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Autore: Drosophila Melanogaster    29/09/2014    2 recensioni
Quello che vedevo era solo bianco candido. Ospedaliero. Una immensa sala operatoria, e tubi, e luci abbaglianti.
Quello che sentivo erano suoni ritmici, elettrocardiogrammi troppo lenti.
Sulle labbra sentivo il sapore dell'ammoniaca nell'aria.
Avanzavo nudo, nero in mezzo a tutto quel candore. Camminavo a testa alta, legato come un cane.
[Prima classificata al contest 'Io e te alla fine del mondo']
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Sovrannaturale
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Capitolo II




Stringo a me la sacca di pagliuzze intrecciate. Dentro giacciono alcuni sassi appuntiti, il mio teaser scarico e la lama del coltello. Solter, così si chiama il mio salvatore, stringe la pistola della quale ha conservato i colpi, una granata risalente alla guerra, stranamente intatta, ritrovata per puro caso in fondo alla grotta. Mi guarda. Gli occhi scuri dal bulbo bianchissimo mi intercettano mentre passo la mano aperta sulle pareti della grotta. Mi volto a guardarlo e mi avvicino per stringermi al lui. Bacio le sue labbra, una sorta di bacio d'addio.
Il giorno è arrivato. Torneremo nella madre per curare quella grossa ferita infetta che è per il genere umano. Sappiamo che moriremo. Per questo il nostro è un bacio d'addio.
Scendiamo lungo il fianco della collina che negli ultimi due anni si è inasprito, rendendosi pericoloso e sdrucciolevole. Scivolo velocemente con i piedi a tavoletta, lasciando alle mie spalle una nuvola di polvere dentro la quale scivola Solter. Lascio che la sabbia rossa mi sporchi le scarpe già zozze. La porta da cui siamo usciti é murata, vogliono impedire che qualcun altro scappi. L'unico modo per entrare, mi dice, é passare per le fogne. Saremo nella stanza degli uteri una volta arrivati. Da lì sarà facile raggiungere la Madre e prenderci ciò che ci spetta. Una vendetta sanguigna che profuma di libertà.
Ci inoltriamo nei condotti che puzzano di marcio, mi copro la bocca con la mano e ho un conato di vomito. Lui cammina davanti a me, la pistola carica in mano e la caviglia che si é slogato scendendo dalla collina a ciondoloni. 
Lo vedo barcollare nella melma scivolosa che copre il fondo del condotto in cui camminiamo. Gli bracco il fianco, lascio che appoggi il suo peso sulla mia spalla. Amo il sorriso bianco che vedo crearsi sulla sua bocca nera. La bacio in mezzo a quello schifo, ho bisogno di sentire che é vicino a me, schiacciato al mio corpo, sentire che la sua vita io posso salvarla. Saldare il mio debito, amarlo fino alla fine del tempo che ci é concesso. Di tanto in tanto sopra di noi si apre una grata. Alzo gli occhi ogni volta, cerco di riconoscere le stanze tutte uguali sotto le quali passiamo. Vedo i tavoli della sala mensa, quella stanza in cui si consuma il Primo Pasto. La, dove i dormienti vengono intubati e costretti ad ingurgitare omogeneizzati per poppanti, dove le loro mani vengono bruciate con i mozziconi delle sigarette e le loro labbra trafitte dalle forchette di plastica. Sfioro le labbra di Solter, percorro con il polpastrello le sue cicatrici. Una lacrima lascia il mio occhio destro, piena di senso di colpa. 
Se solo avessi potuto fermare la mia mano. 
Sopra di noi altre grate, luce bianca che ci illumina come farebbe la mano di Dio. Bestemmie escono dalle nostre bocce all'unisono. Si arrampicano dal fondo dello stomaco e sbattono tra i denti prima di sgusciare fuori e salire in alto.
Scalette di ferro battuto poco stabili collegano il fondo del tubo con le grate, per la manutenzione immagino, non devono essere consumate dall'usura.
Il mio stomaco si contorce stretto in una morsa, ricaccio lungo l'esofago grosse boccate di acido. 
Vorrei svegliarmi, trovare la sua mano sulla mia fronte, che mi rassicura. Tutto un sogno, un grosso incubo. Tutto falso, Alceo. Hai anche un nome vero in questo mondo libero.
Mi gratto con insistenza il punto in cui è tatuato il mio numero, sull'avambraccio. La pelle diventa rossa, quasi lucente, la scortico con le unghie mentre continuo a camminare verso l'ultima grata. 
Svegliami.
Lo imploro. Mi aggrappo alle sue spalle.
Svegliami. Non voglio morire. Svegliatevi tutti.
La paura mi ha stretto, alla fine è arrivata. Non piango nemmeno mentre ci arrampichiamo sulla scaletta e lui sfonda con il pugno la grata di stagno, tagliandosi le nocche e sanguinando. 
Alzo gli occhi suo cilindri in cui galleggiano gli uomini e le donne dormienti. Vedo le loro ferite macchiare il liquido amniotico di un rosa ormai pallido. Sono passate circa due settimane dall'ultima nascita, guariscono in fretta.
Una morse mi stringe la gola, non respiro. La puzza della candeggina mi fa lacrimare gli occhi. Sento le sue mani stringermi da dietro attraverso la patina delle lacrime. Mi bacia sul collo, mi dice che è quasi finito, siamo quasi arrivati.
Corriamo. C'è solo lui, lo vedo davanti a me. La sua schiena ampia a cui mi sono aggrappato mentre facevamo l'amore. Sentiamo dall'alto i gemiti strozzati delle generatrici, la risata della Madre che incombe su di loro. Sentiamo i vagiti dei piccoli dormienti, pesano su di noi i silenzi di morte degli StillBorn. Una processione vestita di nero, con visi funerei, e fagotti candidi e inermi tra le braccia, sfila da una porta grande poco più di un uomo, per entrare nelle aree riservate alle caritatevoli. Un'iniezione di vita scuote i piccoli petti quando toccano la pelle delle donne dai capelli bianchi e gli occhi incavati. Le vecchie attaccano i bambini ai loro seni smunti, latte anemico zampilla tra le loro labbra acerbe e posso ancora sentirne il sapore tra i denti. Acido e miele, sotto lo sguardo sottomesso di mia madre.
Devo trovare la forza di correre, andare a mettere il punto a questa carneficina. Sento il sangue dei piccoli dormienti scorrere tra le dita.
Solter mi corre dietro, alla velocità della luce, con i muscoli che dolgono, l'acido lattico alle ginocchia, corriamo verso la porta nera, la vagina di cemento da cui esce la processione. Figure cieche come i gatti appena nati, non ci vedono, o forse fingono di non vederci. Perché anche loro odiano questo massacro.
Dentro tutto è un urlo, una smorfia infinita. Tutto è sangue, e liquido amniotico e placente che vengono espulse da donne senza volto.
Le sirene suonano alte e rumorose. Sanno che siamo qui, Stanno venendo a prenderci e non abbiamo più tempo.
Con la mia lama taglio tubi e cordoni ombelicali. Sono sporco di sangue, lo sento sulle labbra, ferroso e denso. Lo vedo pugnalare una a una le donne che lo implorano di farle fuggire, di liberare le loro anime consumate, di mandarle ad un inferno migliore.
Piango mentre sento i loro ultimi respiri levarsi dietro la mia testa e continuo a fare strage di ciò che ho davanti. Giganteschi uteri di vetro, feti concepiti artificialmente, uno è nero, lo fermo. E' figlio tuo, gli dico, non ucciderlo. Lo vedo uccidersi, uccidere quell'agglomerato di cellule di poche settimane. Lo vedo mentre recide la carotide minuscola, la vede sotto la pelle nera e trasparente.
Infame, gli dico, stupido. Non mi ascolta, vuole vendetta.
L'esercito sta penetrando la figa di cemento, uno dopo l'altro entrano, ci vedono, corrono. I teaser puntati, i fucili carichi. Urlano che se ci arrendiamo, se ci fermiamo ora che siamo così vicini alla vittoria, ora che la donna legata sopra la nostra testa, ora che la Madre può essere uccisa, allora ci risparmieranno.
Li guardo, uno a uno. Prometeo, Medoro, riconosco ciascuno di loro, Nerciso, Virgilio, Nerone, i vostri grandi nomi. Grandi nomi, e siete così piccoli.
Allungo il braccio sopra la testa, recido il ventre della Madre e vengo invaso da una colata di sangue e intestini. Mi cade addosso, l'esofago mi si contorce in un conato di vomito. L'acido dello stomaco mi sfugge di bocca in un fiotto giallognolo, si mischia al muco che mi ricopre la faccia.
Sento degli spari, non ci vedo perché il suo fegato mi penzola sugli occhi. Solter grida, mi grida di scappare. Non mi muovo, le ginocchia sono paralizzate e sono di nuovo atterrito. Spari, altri spari, e un corpo nero davanti al mio.
Altri spari, braccia nere che mi stringono violente.
Grida, labbra che baciano la mia fronte, dita tra i capelli.
Spari. Un peso morto, le mi lacrime sul suo naso, sulle sua labbra. Lo cento cedere, la mano che tengo dietro la sua schiena si bagna. La alzo, mi scrollo di dosso le interiora della madre e li vedo cadere uno a uno.
Solter non respira, mi sta addosso ma non respira. Le sue mani sono ancora calde, la mia è rossa del suo sangue.
Vedo i soldati cadere come foglie, sul viso del mio Dormiente si cela un sorriso. Lo bacio, bacio quella bocca senza vita. Bacio le sue labbra che si raffreddano e mi dispero.
Vorrei finire. Ho finito. La Madre cade, tutti cadono e muoiono. Lui è caduto, è morto, e ancora stringo la sua carcassa tra le braccia.
Ti amo, ripeto, ti amo, sussurro, ti amo, grido forte.
Mi senti?
Ti sento.
Fa freddo.
Il mio sguardo è nero, la tua pelle è nera, il tuo cuore è bianco puro e bellissimo.
Incontriamoci nel Ventre di Maria.










 
   
 
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