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Autore: venerdi 17    01/10/2014    5 recensioni
Il mondo, tu, stretto in una mano, la mia.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Dunque, nell’avviso precedente ho scritto che cancellerò questa storia per revisionarla, e lo farò, ma visto che qualcuno mi ha chiesto di aspettare un po’ perché doveva ancora finire di leggerla e già da un po’ avevo buttato giù queste due righe e, ok, Russel è Russel, questo non è in discussione, ma lo stesso provo un amore viscerale per Dario, prima di lasciarvi ho pensato che, anche se corto e a mala pena riletto, vi avrebbe fatto piacere sapere come se la passa il mio bel testardo moro dagli occhi verdi.  
 
 
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JE SUIS VENUE TE DIRE QUE JE M’EN VAIS
 
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DARIO
 
Mettere definitivamente la parola fine a un rapporto sul quale avevi riposto grandi speranze per il futuro è sempre doloroso, anche quando sai con certezza che la vera fine è già passata da un pezzo e che sarebbe tempo di pensare piuttosto a un nuovo inizio per tentare di reinventarsi. Poi, un giorno, un giorno che sapevi benissimo sarebbe arrivato, ricevi uno scossone, e non puoi più rimandare. Così cominci ad assemblare quel poco che sei riuscito a trarre in salvo di te stesso e fai l’unica cosa sensata che puoi fare: provi a vivere, anziché sopravvivere soltanto.
Per me quel giorno è arrivato un venerdì. Un venerdì 17.
Era gennaio, faceva freddo ed era tutto il giorno che pioveva, ed io, come sempre, non avevo voglia di far niente, però almeno quel pomeriggio avevo la scusa del tempaccio per starmene rintanato in casa, con la tuta che pendeva sui fianchi ogni giorno più sottili, la barba un po’ troppo lunga e la voglia e l’ispirazione per scrivere un articolo pari a zero.
Ero seduto alla mia scrivania da due ore e avevo scritto solo quattro righe, così non provai alcun senso di colpa quando, senza nemmeno perdere tempo a rileggerle, ci passai sopra il cursore e con un colpo secco e stizzito le cancellai.
Malgrado tutto, la giornata però cominciava a volgere al meglio: erano passate da qualche minuto le quattro, quindi potevo farmi un goccetto.
Un paio di mesi prima mi ero svegliato a terra, tra il divano e il tavolino che traboccava di bottiglie di birra e super alcolici ormai vuote, non ricordando da quanto tempo ero lì mezzo morto e nemmeno che giorno fosse. Quando qualche ora dopo mi sentii più lucido, conclusi che anche se sbronzarmi poteva essere accettabile, e spesso raccomandabile, dovevo per lo meno tentare di evitare che succedesse ogni santo giorno, ma soprattutto non potevo farlo cominciando a bere fin dalla mattina. Così, le quattro erano l’ora in cui potevo farmi una birra, mentre i super alcolici erano riservati esclusivamente a dopo cena, e solo se affettivamente avevo cenato, cosa che in quel periodo non facevo spesso. Anche il piacere di mettermi ai fornelli era totalmente sfumato da quando non c’era più lei.
Fuori continuava a piovere insistentemente e scemato completamente il suono di un tuono lontano, mentre bevevo il secondo sorso di birra e annoiato facevo zapping, squillò il telefono e un brivido mi risalì in fretta dalle reni alla nuca. Quando mi alzai dal divano e vidi il nome sul display del telefono, mi congratulai in silenzio con me stesso per l’intuito che mi aveva suggerito immediatamente chi mi stava chiamando. Ma il compiacimento mi abbandonò in fretta, sostituito dalla consapevolezza che non era stato affatto intuito, perché la verità era che non pensavo ad altro da giorni e che ogni volta che il mio telefono suonava pensavo sempre e soltanto che fosse arrivato il momento di affrontare una volta per tutte la realtà.
Mi feci coraggio, e dovetti recuperarne molto di più di quanto avessi pensato, per portarmi il telefono all’orecchio e rispondere: «Anna!» esclamai, carico di falso entusiasmo e combattendo con la nausea che dallo stomaco stava salendo implacabile fino alla gola.  Strinsi con forza il telefono in una mano e la bottiglia di birra nell’altra, pensando che se avessi saputo che quello sarebbe stato il gran giorno, avrei trasgredito alle regole e avrei macchiato il primo caffè del giorno con la grappa, pranzato con la Vodka e fatto uno spuntino con il Bourbon, così forse in quel momento non sarei stato in grado di rispondere e avrei potuto continuare a ignorare un altro po’ la realtà e posticipare quella conversazione. Conversazione che, anche se avevo voluto io, in quel momento sentivo di non desiderare più un granché.
Stronzate! Non solo non la desideravo, ma sentivo forte l’impulso di scagliare il telefono contro la parete, sprangare poi porte e finestre, spengere il computer e tirar via la spina del telefono fisso per poter andare in letargo come un orso, e magari non svegliarmi nemmeno all’arrivo della primavera, già, possibilmente avrei preferito non svegliarmi più.  Ma in quel momento ero sveglio, ero sveglio e Anna mi stava chiedendo come stavo. Cristo! Cosa avrei dovuto dirle?
“Oh, come vuoi che stia? Una favola! Sai, quando alzo troppo il gomito riesco addirittura a pensare che malgrado tutto sono stato fortunato ad averla avuta con me, anche se per poco. Poi però mi passa la sbronza e maledico il giorno in cui le sono andato addosso con l’auto e i miei tentativi andati a buon fine con cui sono riuscito a strapparle un appuntamento. In quei rari momenti in cui mi sento vivo e mi sembra di ragionare un po’ lucidamente, invece vorrei andare fino a Los Angeles per ammazzare lui e riprendermela.”
No, non potevo decisamente risponderle così, ma dovevo lo stesso dirle qualcosa, anche se il groppo che avevo in gola mi stava impedendo anche solo di respirare. Scelsi saggiamente di sviare la domanda sul mio stato di salute psico-fisico, non solo perché non mi andava di inventarmi balle che la tranquillizzassero, ma soprattutto perché avevo l’urgente necessitò di farle io una domanda, e dovevo farlo subito, prima che l’angoscia e la preoccupazione m’investissero del tutto. Così, fregandomene di passare per maleducato, senza risponderle e senza nemmeno salutarla, con un fil di voce che tradiva la mia inquietudine, le chiesi: «Come sta lei?»
La risata di Anna mi raggiunse prima della sua risposta, e anche questa volta il mio intuito non fu necessario, perché era così allegra che mi rilassai immediatamente.
«Bene, stanno bene, sia lei che il bambino»
Provai immediatamente sollievo. Ero perfettamente cosciente che fin da quando Anna mi aveva informato della gravidanza di Rebecca, oltre agli istinti omicidi, la frustrazione e altri miliardi di stati d’animo negativi che a fasi alterne contrastavo o assecondavo, provavo anche una costante apprensione per timore che qualcosa durante la gravidanza o il parto potesse andare storto.
“Stanno bene, sia lei che il bambino.”
Be’, io avevo chiesto solo di lei, non del bambino, in tutti quei mesi non avevo pensato nemmeno un minuto a lui. Non me ne fregava proprio niente di lui, anzi, nei momenti di maggiore rabbia ho pensato anche che lo odiavo. Non solo, pensavo proprio che il mio odio nei suo confronti fosse totalmente giustificato e non provavo nemmeno un briciolo di vergogna, perché quel bambino aveva preso il posto di mio figlio. Era stato desiderato, sarebbe stato amato e coccolato, mentre il mio…
Strinsi con maggior forza la bottiglia per scacciare i ricordi dolorosi che riaffioravano con testarda costanza e sfiancante determinazione, uno fra tutti era oramai come un parassita annidato nel mio cervello che probabilmente avrebbe continuato a crogiolarsi là dentro fin tanto avessi vissuto anch’io: il momento in cui scoprii che stavo per diventare padre e l’attimo immediatamente dopo in cui invece capii che non sarebbe mai successo.  Quanto ho odiato Rebecca in quel momento! E per quanto io cerchi di ignorarlo negandolo a me stesso con ogni mezzo a mia disposizione, alcol compreso, so perfettamente che quel giorno capii anche che lei non mi amava e che non l’avrebbe mai fatto, non almeno come io amavo lei. Ma la volevo lo stesso, malgrado tutto e… Merda! Avevo già ricominciato a divagare, a ricordare, a fare mille congetture su cosa avrei dovuto fare per tenerla con me, e come sempre la prima cosa che mi rimproveravo era non averle impedito di partire. Forse, se non fosse andata a Los Angeles, se fosse rimasta qui con me…
Mi sembra ieri quando mi disse che stava per partire, ricordo il suo nervosismo, lo sguardo sfuggente, il modo distratto con cui spilluzzicava dal suo piatto, il suo piede che batteva incessantemente sul parquet della mia sala da pranzo.
“Vado per un po’ a Los Angeles.” Poche parole e subito la sentii così distante, ma come un cretino le sorrisi prendendole una mano per tranquillizzarla, pensando che se era tempo ciò di cui aveva bisogno, glielo avrei dato, l’unica cosa che m’importava era che poi tornasse da me. Per sempre, e non solo fisicamente.
Ma invece non è più tornata. Ha voltato definitivamente pagina, ha conosciuto un uomo, si è innamorata di lui e hanno avuto un figlio, mentre io sono ancora qui a girovagare in questa casa che avevo comprato per noi e vivo di ricordi.
Sentivo la voce di Anna solo come un bisbiglio, parlava del bambino, del suo peso, del nome che gli avevano dato, di quanto fosse eccitata all’idea di raggiungere sua nipote la settimana seguente per vederlo di persona, e ogni notizia in più che mi dava era un tassello che si aggiungeva alla consapevolezza che ormai era tutto finito, che dovevo andare avanti, smettere di vivere di soli ricordi, stiparli da qualche parte e scordarmi di loro per sempre. Cristo! Non ci sarei mai riuscito, già solo stare in quella casa mi faceva pensare a Rebecca, la vedevo ovunque. E forse era per quel motivo se ancora non ero riuscito a metterla in vendita. Sentii una stretta al petto immaginando lì dentro qualcun altro che non fossimo io e Rebecca. Spazio ce n’era a sufficienza, era una casa perfetta per una famiglia, quella che non saremmo mai stati noi due, non insieme almeno.
Raggiungendo lo studio come una furia repressi un gemito di dolore, poi con la rabbia che non riuscivo più a trattenere cominciai a rovistare nei cassetti della scrivania. Parlavo del più e del meno con Anna, o meglio, lei parlava e io grugnivo qualche sì o no in risposta, mentre rivoltavo carte e spostavo cianfrusaglie che non sapevo nemmeno di avere, alla ricerca di quel dannato bigliettino da visita che ero certo di avere ancora. Finché lo trovai e, rigirandolo tra le dita, capii che se non l’avessi fatto subito non l’avrei mai fatto. E non potevo rimandare, non più.
«Anna, perdonami ma devo fare una telefonata urgente»
«Oh, scusa se ti ho rubato un sacco di tempo» il suo tono era allegro e amichevole come sempre «Ma sai come son fatta, quando comincio con le chiacchiere non mi fermo più»
Sorrisi perché era vero, ma a me non dispiaceva, anzi, mi ero affezionato a lei e apprezzavo i suoi tentativi di tirarmi su il morale, poi in fondo ero stato io a chiederle di avvertirmi quando Rebecca avesse partorito.
Ci salutammo come due vecchi amici ma prima che riattaccasse le dissi un’ultima cosa: «Anna, devi farmi un ultimo favore, quando sarai là, da’ un bacio al bambino da parte mia» sapere che l’avrebbe fatto fu come passare uno straccio sulla mia anima per ripulirla, avevo odiato quel bambino già da prima che nascesse, pur sapendo che sbagliavo e che non era con lui che dovevo prendermela, ma non avevo alcuna intenzione di continuare a farlo. Di più: non avevo alcuna intenzione di prendermela con nessuno, nemmeno con me stesso.
Riattaccai il telefono, mi sedetti davanti alla scrivania e in fretta composi il numero dell’agenzia immobiliare per fissare un appuntamento per vendere la casa. Da qualcosa dovevo pur cominciare per poter arrivare davvero un giorno a mettere la parola FINE.

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Per il momento vi saluto e vi ringrazio, e non sarebbe male qualche vostra impressione, anche critica, che possa aiutarmi a fare un lavoro sensato con la revisione. Alcuni punti deboli della storia li conosco, ma magari voi potete suggerirmene altri su cui lavorare.
Abbiate fede, non è che sparisco, a breve riprenderò in mano sia PECORA che D.A.D.
V.17
   
 
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