1.
Uno sconosciuto in cantina
«Va’
a
prendermi una bottiglia d’olio» mi ordina mia
nonna, mescolando l’impasto della
frittata con la forchetta.
«Una di quelle in
cantina?»
«Sì, vicino al freezer».
Saltello
giù dalle scale fino al pian terreno, dritto verso la
cantina. È una stanza
molto ampia, dove solitamente depositiamo tutto ciò che non
ci serve, come un magazzino.
È rettangolare, con le pareti bianche e il pavimento di
cotto. Ringraziando il
cielo alzo lo sguardo solo dopo aver sceso anche gli ultimi sei
gradini, o mi
sarei sicuramente messa ad urlare come una pazza per poi ruzzolare
giù. Be’,
non capita tutti i giorni di scendere in cantina e ritrovarsi un
perfetto
sconosciuto accovacciato sul pavimento, no? Da panico, appunto. Okay,
Rebecca,
stai calma. «Okay, hai meno di tre secondi per dirmi chi sei
e andartene da
qui». Oh, e questa da dove mi è uscita? Maledetta
la mia stupida boccaccia, questo
tizio potrebbe farmi fuori da un momento all’altro per quanto
ne so! In
effetti, solo a guardarlo… Non tutti se ne vanno in giro con
anfibi cinghiati
alti fino al ginocchio, pantaloni di pelle (o più
probabilmente cuoio) e una
giacca piena di fibbie. Ah, e naturalmente tutto rigorosamente nero. E
ricoperto di armi da testa a piedi. In qualsiasi punto lo guardi ci
sono delle
armi. Una spada corta ancorata ad ogni stivale, una lunga appesa in
vita, due o
tre pugnali agganciati alle braccia, un arco fissato alla spalla destra
coordinato ad una faretra legata alla coscia sinistra; e per finire un
bastoncino trasparente di circa 15 centimetri in mano. Be’,
sì, quello non fa
tanto paura… però emette fumo come una sigaretta,
è preoccupante? Solo il fatto
che ci sia uno sconosciuto in cantina è già
abbastanza, direi.
A
primo impatto sembra un drogato (e già mi chiedo come abbia
fatto un tizio del
genere ad entrare nella cantina di una casa di campagna con cancello di
ferro
battuto incluso), ma sono sicura che uno così non andrebbe
in giro con degli
stupefacenti in corpo. Avrei preferito un drogato, a questo punto.
Anche perché
ha un’aria un po’ omicida, ma giusto un filino.
Lentamente, molto lentamente, troppo
lentamente si solleva dalla posizione accucciata che aveva assunto in
precedenza
e mi squadra, dal basso verso l’alto, sorpreso e con un
pizzico di
disprezzo. «E
tu non ne hai neppure uno
per dirmi perché riesci a vedermi».
Oh mio Dio, adesso mi uccide. Questo qui è pazzo,
è pazzo e sta per
farmi fuori. E poi che domande fa? Fossi anche una talpa, uno
totalmente
vestito di nero e ricoperto di armi lo vedo anche al buio. No, magari
al buio
no, ma il concetto è quello.
«Quando sono
nata sono stata dotata di un’ottima vista, se questo
può aiutarti». No, no, no,
non fare l’impertinente come tuo solito, non adesso se non
vuoi che ti
ritrovino in un sacco di plastica nascosto dietro un tavolo fra
chissà quanto!
Lui mi squadra con aria di sufficienza, deve aver capito che posso
danneggiarlo tanto quanto un gattino impaurito. Che è
esattamente ciò che devo
sembrare adesso.
«No, non mi aiuta. Ma forse sai spiegarmi cosa diavolo
è quello». Usa un
tono ironico, come se fosse sicuro che io sappia cosa diavolo
è quell’enorme
rientranza nel muro che fino a ieri non c’era. Credo. Direi
di no, a meno che
per diciassette anni io non abbia avuto le allucinazioni e visto sempre
la
parete completamente liscia, cosa che non credo affatto. Fatto sta che,
proprio
dove solitamente si trova un tavolo da biliardo ormai inutilizzato, ora
c’è una
gigantesca rientranza che si intona perfettamente al resto della
stanza, come
se rientrasse nel progetto della casa.
«Allora?»
chiede il tizio, battendo innervosito un piede sul pavimento. Oh, e
adesso cosa
gli dico? Non che abbia l’obbligo di rispondergli, in
realtà, ma non ho tutti i
neuroni connessi, ora come ora. Ok, vada per l’indifferenza,
tanto che ne sa
questo di casa di mia nonna?
«Allora
che? Quella è una parete, non ti sembra? Hai presente, un
insieme di cemento e
mattoni…? Ecco, esattamente quello. Nulla di strano,
no?» concludo la mia
piccola recita con un’alzata di spalle, sperando che regga.
Fa’ che la beva,
per favore fa’ che la beva…
«Smettila. Non ho tempo per stare dietro alle tue penose
scenette e lo percepisco
anche da solo che quella cosa non
è
normale» ribatte sollevando un sopracciglio. Non se
l’è bevuta. Perfetto. C’è
anche da dire che nelle recite scolastiche facevo sempre
l’albero, compreso a
quattordici anni. E incredibile come ogni volta ci sia bisogno di un
albero,
vero? Ma sicuramente è ancora più incredibile che
la scuola imponga le recite fino in
terza media. È
per questo che amo il liceo… Comunque, basta con queste
distrazioni, ho un
intruso in cantina da cacciare via prima che mia nonna se ne accorga. E
mi
chiedo perché quella vecchia acida non si sia ancora
affacciata dalle scale a
urlare di darmi una mossa. Mai che ci sia quando serve…
«Ok,
adesso finiscila. Non so chi tu sia né cosa tu ci faccia
qui, ma se non te ne
vai in fretta giuro che mi metto ad urlare più forte che
posso». Wow, che
minaccia da vera tosta. Per tutta risposta lo sconosciuto, che comunque
è un
gran pezzo di figo, ma questi sono dettagli, si avvicina con passo
felpato e
con un ghigno fintamente serafico stampato in faccia.
«No, non lo
farai. Primo, perché tua nonna non ti sentirebbe neanche se
le urlassi in un
orecchio e, secondo, perché non ti converrebbe».
Allunga il bastoncino di
cristallo che ha in mano (e di cui mi ero momentaneamente scordata) e
me lo
poggia sulla punta del naso. È caldo, ma ben presto diventa
rovente.
«Ahi, brucia! – esclamo spostandomi in fretta
– Che diavolo è
quell’affare?» domando tenendomi ben a distanza.
Lui lo ripone con nonchalance in una tasca lunga e stretta sotto il
braccio. «Uno stilo. Nulla di tua possibile conoscenza, per
fartela breve. Alec
Lightwood, comunque». Mi tende una mano con noncuranza, come
se non mi dovesse
alcuna spiegazione e lo scocciasse già parecchio. Mano che
lascio sospesa in
aria senza afferrarla.
«Rebecca» e non aggiungo altro.
Lui
sorride, credo che abbia capito di aver trovato pane per i suoi denti.
«Bene, Rebecca. Per
l’ennesima volta… cos’è
quello?»
Mi
mordo il labbro inferiore, preoccupata. Non credo che vogli uccidermi,
immagino
che tutte quelle armi le sappia anche usare se le porta con
sé con
tranquillità. E va bene, sarà la più
grande cretinata della mia vita, ma voglio
fidarmi. Devo essere io quella impazzita ora.
«Non lo so» confesso.
Lui
mi guarda confuso. «Che vuol dire che non lo sai?»
«Esattamente quello che ho detto, che non so cosa
sia».
La
sorpresa sul suo volto aumenta sempre di più.
«Stai dicendo che non sei stata
tu a farlo?»
Adesso tocca a me guardarlo
sbalordita. «E perché mai avrei dovuto? E,
soprattutto, come avrei fatto,
scusa? Con la magia, forse?» chiedo. Be’, la sua
risposta se possibile mi
spiazza ancora di più.
«Pesavo di sì, l’odore si
sente da metri di distanza».