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Autore: BlackDrake    28/09/2014    3 recensioni
Assassin's Creed: Huntsmen è la storia di Havik Vögelson, appartenente all'ordine degli Assassini Scandinavi, antenato di Shay Cormac nell'era dell'Espansione Vichinga tra l'anno 833 dC e il 896 dC.
Una contesa tra Templari e Assassini per il possesso di un Frutto dell'Eden tra le rigogliose foreste svedesi e norvegesi, un mistero che avvolge la morte del padre di Havik, nuovi amici e nuovi nemici per quello che era un semplice cacciatore ed è diventato un seguace del Credo.
Genere: Avventura, Azione, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ASSASSIN'S CREED
HUNTSMEN
 
SEQUENZA 1
– Foresta di Tingvalla, Swealand, 853 dC

 
Nella solitudine della foresta era un uomo libero: ogni rumore, ogni respiro, ogni sensazione divenivano confortanti. Ora era immobile e poteva, meglio del solito, acuire quella piacevole condizione del suo spirito.
“Gli dèi mi sono favorevoli” pensò poggiando una mano sul tronco riverso che gli forniva il perfetto riparo dietro cui nascondersi nell’osservazione della radura antistante. “Skaði è con me.”
Nel cerchio verde in cui si trovava, l’erba era alta fino al polpaccio, umida di rugiada e invasa dagli insetti. Tutt’intorno una muraglia di pini lo circondava, come una schiera di anziani accigliati. Il silenzio invadeva quel luogo remoto, interrotto raramente dal canto lontano di un fringuello, uno scricciolo o un pettirosso.
Gli avevano detto che un branco di cervi era stato avvistato nell’entroterra fuori da Tingvalla, in una pianura a nord-ovest. Sapeva che i cervi rientravano nella foresta spesso per un riparo notturno o per proteggersi dai predatori, scendendo nei campi solo per nutrirsi il mattino presto. Stava sorgendo il sole, per cui presto sarebbero passati da quelle parti. Infine, la radura era un ottimo luogo d’osservazione: campo visivo sufficiente, spazio per tirare con l’arco, nessun intralcio in caso di fuga da lupi od orsi. Andando verso il luogo aveva notato tracce della notte prima e un po’ di escrementi in una zona riparata sotto degli olmi, perciò si era dato un tono confidando nella scelta giusta e nella dritta che gli avevano dato i viaggiatori provenienti da fuori.
“Gli dèi mi sono favorevoli. Skaði è con me. Quando arriverà il momento non sbaglierò il colpo.” Non l’aveva mai fatto: Havik si poteva considerare il miglior tiratore di tutta Tingvalla, anche se in molti non lo credevano e l’avevano sfidato più volte perdendo poi miseramente. Forse solo i guerrieri dell’arco, a difesa di Tingvalla, potevano competere con l’abile Havik Vögelson.
Vögel Heyrandi era stato suo padre e da otto anni Havik ne era orfano; da quel momento aveva iniziato ad allenarsi, e tirare con l’arco era diventata rapidamente la sua unica ragione di vita. “Ucciderò quel dannato orso” era stato per lungo tempo il suo comandamento: un orso infatti si era portato via suo padre, l’aveva dilaniato e lasciato a morire sotto la volta impassibile della foresta. Quella bestia doveva essere stata mandata da Loki in persona; aveva ingannato il suo povero padre e l’aveva ucciso con grande godimento e grande diletto. Havik ne era sicuro e per questo l’avrebbe fatto soffrire. Ma ancora dopo tutti quegli anni non aveva incontrato l’orso. Ne aveva visti molti, perlopiù femmine, ma anche alcuni maschi, eppure sapeva che nessuno di loro era stato il colpevole. Sentiva che quando avesse trovato il responsabile qualcosa nel suo cuore gliel’avrebbe mormorato, gli dèi avrebbero sussurrato la conferma e a quel punto la freccia avrebbe trafitto il fianco del brutale assassino. Ma adesso non c’erano orsi in quella foresta, solo cervi, innocui e innocenti cervi che avrebbero sfamato qualche famiglia giù a Tingvalla.
Sentì un solletichio alla mano sinistra. Ebbe una contrazione istintiva ma il fastidio non andò via. Guardò bene e notò un bizzarro ospite che gli faceva su e giù per le dita. Le sollevò una per una, e il grosso ragno dalle zampe nere e dalla peluria marroncina discese finalmente sulla corteccia muschiata dell’esanime pino. Gli sorrise debolmente avvicinandosi per osservarlo meglio. «Salute a te, signore dei tronchi di Tingvalla» lo apostrofò continuando a seguire i suoi incerti spostamenti. La bestiola zigzagò per poco allo scoperto e, alla prima fessura a portata di zampe, vi s’infilò impaziente di raggiungere l’agognato umido anfratto in cui avrebbe oziato per l’intero giorno.
«Al prossimo incontro, signore dei tronchi di Tingv...» Sentì un fruscio improvviso provenire dalla linea degli alberi opposta a lui. Con rapidità di mano e controllo dei movimenti si sfilò l’arco dalle spalle e lo portò sulle ginocchia, tenendolo saldo in pugno e non distraendosi per un secondo dal luogo interessato dal rumore.
Vide le nodose e sottili zampe dell’animale. Zoccoli neri sovrastati da una colonna di peluria color sabbia, sbiadita sull’interno fino alla pancia. Il ventre gonfio, i muscoli delle spalle tesi nella camminata sicura, il muso appuntito, gli occhi scattanti e attenti ad ogni minimo movimento circostante. I palchi erano appena accennati, non più lunghi del suo collo. “Un esemplare giovane” si rese conto afferrando una freccia per l’estremità piumata e iniziando ad incoccarla.
La bestia si avvicinò placidamente, emergendo quasi totalmente dalla guaina verde che la conteneva. L’erbetta fresca e più nutriente della macchia esposta al sole, l’aveva attirata, e si ritrovò a tendere il collo verso quei filetti invitanti. La freccia di Havik era già sospesa tra la corda e il legno, tenuta perfettamente parallela al terreno, attratta dal braccio del cacciatore e mantenuta in equilibrio tra indice e anulare della mano opposta. Sollevò un po’ la punta, non c’era traiettoria che non risentisse della parabola di caduta, neanche la più breve. Il vento era favorevole ed era quasi del tutto assente. Aveva però sentito pochi minuti prima una corrente provenire dalle sue spalle, perciò sperò che tornasse per ottenere la miglior combinazione. “È un sogno.”
Ancora qualche passo in avanti e il cerbiatto fu nell’ottica migliore di Havik, che incurvò le labbra in una smorfia di tensione e si preparò a lasciar vibrare la freccia nel vuoto. La preda alzò la testa. Forse aveva udito un rumore lontano: l’acuto di un fringuello, i passi di suo simile. Havik lasciò la morbida estremità caudale e per un attimo il tempo si fermò. L’asticella di pino vibrò flettendosi impercettibilmente, iniziò una rapida rotazione e le penne di corvo gli scivolarono tra le dita, sfuggendo poi al suo controllo. Vide il dardo volare basso sopra l’erba, iniziando la sua imperscrutabile discesa verso il collo dell’ignara vittima. Ma il cervo sapeva, o quantomeno aveva fatto credere ad Havik di essere un perfetto ingenuo, perché quando la punta fu a un palmo dal suo dorso maculato, mosse la testa quel tanto che bastò per evitare il colpo fatale.
Havik aveva gli occhi spalancati e gelidi per l’incredulità. “Non... non è possibile. Skaði che brutto scherzo mi stai tirando? O sei forse tu Loki, che ti fai beffe di me?” Balbettò qualcosa non riuscendo a chiudere nemmeno la bocca. Il cervo tese le gambe, pronto a balzare di nuovo nella macchia scura. Havik estrasse un altro fusto, lo incoccò, tese, mirò.
«Quant’è vero che verrà il giorno del Ragnarok, non me la farai stupido quadrupede!» sibilò rilasciando la sua vendetta sottoforma di legno e ferro.
Il cervo gli aveva già dato le spalle e fu raggiunto alla coscia dalla saetta di legno, che lo trafisse spillando una falce di sangue. Cedette per un momento, ciondolò su un lato, zoppicò e riuscì a saltare oltre i cespugli. «Testardo di un cornuto!»  Havik si sollevò e scavalcò rapidamente il muretto naturale. Non l’avrebbe di certo lasciato scappare, non dopo che aveva già migliorato le sue possibilità con un colpo andato a segno. “Dovevo centrarlo la prima volta” si disse immergendosi con un salto felino nel fogliame. “Un colpo ben mirato, dritto al collo: nessuna sofferenza, solo morte certa e onorevole. Forse avresti anche raggiunto il Valhalla e avrebbero banchettato con le tue carni gli Æsir. E invece no, hai voluto burlarti di me, e questo è il destino che ti toccherà ora. Correre dolorante per questi boschi, resistermi per poco e poi incontrare uno spietato fato, oppure sfuggirmi e crepare d’infezioni fra uno o due giorni. Rallenta, cervo, fidati. È meglio per te.”
Ma il cervo non rallentava. Havik fu costretto a seguirlo per lungo tempo, rischiando di perdere le sue tracce più volte, perché la sua agilità, per quanto elevata che fosse, non era comparabile a quella di una creatura dotata di quattro arti allenati e capaci di fargli spiccare salti di diversi metri in avanti. I tronchi diventavano inopportuni, sempre più frequenti, sempre più maleducati nel frapporsi sul suo percorso. E quando poi allungavano i loro molesti arti rugosi con l’intenzione di afferrarlo per le gambe, Havik bestemmiava loro contro e pregava che l’ira funesta di Thor mandasse un fulmine giù dal cielo, presto o tardi nel tempo a venire, in modo che divampassero in una straziante e luminosa morte.
«Fermati stupida bestia!» Havik era stremato. «Fermati!» gridò per poi piegarsi sulle ginocchia. Il fiatone gli riempì i polmoni, la cassa toracica era diventata un mantice e il petto era infiammato. Il cuore una fitta continua, palpitante e incontrollato. “Non sbaglio un colpo.” Non si sapeva spiegare il motivo dell’errore. “Che cosa mi è successo? No, è stata colpa sua. Non potevo prevedere quel movimento. Non rientra nelle mie capacità e nemmeno Vàli ci sarebbe riuscito. Esser un buon tiratore non significa esser altrettanto bravi nel prevedere il futuro. Quella è materia per i veggenti.”
Si risollevò e fece spallucce. Il petto aveva smesso di rimbombare, ma aveva il fiato secco e il freddo gli scorreva sotto le costole. Sentiva il suo torace come una fredda galleria d’inverno, piena di neve e ghiaccio, eppure la fronte era bollente e madida di sudore. Se la asciugò con il palmo dopo aver messo via lo strumento di caccia.
“Catturerò un paio di conigli. È il meglio che possa fare per oggi. Ho perso la mia occasione e mi derideranno al villaggio.” Girò i tacchi e tornò sulla strada oltre la radura.
 
I piccoli roditori dal manto argenteo pendevano legati per le orecchie come due impiccati, sussultando e rimbalzando contro la sua coscia ad ogni passo che faceva verso Tingvalla. Nel loro caso due frecce erano bastate e li aveva forati con tanta precisione che era riuscito a recuperare le asticelle pressoché intatte e rigide come non le avesse mai scoccate. Andavano rifatte solo le punte e pressoché anche il piumaggio era intonso e asciutto. “Certo, ma questi sono conigli, non la carcassa di un cervo.” Non riusciva ad accettare la sconfitta e anche a pochi passi da Tingvalla riprese a scuotere la testa maledicendo sé stesso a Loki.
Che prezzo gli avrebbero fatto per due conigli?  Dieci monete d’argento ciascuno? O un baratto di poco conto? Tingvalla non era molto rifornita di bottini dalle scorrerie in terra angla e quando si poteva ripagare con un favore o un’altra merce la gente ne approfittava. Tutti cordiali e accomodanti gli abitanti di Tingvalla. Ecco vide Hagen e Ulf i minatori tornare con il loro carretto ciondolante e rovesciarlo davanti alla bottega di Viggo Hargunson il fabbro. Si scambiarono calorosi saluti e risate, tutto in quell’ipocrisia della quotidianità da villaggio.
Kirk Mezza-gamba stava aprendo il banco del pesce e il puzzo invase la strada facendo storcere a un paio di lavandaie il naso. Passò di lì anche il giovane Thrand Scudo di Pietra, che con il suo sguardo di sufficienza giudicava tutti più di quanto non stesse facendo Havik. Lo oltrepassò e si accorse all’ultimo momento del ghigno che aveva messo subito dopo avergli guardato alla cintola. “Thrand Scudo di Pietra,” Si udì un tonfo alle sue spalle. “Che gli Æsir ti vengano a prendere.”
Un gemito seguito da una gorgogliante e strozzante supplica. Havik strizzò gli occhi cercando di definire ciò che aveva percepito. Si girò. Una figura di spalle che non era Thrand, lo capì con certezza subito, si frapponeva tra lui e l’odiato Scudo di Pietra. Thrand cadde in ginocchio e la figura sollevò la mano, dal cui polso si ritrasse uno spillone bianco e ancora gocciolante quello che sembrava chiaramente sangue.
Havik sbiancò, spalancando gli occhi come nel momento in cui aveva mancato la preda. «Che cosa... cosa avete fatto?» La figura non si girò. Al contrario scattò verso la capanna del pescatore, aggrappandosi alla grossa trave terminante in una testa di drago che sormontava l’ingresso alla baracca. «Fermati!» Come il cerbiatto, l’assassino a sangue freddo non diede ascolto ad Havik. Si aggrappò alle fasce del tetto di paglia nera e lo scavallò come fosse stato un muretto. Havik vide Thrand ai suoi piedi, non c’era più speranza per lui, ma poteva almeno fermare l’assassino e portarlo al cospetto dello jarl.
Aveva corso tanto quella mattina, ma per questa gara avrebbe tirato fuori tutte le energie che gli rimanevano. Sentì le gambe prendere vita e aggirò la capanna. Il colpevole in fuga era già ben lontano e non correva al suolo, bensì con acrobazie degne di una capra di montagna saltava da un ramo all’altro delle numerose conifere che popolavano la periferia di Tingvalla.
Ogni secondo era prezioso, ogni passo uno in meno verso il vile mascalzone che aveva ucciso l’onesto, seppur spregevole, Thrand Scudo di Pietra. La corsa di Havik si fece più intensa e dopo molti metri non sentì più le gambe, intorpidite e anestetizzate dallo sforzo senza più freni. E lui, il fuggitivo, pure non sembrava accennare a una benché minima incertezza nell’aggrapparsi al prossimo ramo o nel poggiare lo stivale sul tronco seguente. Havik avrebbe voluto volare, o quantomeno servirsi del percorso naturale fornito da quella vegetazione, proprio come stava facendo il suo inseguito.
Finalmente Miming, il dio dei boschi, decise che era ora di finirla con tutti quegli alberi e la foresta di Tingvalla s’interruppe nettamente, lasciando spazio ad alcuni costoni di roccia azzurra. Ma l’uomo che scappava non accennò a diminuire l’insistenza e la determinazione dei suoi salti. Spiccò un salto tremendo, aggrappandosi alle rocce con un urto che avrebbe spezzato anche le ossa dei più temibili guerrieri di Asgard. Havik non riuscì a trattenere un espressione di stizza, ma non perse il passo. Più in alto, là sopra, le rocce divenivano un altopiano di erba rada e gialla. Se l’avesse raggiunto sarebbero stati entrambi sullo stesso piano. Solo, percorrendo la via laterale che s’inerpicava lungo il passo roccioso, avrebbe perso per una buona dose di minuti l’infame in fuga.
“Non lo perderò. Devo avere fede” si rassicurò procedendo ad ampie falcate su per la via. Ora il petto lo sentiva di nuovo in fiamme, l’aria gelida aveva ripreso a ghiacciargli cuore e polmoni, il fiato si era dimezzato e gli ultimi cinque passi dovette farli con tutta la faccia che era un ammasso di rughe e vene gonfie.
Lo vide. L’assassino era là, cento fathom¹ più avanti. Si arrestò, le gambe non l’avrebbero portato lì, non in questa vita; prima l’avrebbero preso le valchirie, se avesse fatto un passo in più. Respirò a fondo. Le iarde tra loro due stavano aumentando.
Estrasse l’arco, sfilò una freccia, la incoccò. “Laddove non arrivano le mie gambe, arriverà il passo nel vento. Non sbaglierò il colpo. Gli dèi mi sono favorevoli.” Tese e scoccò.
Il dardo vibrò altissimo, con una parabola che se non fosse discesa, avrebbe sicuramente portato quella freccia su, su, e ancora su, oltre il Bifrost e fino alle porte del palazzo di Odin.
Non la vide nemmeno più nel momento in cui, discendendo, era scomparsa nell’incandescente luce del cielo d’autunno. Era divenuta una scheggia nera, una virgola su una pagina bianca. La scheggia venne inglobata dall’ombra sfocata che si stava allontanando. L’ombra si fece un punto e poi, più nessun movimento.
 
1: Braccio, unità di misura
   
 
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