di ematomi. Graffiare
di scintille, listelle, pieghe di metallo inanellate tra loro compongono un
arto che non ha più nulla di umano: lucido, scintilla e vibra, ronza come un
macchinario malfunzionante. Le dita sono bulloni scassati, un intrico di
rigature ed incisioni, una stella rossa campeggia sullo spallaccio.
Peter non riesce a staccargli gli
occhi di dosso e ha il suo nome sulle labbra ancora prima che il padre dica
alcunché al riguardo.
“Pa’!” esclama –Urla e la voce gli si
blocca nella trachea, il polmoni si strizzano, la paura la fa da padrone. Il
Senso Di Ragno è un vociare confuso, è un vortice di terrore e panico.
Gli animali si rifugiano il più
lontano possibile dal pericolo non appena lo percepiscono ed il ragazzo
sciorina mentalmente tutti i luoghi in cui potrebbe nascondersi, in cui il
fardello trasportato dal Capitano non è in grado di raggiungerlo.
Con sommo scorno, non ne trova
nessuno di valido.
“Pa’!” Peter si impone di ingoiare lo
spavento “Pa’! Cosa fai? Cosa ci fa qui? È il Soldato d’Inverno!”
“Aiutami a portarlo in salotto.” È la risposta del padre e non c’è posto per il
dubbio, rancore od esitazione.
Al contrario suo, di esitazione il
ragazzo ne ha da vendere ed è allora che il volto di Steve si trasfigura.
“E’ un ordine, soldato!”
Se non fosse suo padre, Peter se la
farebbe sotto dalla paura.
No, non diciamo bugie. Se la farebbe
sotto volentieri anche adesso, anche se è suo padre: grazie al cielo ha i
muscoli talmente irrigiditi da non riuscire a reagire a nessuno stimolo
corporale.
Balza in avanti soltanto perché la
voce perentoria del Capitano sarebbe capace di far muovere una statua di gesso
e perché, lo nota ora, la maglia di Steve è zuppa di sangue all’altezza del
fianco ed un rivolo scarlatto bagna i pantaloni color kaki, si spande
attraverso le cuciture e le ramificazioni del tessuto, scivola a terra,
s’allarga, crea una grottesca parodia delle briciole di Pollicino.
Portare il Soldato d’Inverno fino al
divano è un’impresa. L’uomo non si ribella alle loro manovre, eppure ogni fibra
del suo essere si sta adoperando per rendere il lavoro il più difficoltoso
possibile. Le ginocchia cedono appena Peter si fa passare il braccio metallico
sulle spalle, costringendolo a sopportare il doppio del peso. La punta degli
anfibi stride contro le piastrelle, la testa ciondola in avanti sullo sterno,
non una scintilla di vita scocca in quel fagotto di carne.
Solo quando riescono finalmente a
sistemarlo sui cuscini e col capo reclinato in obliquo contro la spalliera,
Steve si concede di respirare. Quasi crolla sul bracciolo dal lato opposto a
dove hanno abbandonato il Soldato. Peter, dal canto proprio, si appollaia sulla
poltrona, ben distante da quella figura gettata a casaccio sul divano del
salotto, più simile ad un sacco della spazzatura che ad un essere umano.
Od anche solo un essere vivente.
Il padre alza gli occhi su di lui,
non dice una parola. Sfortunatamente, il Capitano sa essere comunicativo con un
semplice sguardo. La richiesta di aiuto nel fondo delle iridi chiare è un colpo
al cuore, un attacco deliberato all’astio che mina e sommerge, annega il cuore
del ragazzo.
Conosce abbastanza bene le imprese
del Soldato d’Inverno per provare un odio considerevole nei suoi confronti.
Pena ed odio insieme, se si vuole essere precisi, perché se da un lato sa che
davanti a sé ha l’assassino dei genitori di Tony, dall’altro i suoi occhi sono
insistentemente posati sul migliore amico di Steve, sul Bucky buono e
caritatevole, un po’ sfrontato, un po’ spiazzante, coraggioso come pochi e onesto
come nessuno mai, lo stesso Bucky che era il miglior amico del padre e gli ha
salvato la vita più di una volta.
Steve non vede il folle assassino che
l’opinione pubblica vuole mettere alla gogna.
Così come Tony, nell’esatto istante
in cui irrompe trafelato, con la cravatta di traverso e la camicia incollata
alla pelle per la pioggia, i capelli umidi sulla fronte e sulle tempie, non vede
oltre il terrorista, l’uomo col fucile che è stato la fine della sua infanzia.
“Cosa ci fa lui qui?” sibila e c’è
tanto freddo negli occhi ridotti a fessura, che Peter avverte il gelo
penetrargli nelle ossa e ramificare attraverso il sistema cardiocircolatorio.
Un barlume di coscienza, alla voce di
Stark, guizza nel pupazzo inanimato ammonticchiato accanto a loro. Non si
drizza, non si muove, non emette suono –All’inizio. Poi uno sfarfallare di
ciglia brune, i muscoli agli angoli della bocca hanno un tremito, le labbra
vengono tagliate di traverso da un ghigno selvatico, di ferina commiserazione e
devastante malinconia.
“Mi ricordo Howard.” Sussurra.
Quelle parole paiono provenire da
qualche antro dimenticato da Dio. Chissà da quanto non parla, da quando la
lingua non articola e modella fonemi, frasi, ma unicamente rumori grezzi,
appena abbozzati, versi da cavernicolo, animali, grugniti e ringhi. Chissà, si
chiede, se ad aver fatto quel commento è stato il Soldato d’Inverno o Bucky, se
è maligno sfottò o un dolceamaro ricordo cui aggrapparsi per rimanere avvinghiati
ad un ultimo straccetto di umanità.
Tony sta per saltargli addosso. Sta
per richiamare l’armatura, pronto a stringere le manopole cromate attorno alla
carotide, pregusta già il riverberare delle ossa che si rompono e frantumano,
una scossa di acida vendetta che aspetta soltanto di partire.
Peter avverte il desiderio del padre
avvelenare l’atmosfera circostante e colare in una goccia cupa, enfia nelle
iridi intirizzite di avversione. Gli tremano i polsi, può quasi sentire il
puzzo della sua ira.
Se non fa nulla, se non agisce e si
ferma, è solo in virtù del bisbiglio di Steve, pacato e calmo. È un paragone
abusato, decisamente stupido, ma per il ragazzo accosta quel mormorio alle
piume di una colomba: è altrettanto bianco, altrettanto morbido.
“Tony.”
Non ha mai sentito i suoi padri
adottivi chiamarsi con nomignoli patetici, affettuosi e caramellosi. Non ne
hanno bisogno. C’è così tanto tutto
nel modo in cui pronunciano il nome dell’uno e dell’altro, che il ragazzo lo
considera l’esempio calzante dell’Amore, dell’Affetto, della Complicità e
dell’Unione. Gli viene in mente la sera in cui hanno guardato The Normal Heart, proprio in quella
stanza, proprio su quel divano.
Sono stati entrambi zitti fino alla
fine del film, tanto che Peter temeva di aver commesso un errore, che non fosse
piaciuto, che non avessero apprezzato nemmeno l’interpretazione dell’attore che
somiglia allo zio Bruce.
Alzata la testa –Lui sedeva ai loro
piedi, sul cuscino trafugato dalla poltrona- era sul punto di scusarsi quando
lo sguardo si è posato sulle dita intrecciate dei due: tanto le nocche di Steve
quanto quelle di Tony erano bianche dallo sforzo, dalle tensione, dai palmi
pressati con forza, a non voler far passare neanche un filo d’aria.
“Tony.”
Non serve nient’altro.
Adesso –
“Lui è ancora lì?”
Peter contrae un poco la bocca e
annuisce, svelto.
Tony è nel ritaglio d’ombra che
dall’atrio porta alla cucina. Occhieggia alla soglia, tende il collo, socchiude
le palpebre, sembra un evaso nella propria casa.
Hanno urlato e gridato, dopo che
Steve lo ha convinto a sistemare il Soldato d’Inverno in una camera sorvegliata
a vista da J.A.R.V.I.S., con chiusura ermetica –Stark ha anche proposto la
maniglia elettrificata e quei venti minuti sono stati annoverati da Peter nella
lista dei venti minuti peggiori della sua vita alla Tower
“Mh mh.” A disagio, Peter sistema lo
zaino “Io dovrei…” e indica con un dito le porte dell’ascensore.
Ma il padre non lo ascolta e
giochicchia con un cacciavite, osserva il profilo del Soldato d’Inverno come se
volesse trapassarlo da parte a parte con lo strumento appuntito.
“Steve, maledetto testardo.” Impreca,
al che Peter si gira e vede il Capitano tendere un piatto di uova strapazzate
verso Bucky.
Tre giorni che il Soldato è lì con
loro e non ha ancora toccato cibo. Probabilmente si nutre di ossigeno, di
anidride carbonica o dei biocchi di polvere ammonticchiati agli angoli della
stanza in cui è rinchiuso. Se non fosse che la polvere è bandita dalla Tower
insieme ai cibi macrobiotici e agli hambuger vegetali, l’ultima non sarebbe
un’ipotesi così campata per aria.
“Almeno ha smesso di metterti un’arma
tra le mani quando ti vede. E’ un miglioramento, no?”
L’altro sbuffa e sbotta una risata
sarcastica. Peter capisce che, no, Tony non lo considera affatto un miglioramento.
“Secondo tuo padre, lui” il pronome è un sibilo serpentesco
“Lo faceva come misura preventiva. Perché potessimo renderlo inoffensivo, in caso
di ribellione.” Stark contrae la mandibola “Che continui pure ad ammansirlo con
moine e manicaretti. Per la mente bacata di quello
lì noi siamo uguali ai tipi che gli candeggiavano il cervello se solo osava
dire bah. Non ricorderà. Non
ricorderà mai nulla.”
Ecco spiegata la misura preventiva, commenta fra sé Peter. Rimette insieme i pezzi,
brandelli di conversazioni e vecchi racconti, ricordi sbrindellati di quando
aveva dieci anni e sulla testa di Steve c’era una taglia da capogiro e lo
S.H.I.E.L.D. si era rivelato un covo di vipere ed era crollato sulle sue stesse
fondamenta.
Troppo piccolo per capire a fondo,
Peter aveva approfittato di Steve addormentato sul tavolo della cucina per
trafugare il dossier relativo al Soldato d’Inverno. Se si concentra, può
sentire sotto i polpastrelli la cartelletta ruvida color pulce, il fruscio dei
fogli, la grana grossolana dell’inchiostro, le graffette smangiate dagli anni.
I caratteri precisi della macchina da scrivere sono netti e nitidi agli occhi
della mente, così come l’istantanea del Soldato d’Inverno dietro l’oblò della
camera in cui è ibernato, e le tinte color seppia della fotografia che ritrae
il sergente James Buchanan Barnes in alta divisa e capello calato sulla fronte
piana.
Non ci ha capito molto, all’epoca,
pur essendo un ragazzino già sveglio e abituato a lambiccarsi il cervello sui
progetti e sui prospetti iper-tecnologici di Tony. O forse non voleva capire, perché per un bambino di dieci anni il mondo è
sempre di degno di essere salvato.
Anche quando un povero ragazzo di
Brooklyn viene trasformato in una macchina da guerra. Anche se questa macchina
da guerra viene costretta ad essere cancellata ogni volta che si sveglia e si
riscopre uomo. Anche se questa macchina da guerra sa di avere una pistola
puntata alla testa, perché ogni volta che si sveglia e si riscopre uomo
l’istinto lo porta a ribellarsi, a mordere la mano del carnefice e la mano dei
padroni non si morde, no, la si bacia, si baciano loro i piedi, si dice sì, sì,
si dimenticano amici ed affetti, se i padroni così comandano, e se non si
obbedisce allora bisogna essere uccisi, eliminati, ed è giusto, è giusto perché
lo dicono i padroni, e ai padroni non si dice no, si dice sempre di sì, sempre
sì, sempre di sì.
“Pa’ non smetterà mai di sperare di
poterlo salvare.”
Peter abbassa gli occhi nel
sussurrare quella verità inconfutabile, struscia il piede a terra come se fosse
una cosa da bambino cattivo mettere Tony davanti alla realtà dei fatti.
“Darebbe la vita per lui.” Gli fa eco
Stark “E Dio solo sa se non lo ha quasi fatto già una volta.”
Il ragazzo decide che non vuole più
aver a che fare con quella storia e quella stanza e si invola nell’ascensore,
pigia il tasto del piano terra, sospira di sollievo quando le porte si chiudono
e lui può finalmente appoggiare la nuca alle pareti lisce.
Nel prendere quel respiro, però,
inala l’odore asettico dei medicinali e si ritrova proprio malgrado in una stanza
d’ospedale, a fissare Steve addormentato, stretto stretto in lenzuola azzurro
pallido, con indosso una camiciola rigida a pallini blu. Conta di nuovo i graffi
sotto l’occhio sinistro, misura alla meglio la lunghezza del taglio al labbro
inferiore, si chiede se la tempia riprenderà mai un aspetto normale oppure,
quando ci passerà sopra le dita, i polpastrelli gratteranno la pelle sfogliata
e sbucciata come sopra i dentelli di una grattugia.
Trouble
Man
ondeggia di sottofondo e Peter chiede a J.A.R.V.I.S. di far partire Gone Gone Gone, di modo che le note
riempiano abbastanza l’ascensore e coprano il lamento dell’I-Pod della sua
memoria.
Spiegargli tutto deve essere stato
per Steve più difficile di qualunque missione contro qualsivoglia nemico.
Raccontare del prima e del dopo, di Bucky –Lo zio Bucky, come cinguettava allegramente un bimbetto di cinque anni
non appena il padre si sedeva sul materasso e cominciava ad intrattenerlo con
una vecchia impresa di guerra-, di ciò che era stato, da cosa e da chi era
dovuto fuggire, perché era fuggito, perché lo aveva lasciato giornate intere
con le manine sul vetro della finestra, a scrivere il suo nome sulla condensa di
fiato.
Ricorda Tony una presenza dietro le
loro spalle, niente più di un fantasma, più cupo di un avvoltoio. Sa perché
tanto astio nei confronti del Soldato d’Inverno. Non è soltanto per Howard e
Maria, non è soltanto per lo schianto e le lamiere in fiamme, la terra brulla
del cimitero, la lapide grigia e le parole vacue del prete e condoglianze
patetiche, prive di conforto. Non soltanto per quello, ma anche per Steve
trascinato via dalle acque più morto che vivo e l’espressione abbattuta ad ogni
ricerca fallimentare, la fatica e le notti insonni e Peter con il pupazzo di
Batman stretto al petto che occhieggia da dietro lo stipite e vede Tony
inginocchiato davanti al divano, davanti a Steve crollato sui cuscini, e Tony
gli passa una mano fra i capelli, gli riavvia una ciocca bionda caduta sulla
fronte, Coraggio, ragazzone mormora e
poi gli sussurra un bacio sulle labbra Lo
troverai. Io sono qui. Sarò sempre qui.
Un andare da una parte all’altra del
mondo a raccattare pezzetti sconclusionati dello S.H.I.E.L.D., a riportare
gente tra i ranghi e tirare indietro lo zio Clint prima che spacchi il muso ad
un redivivo Coulson, e correre di qui, Europa, Africa, Asia, saltare di là,
Paesi Balcanici, Germania, Islanda, cinque anni passati a tendere la mano in
avanti e stringere il fumo tra le dita.
“Oggi non torni a casa?”
Gwen indossa un maglione di filè rosa
antico a collo alto, una gonna nera alle ginocchia, calze di nylon dai mille
riflessi dorati e stivali al polpaccio, senza tacco. Uno spolverino beige è
appoggiato sulle sue ginocchia e ogni tanto lei ci passa le dita sopra, sistema
un bottone, ne segue il contorno circolare coi polpastrelli. Ha i capelli
raccolti in una coda alta, uno spesso cerchietto marrone scuro le copre le
ciocche tirate all’indietro e scompare dietro le orecchie.
Peter si accorge di starla fissando
da un po’ troppo tempo quando nota le sue sopracciglia sottili arcuarsi ed
ingrandire maggiormente gli occhi già sottolineati dall’eyeliner. Dio, quanto è
bella. E’ luminosa, incontrastabile, è una risata cui si accorda l’intera
armonia universale e santo cielo, ragazzo, ora stai esagerando.
Sono seduti su una panchina di
Central Park, il sole riscalda le loro schiene. Spalla contro spalla,
accovacciati nell’erba che sa di pioggia lontana e si stiracchia in palpiti
verde brillanti, osservano il via via dei passanti, sorridono ad un bambino che
rincorre un amichetto facendo finta di sparare ragnatele dai polsi, Pium! Pium! fa con la bocca e bollicine
di saliva gli esplodono scivolose in mezzo alle labbra. Ci sono coppie e
coppiette, ragazzette allampanate con gli anfibi, un studentello esile che
cammina ingobbito, le mani in tasca e la testa incassata tra le spalle, un
gruppetto di liceali che affondano disperati la testa tra i libri, persino due
signore che si tengono per mano e si guardano l’un l’altra come se non esistesse
nulla al mondo.
“Non ne ho voglia.”
Peter svia gli occhi indagatori di
Gwen e tamburella le dita sulla curva del ginocchio.
“Perché?”
“Motivi vari.”
“Gli hai detto…” la ragazza si
osserva guardinga all’intorno, poi si china su di lui. Peter può sentire il suo
fiato sul lobo dell’orecchio e i peli dietro la nuca si rizzano, un brivido
sgambetta ridacchiando lungo la spina dorsale. “Di quella cosa?”
“Oh, Gwen. I miei sanno da sempre
della mia seconda vita da ballerino di can can al Moulin Rouge.”
Lei ride e Peter si chiede se il sole
è diventato più abbagliante, oppure se ha una commozione cerebrale in corso.
Alla fine, alla Tower ci sono tornati
davvero.
Mia
madre sarebbe felice di averti a cena, Peter, lo sai, ma qualunque cosa non
vada devi affrontarla.
Gwen potrebbe convincerlo a fare
tutto. Tranne rivelare ai suoi genitori di essere l’Uomo Ragno, naturalmente.
Per quello che ci vorrà tempo, sessioni quotidiane di training autogeno,
autoconvincimento allo specchio, magari una consultazione dall’astrologo ed un
colloquio con la testa di Mimir, tanto che si è nelle spese –Peter è sicuro
che, se glielo chiedesse, lo zio Thor lo accompagnerebbe ad Asgard più che
volentieri. È il suo figlioccio preferito, in fondo, e più di una volta lo ha
invitato ad assistere alle battaglie degli eroi di Odino, nei campi sterminati
su cui si rinfrangono i mille riflessi dei gallo d’oro di Asgard.
Bevi e
banchetta con noi, giovane Peter! È solito berciare il dio nordico,
battendosi il pugno poderoso sul petto e alzando la mano, imponente come non
mai Berrai l’idromele di mio padre, ti
ciberai del maiale le cui carni si assaporano la sera e già la mattina son
tornate al loro posto, sulle ossa e sui nervi.
A Peter non dispiacerebbe accettare.
L’idea di entrare in contatto coi prodigi magico-tecnologici di Asgard lo
stuzzica, la prospettiva di carpire qualche meccanismo e discuterne con Tony
anche di più –E poi c’è da considerare la non trascurabile presenza di Lady Sif
e delle Valchirie.
Curiosità accademica, dice ogni volta
che Steve lo rimprovera per quella che considera una mancanza di rispetto nei
confronti di Gwen.
Ha
ragione lui, Steve lo
sostiene Tony Magari scopre che la sua
bella è una delle fortunate toccate da Odino.
Certo, il ragazzo sa che suo padre
scherza quando se ne esce con quella battuta, ma deve ammettere che gli è già
capitato di immaginarsi Gwen vestita d’un bianco mantello di piume di cigno.
Pieno
d’orgoglio è quel guerriero che può vantare una Valchiria come moglie! È solito berciare
il Principe di Asgard e il cuore di Peter fa sempre un buffo balzo nel petto.
Quando le porte dell’ascensore si
aprono, il ragazzo non è stupito di non trovare nessuno ad accoglierlo: Steve
sarà chiuso nella stanza del Soldato d’Inverno per portare avanti la sua folle
crociata, mentre Tony sarà in ritiro eremitico nel Laboratorio per non pensare
a Steve chiuso nella stessa stanza col Soldato d’Inverno.
Gwen lo precede e osserva affascinata
l’intorno, fa una giravolta, la gonna si solleva in un sbuffo di tessuto, la
coda di cavallo le balzella sulla spalla destra, sulla guancia, nasconde un
istante il profilo degli occhi, l’attimo dopo è già a balbettare tra le
scapole.
“E’…enorme!”
“E’ più grande all’interno.”
La risata di lei guizza nella luce
che filtra dai vetri e quando si azzittisce, per Peter è come se qualcuno
avesse premuto l’interruttore. Non comprende il motivo di quel silenzio
improvviso fino a che non muove anche lui qualche passo in avanti: gli occhi
allora sgranano, il fiato si appende alla gola e il primo istinto è di sventolare
la garanzia sotto il naso di chi ha progettato gli iper-sensi del ragno che lo
ha reso il vigilantes più simpatico del quartiere –Alla pari con zio Clint,
quantomeno.
Il Senso Di Ragno non ha funzionato,
non ha vibrato, pizzicato, né fatto alcunché. Nessuna sveglia stile Nokia Tunes o flemmatico tipo
J.A.R.V.I.S. la mattina, niente di niente.
Eppure lui è lì. Sul ciglio che divide l’atrio dal salotto e sta fissando
Gwen.
No, non la sta fissando. La sta
letteralmente ingoiando dentro le
pupille, giù per la gola, spinta nelle vene, pigiata a forza dentro i
capillari, premuta all’interno dei bronchi, spezzettata negli alveoli perché
ogni respiro sappia costantemente della sua figura, del suo viso, della sua
espressione perplessa e dei capelli come oro colato, tagliati di traverso dal
sole che li spia dallo stipite.
Il Soldato d’Inverno la sta guardando
con la stessa reverenza che si usa davanti ad una apparizione mistica. Non si
muove per timore di toccarla e mandarla in pezzi, ma i suoi muscoli sono in tensione,
il cervello è combattuto, Peter è sicuro che il cuore presto schizzerà fuori
dal petto tale è la violenza con lui lo sente battere contro la cassa toracica.
Il braccio di metallo sprizza e spruzza scintille, il volto di Gwen vi si
riflette sopra in mille piegoline d’argento liquido.
Il ragazzo sta per dirle qualcosa,
sta per intimarle di allontanarsi, quando Steve appare trafelato alle spalle di
Bucky e si blocca a neanche un metro da lui. Nel frattempo Gwen ha alzato la
mano senza girarsi, domandando a tutti, lì dentro, silenzio ferreo e immobilità
assoluta.
La bocca del Soldato d’Inverno si
apre a brancicare versi rochi da gazza. Annaspa, la lingua sussulta e picchia
sul palato, sui denti, la gola sgratta rumori, scardina le corde vocali, raspa
alla ricerca di una voce che non è in grado di trovare.
Steve è pronto a scattare al primo
accenno di pericolo. Peter, invece, non sa bene che fare. Da una parte vorrebbe
afferrare il polso di Gwen e correre via, appendersi ad un lampione e gettarsi
nel vuoto con lei, ragnatela dopo ragnatela.
Dall’altra, però, il mutismo
imperterrito del suo personale campanello d’allarma lo perplime alquanto.
Andare o restare? Fuggire o vedere quel che succederà? Intervenire o meno?
Un sussurro maligno affonda i denti
nel suo cervello e gli ricorda che, se avesse agito quando era necessario,
Happy sarebbe ancora con loro. E l’Uomo Ragno non avrebbe mai fatto la propria
comparsa sui tetti di New York. L’eco dello sparo che ha portato via la vita di
Hogan gli esplode dentro le orecchie nell’istante in cui un rantolo incredulo
abbandona la gola del Soldato D’Inverno.
“Jacqueline.”
Dietro di lui, il Capitano si
irrigidisce, il colore gli scompare dalle guance.
“Jacqueline” ripete Bucky e c’è vita,
nei suoi occhi, un sorriso affiora alle labbra. È tremulo, pare di vederlo
sotto il pelo dell’acqua, ma esiste, è lì, e l’uomoringiovanisce di anni, la
pellicola della sua storia si riavvolge, torna indietro, rewind in bianco e nero.
“Jacqueline, sei tu?”
Gwen si umetta le labbra e sorride di
rimando, annuisce con calore.
“Sì” risponde, sicura “Sì, sono io.”
“Steve” sussurra il Soldato d’Inverno
e l’esaltazione è la stessa del bambino che scarta il regalo tanto atteso sotto
l’albero di Natale “Steve è Jacqueline!”
Peter non ha mai visto suo padre
piangere. Non è nemmeno questo la volta, ma il suo sospiro è pura commozione
inghirlandata di lacrime.
L’idillio non è durato che cinque
minuti.
Forse anche meno.
Come l’intero essere del Soldato
d’Inverno si è acceso, colto da un istinto, preda di un impulso più radicato di
qualunque condizionamento, così si è spento. La corrente si è staccata, è
tornato all’immobilità, taciturno e scontroso. Li ha osservati con astio, li ha
scrutati uno per uno e quindi si è defilato, simile ad un gatto. Veloce, è
arretrato, inglobato dalle ombre del corridoio ed è scomparsa. Steve lo ha
seguito con occhi spaesati, non ha neanche detto: Fermati.
J.A.R.V.I.S. li ha avvisati che Bucky
si era rinchiuso nella propria camera ed è calato il silenzio. Il Capitano ha
serrato le palpebre. Ha sospirato. Li ha invitati a prendere una cioccolata
calda.
Peter ha in testa l’immagine di suo
padre ritto davanti ai fornelli che narra a lui e a Gwen di Jacqueline
Falsworth, alias Spitfire, una ragazza inglese che li ha aiutati entrambi
durante la Seconda Guerra Mondiale. Tony è apparso dal nulla, emerso dal
pavimento come uno dei suoi trabiccoli e si è piazzato sulla sedia al lato
corto del tavolo di linoleum.
Non c’è stato bisogno di chiarire a
Gwen della vera identità di Steve Rogers, conosciuto dall’opinione pubblica e
dalla stampa come il disegnatore che ha conquistato il cuore del magnate Stark
e lo ha acchiappato con un retino di inchiostro, infilandogli un anello al
dito. Peter, ovviamente, le aveva già detto tutto, ma è una dote magnifica,
quella di lei, di spingere le persone a raccontare e raccontarsi.
Puoi
fidarti,
assicurano il suo viso e i suoi occhi, e Dio solo sa quanto sia vero.
Dalla superficie densa della
cioccolata si sollevava un filamento bianco e aromatizzato alla cannella e
Steve continuava a parlare, a dipingere per loro le ampie brughiere
britanniche, la nebbia, il lezzo delle sigarette a buon mercato che impastavano
le bocche, l’amarognolo sapore delle foglie di thè fatte bollire alla buona in
una casseruola sgangherata e scassata. Ha abbozzato la figura di Jacqueline, ad
un certo punto, su un foglio di carta assorbente, con una penna a sfera. Dai
tratti aguzzi dell’inchiostro è emersa una donna dai lineamenti appuntiti, gli
occhi allungati e volute di capelli mossi, ritorcimenti di riccioli adagiati
sulle spalle; un personaggio femminile sguardo di volpe e il corpo affusolato,
una fanciulla dalla vita sottile, giovane invecchiata dalla guerra, la fatica,
le perdite.
Il sole è sceso, un tappeto arancione
si è srotolato sulle piastrelle traslucide del pavimento. Gwen ha scostato la
sedia, ha ringraziato, ha rifiutato con garbo la proposta di rimanere a cena e
Peter l’ha accompagnata a casa.
Non si sono detti niente su quanto è
successo alla Tower e quando l’ha lasciata sulla soglia di casa, Gwen si è
alzata sulle punte dei piedi e gli ha dato un bacio sulle labbra.
Va’ da
loro, Peter
e non ha aggiunto nulla.
Lui è rimasto un po’ a guardare il
proprio riflesso sulla porta e vetri, un quindicenne smilzo con la giacca
larga, il cappuccio della felpa fuori dal colletto e le mani affondate nelle
tasche. L’ombra della ragazza è defluita liquida oltre l’atrio, finché della
sua presenza non è rimasto niente di più di un alone impalpabile di profumo.
Il cammino di ritorno alla Tower è
stato quasi sovrannaturale, un sogno di nuvole di asfalto paffuto e luci
liquorose, gemme bulbose su stuzzicadenti di metallo ai lati delle strade,
infissi su tasselli di marciapiede. Non ha memoria di chi ha incontrato, se è
stato mandato a quel paese da qualche tassista furioso, se ha guardato prima di
attraversare, se c’era Devil a fare la ronda o se in lontananza si udiva il
rombo di una Harley Davidson WLA Liberator del 1942, il fischio di uno scudo,
il fragore del tuono, lo schiocco della freccia, lo sfrigolio ronzante di un
repulsore.
Quando arriva nel quartiere le stelle
sono già al loro posto, sassolini bianchi a segnare il cammino del cosmo.
È una notte dannatamente tranquilla,
New York sta trattenendo il fiato o forse è solo lui ad essere piuttosto
suggestionabile, quel giorno. Gironzola una ventina di minuti buoni attorno
alla Torre, non se la sente di superare le porte scorrevoli ed entrare in
ascensore.
Gli viene in mente che non è
costretto a farlo.
Con un sorriso, Peter fa scivolare lo
zainetto su un braccio, apre la zip della taschetta anteriore e rovista un po’
in mezzo a tutti gli oggettini e i gingilli che ci ha piazzato dentro. Ne trae
fuori una piastrina di circa due centimetri, spessa appena tre millimetri:
sembra una cosetta innocua, un affare da nulla raccolto per strada, un
mattoncino da costruzione.
Peter ha impiegato una settimana di
notti insonni per metterlo insieme. Quella minuscola meraviglia è in grado di addormentare
il sistema centrale di J.A.R.V.I.S. quel tanto che basta a dargli il tempo di
svicolare dalla finestra di camera ed impedire all’AI di avvertire i genitori
della sua assenza e del suo rientro. E’ da almeno sei mesi che lo usa per
coprire le attività dell’Uomo Ragno e ancora non l’ha tradito: lo considera un
buon segno.
Fischietta e si incammina con
nonchalance in una viuzza laterale alla Tower. Ha studiato la planimetria e le
sezioni digitali della Torre e nei dintorni ha scoperto esserci un puntolino in
cui si raccolgono e coagulano le cariche energetiche di piani specifici della
struttura. Altri sono dislocati nei sotterranei, nel garage, in terrazza,
nell’attico o al locale lavanderia. Basta appoggiare il gingillo proprio sopra
il nodo elettrico ed ecco, le zone ad esso collegate si spengono senza un
rumore, J.A.R.V.I.S. nemmeno se ne accorge. Un punto cieco, uno sfasamento di
sette minuti che non viene neanche registrato dall’AI.
La bravata gli è costata più di un
richiamo da parte dei professori, per tutte le volte che è stato scoperto
addormentato con la testa sul banco, ma ne è valsa la pena.
Il micro-pannello si illumina di
azzurro, emette un bzz, Peter lo
stacca e da lì inizia il conto alla rovescia. Assicurando meglio lo zaino e
facendo attenzione che il fianco sia ben nascosto dai passanti, il ragazzo
appoggia prima una mano e poi l’altra sulla parete liscia e che, senza
l’intervento del marchingegno, sarebbe pure elettrificata. Poi si puntella con
i piedi e comincia la scalata.
Giunto quasi alla finestra della
propria camera devia il percorso. Non di tanto, giacché basta poco per
sconfinare nella parte ancora sotto la protezione dell’AI. Si attacca ben bene
al muro, prende un respiro, deglutisce e piega le spalle all’indietro, incurva
la schiena, tende il collo, spalanca gli occhi.
Di sbieco intravede una porzione
della stanza dei suoi genitori, riflessi mosaicati sul vetro, profili delineati
a china.
Steve è steso sulle lenzuola ancora
fatte e ha gli occhi puntati al soffitto. Sta raccontando qualcosa di
evidentemente importante, visto la foga del suo gesticolare, e la velocità con
cui si muove la bocca e il marcato sollevarsi delle sopracciglia. Il braccio
destro è alzato, il polso ruota, quello sinistro invece è stretto alla vita di
Tony. Questi gli è rannicchiato contro, le dita aperte sul petto del Capitano.
L’accenno di un sorriso si evince dal baluginio delle iridi, dagli angoli
piegati delle labbra, da come non perde un singolo del gesto del marito.
Ride con lui, ridono entrambi, Steve
nasconde gli occhi dietro la mano, Tony gli rotola addosso e gli abbassa le
dita, l’altro lo scosta per gioco, Stark si aggrappa alle sue spalle, gli si
mette a cavalcioni, si guardano e ogni parola svanisce, ogni cosa scompare, è
assorbita, ridotta all’essenziale, a due sguardi, agli occhi, alle mani, alle
labbra che si cercano, ad un bisbiglio sulla fronte e un mormorio contro la
bocca.
Peter scivola via, le orecchie
pizzicano di rosso sulla punta e quando entra ratto nel salone sente lo stomaco
in subbuglio. Chiude le imposte alle spalle, zitto e cauto, svicola, in punta
di piedi, piano…
“Tu sei Peter.”
Ancora volta, sia dannato il Senso Di
Ragno.
Un sobbalzo ed il ragazzo si gira di
scatto. Non si sente così braccato dacché il respiro di Lyzard gli scivolava
untuoso sulla nuca e ne avvertiva il guizzare squamoso alle calcagna. Il
Soldato d’Inverno è un abbozzo a rilievo sulla parete: il bagliore bluastro che
dal pavimento aleggia a contornare la sua figura ha lo sgradevole pregio di
farlo somigliare ad una bambola assassina d e Peter si dà dell’idiota per aver
pensato un simile paragone in una circostanza del genere.
“Tu non eri in camera?”
Morditi
la lingua, Parker-Rogers-Stark, si intima, Stai parlando ad un killer professionista, non con un bambino di cinque
anni.
“Il sistema di controllo centrale è
andato fuori uso per sette minuti.”
Bella
mossa
e Peter deglutisce, più per azzittire la coscienza che per mero terrore. Di
nuovo, la mancanza di una qualunque reazione da parte del Senso Di Ragno lo
mette stranamente a proprio agio. Inoltre, non ci sono offerte spontanee di armi
od altri oggetti contundenti da parte dell’altro. Il che è un successo su tutta
la linea.
“Credevo stessi dormendo.”
“Ho dormito fino ad ora” mormora
Bucky “Sono rimasto addormentato e la mia vita è un incubo scandito di risvegli
di morte.”
Peter non sa cosa aggiungere, se non
un passo di distanza.
L’altro non protesta, pur seguendo la
sua brillante manovra tattica all’indietro con un che di divertito.
“Non era Jacqueline Falsworth, vero?”
“No.”
Forse dovrebbe reggergli il gioco, ma
non ci riesce. Immagina suo padre, al posto di Bucky, immagina come può essere
stato riprendere coscienza in un mondo senza più appigli su cui fare
affidamento, senza passato, senza persone care, ma pieno di lapidi, Alzheimer,
ideali disintegrati e action figures, carte da collezione, chincaglieria a
basso prezzo.
Mentire non servirebbe a nulla.
Peggiorerebbe soltanto il trauma della verità.
“Ma tuo padre è davvero Steve.”
“Sì.” Peter si umetta il labbro
superiore, la gola è un impasto di sabbia “Lo ricordi?”
“Ricordo un ragazzino di Brooklyn con
un cuore troppo grande, ed un corpo che andava in pezzi.” Scuote il capo “E’
passato tanto tempo e ho dimenticato molte cose.”
“Però sei qui.”
A volte Peter dovrebbe tenere a freno
la lingua ed è convinto che a suon di ripeterselo ne sarà in grado, un giorno.
Un giorno non meglio specificato, d’accordo, ma un giorno.
“Cosa intendi?”
C’è sospetto, ora, nella voce
dell’altro, ma il ragazzo ha colto una sfumatura di speranza e non intende
farsela scappare.
“Sei tornato qui.” Raccoglie un po’ le idee, cerca di esprimerle in maniera più
comprensibile. Ed è difficile, perché un concetto così semplice necessita di
molteplici parole per essere capito appieno. “Sapevi che l’avresti trovato a
Manhattan. Ti ricordavi di lui ad un livello più profondo della memoria.”
“Non esiste nulla di più profondo
della memoria.”
“Ti sbagli” lo contraddice Peter e
osa al punto di sorridere, incoraggiante “O non avresti ritrovato il volto di
Jacqueline, dentro di te. E non saresti rimasto qui. Stai cercando qualcosa, anche se non ne sei
consapevole. Sei spinto a farlo. Una parte inconscia di te ti sprona avanti.”
“Lui era la mia missione. Sono gli
ordini ad avermi portato qui.”
“E allora perché non lo hai ancora ucciso?”
Ottima domanda. Continua così, si
dice Peter, E vedrai che lo zio Phil ti porterà a Londra a conoscere Sherlock
Holmes, oppure convincerà Capitan Bretagna a presentarti il Dottore.
“Sto prendendo tempo.”
“Dicono tutti così.”
Mossa sbagliata.
Il volto del Soldato D’Inverno si
contorce, rabbioso, un ringhio stride in mezzo ai denti digrignati, ira e gelo
irrigidiscono gli occhi ridotti a fessure. Peter arretra, annaspa per la paura,
il Senso Di Ragno squilla e trilla, poi si spegne. Non è durato che un attimo.
Bucky sbotta, mostra le gengive
bianche, si stringe nelle braccia.
“Lui era la mia missione.”
“Lui era tuo amico.” Replica il
ragazzo, ripreso colore e contegno “Lo è ancora.”
“Ho cercato di ucciderlo.”
“Ma sei riuscito a salvarlo.”
L’altro trasecola e sbatte le
palpebre, sconvolto, confuso, perplesso.
“Me lo ha raccontato Tony” spiega allora
il ragazzo, calmo, scandendo lentamente le parole “Quando gli Helicarrier si sono
schiantati in acqua. Pensavano che papà fosse affogato e invece lo hanno
ritrovato sulla sponda, vivo. Papà…Tony”
chiarisce “E’ riuscito a scovare una ghost
page degli obiettivi modificati. Non c’era nessuno sui tre velivoli. Nessun
riscontro umano su cui scaricare il fuoco, tranne te. Capitan America
ovviamente non era considerato un obiettivo, scusa se giro il coltello nella
piaga. Comunque” si gratta la nuca, nervoso “Eri il solo che potesse
recuperarlo, dopo che è caduto.”
“L’ho salvato.” Ripete il Soldato
d’Inverno e l’impressione di Peter è quella di un uomo che assapori per la
prima volta un cibo meraviglioso “L’ho salvato.”
“Papà mi racconta sempre che vi siete
scambiati una promessa: uno con l’altro
fino alla fine. Se anche smettesse di sperare, non potrebbe mai venire meno
a questo.”
Bucky non dice nulla per minuti
infiniti. Gli arzigogoli delle piastrelle hanno la sua completa attenzione.
Quando rialza la testa, c’è una sicurezza tale nel suo sguardo che Peter è
sopraffatto: ha visto i cinegiornali degli Anni Quaranta più di una volta. E
non è il Soldato d’Inverno, quello che gli sta davanti: è lo zio Bucky, in tutto e per tutto.
“Promettimi una cosa, ragazzo: che
non ti farai ammazzare e non lo lascerai solo.”
“Lo prometto.” Un attimo di
perplessità “…Scusa?”
“Ti tengo d’occhio, Uomo Ragno.”
Il mattino dopo, il Soldato d’Inverno
se ne va dalla Tower.
Peter acconsente a togliere la
corrente a J.A.R.V.I.S. e sette minuti sono un’eternità per Bucky: è e stato
addestrato per passare attraverso le linee nemiche in meno di cinque. È un buon
allenamento, però, ed è l’ultima cosa che gli dice prima di correre via e
sparire nell’alba che balugina sulla linea dell’orizzonte.
Steve non è stupito della sua
scomparsa. Sorride, ma al figlio non sfugge lo sguardo che getta alle finestre,
quasi potesse scardinarle con la forza del pensiero, con la preghiera e la
speranza, annullare il paesaggio all’intorno e ridurre l’Universo ad una
piattaforma sconfinata dove occorre appena un battito di ciglia per raggiungere
l’amico perduto.
Quel giorno Tony non si eclissa in
Laboratorio. Augura buona scuola a Peter, quindi dà un buffetto affettuoso al
Capitano e lo avverte che lo accompagnerà a Washington D.C. per fargli da cane
da guardia. Ha una riunione o qualcosa del genere e scapperà se nessuno lo
terrà d’occhio.
Tutti sanno che la fantomatica
riunione verrà oh ma guarda un po’ cancellata
prima dell’atterraggio. Un’ottima occasione per fare una capatina allo
Smithsonian, mh?
Peter dondola tra i Palazzi di New
York ed è tranquillo.
C’è lui a vegliare sul grande cuore
di Steve Rogers. Lui, Tony…E la stella rossa che brilla e palpita sul braccio
metallico, un guizzo di scintille che il ragazzo intravede esplodere all’angolo
di un vicolo poco distante.